La difficile resilienza degli ottimisti

Economia | 29 dicembre 2014
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“Carissimo signor Tentenna
non è facile assumersi il rischio di una scelta
e servirsi addirittura di parole proprie,
mimetizzarsi e vivere di luce riflessa
in fondo ad acque torbide
tra miseri inganni e menzogne,
complessi di inferiorità,
ingombranti manie di grandezza.
Signor Tentenna non è motivo di vergogna
il non saper centrare alcun bersaglio,
l'aver mancato l'ennesimo colpo irrimediabilmente.”

Sono versi di Carmen Consoli, la cantantessa che ha saputo sintetizzare con due versi di un'altra canzone, ciò che amo della mia lontana adolescenza: “Nitido scorcio degli anni sessanta di una raggiante Catania”.

Il mio pensiero, in questi giorni di festa segnati dalla preoccupazione di tanti per il futuro prossimo, va alla situazione che viviamo nell'anno ottavo di una crisi che sembra non aver mai fine e in un  paese che ha perso coscienza di sé e speranza del proprio avvenire. Sto leggendo i questi giorni, regalato da un amico che mi ha in passato suggerito altri libri di grande interesse, “Resilienza” di Andrew Zolli. La resilienza per gli ingegneri è la capacità di un materiale di reggere agli urti senza spezzarsi, per gli psicologi è la risorsa che consente di superare più rapidamente traumi e dolori. Oggi, di fronte alla grande recessione che ha caratteristiche del tutto nuove anche rispetto alla profonda depressione che colpì il mondo la fine degli anni venti del secolo scorso, il concetto affascina soprattutto gli economisti perché gli sconvolgimenti che stiamo attraversando colpiscono sempre più frequentemente ed in modo sempre più irregolare, sfuggendo ad ogni previsione.  Nessuno ha  a disposizione risposte facili in un mondo che, contemporaneamente, diventa sempre più interconnesso e sempre più diseguale.  Né all'orizzonte si vede alcuno capace di proporre una sintesi nuova e un'utopia capace di ricostruire la speranza di un cambiamento. Appartengo ad una generazione fortunata, che  non ha  conosciuto l'esperienza diretta della  guerra, ha vissuto la scuola come strumento di crescita personale e sociale, ha potuto scegliere il proprio lavoro. Ma è anche la generazione che non ha saputo porre le fondamenta per un paese diverso ed ha perso l'occasione di cambiarlo, smarrendo se stessa nella logica della gestione del potere. Non credo di aver bisogno di motivare la mia distanza innanzitutto culturale da Renzi e dall'entourage che lo circonda. Però, con altrettanta franchezza, Renzi non è figlio  della Democrazia Cristiana né di Berlusconi, ma dei fallimenti della sinistra italiana, della sua incapacità di fare i conti con se stessa, dell'illusione di poter evitare di scegliere, della cannibalizzazione dei suoi leaders. Per questo il dibattito italiano, anche sulle questioni dell'economia, è avvitato su se stesso e sembra lontano, dal tentativo che in molti parti del mondo- fuori e dentro l'Europa - è in corso  per ritrovare le strade del cambiamento  e gli strumenti per costruire un mondo meno diseguale e più giusto. Ancora una volta mi aiuta una citazione, di Ermanno Rea ultraottantenne scrittore napoletano (i vecchi hanno davvero il dono della profezia, come sostenevano gli antichi greci?): “Fonderemo...un mondo nuovo, qui nella nostra landa desolata, un mondo di eguali, fatto di parsimonia ma anche di felicità, di creatività, di lavoro gratificante. Trasformeremo in vantaggio la nostra sfortuna; riempiremo di fiori i  nostri balconi e ci proporremo come esempio a tutti: vedete sin dove possono arrivare coloro che sanno coltivare in cuore grandi progetti?” Si, di questo  abbiamo bisogno: di coltivare in cuore grandi progetti, il più importante dei quali è un'Europa della pace, dell'eguaglianza e della crescita sociale che abbandoni l'idea miope e ragioneristica  dell'austerità e offra un avvenire ai nostri figli, ai quali rischiamo di lasciare un mondo peggiore di quello nel quale noi abbiamo vissuto. Di questo ho voglia di parlare oggi, anche se i tanti signor tentenna mi spiegheranno che “ben altri” sono i problemi.  Poi, naturalmente, torneremo ad occuparci di tutto il resto, a partire da come evitare il collasso di  una Regione ormai giunta alla fase finale della sua lunga, e da molti per troppo tempo negata, agonia. Buon anno e i più cari auguri: ne avremo davvero bisogno.

 di Franco Garufi

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