La crisi in Ucraina, inestricabile matassa
In Europa siamo ad un passo dall’abisso di un conflitto armato di vaste proporzioni. La precipitosa – e ignominiosa – ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan dell’anno scorso aveva tra le altre anche una motivazione neppure troppo celata: permettere agli Usa di avere più disponibilità, più mezzi, più uomini per dedicarsi ad altre crisi. In particolare alla contesa con Cina e Russia, le due superpotenze che contrastano la leadership mondiale americana. Nel 2021 gli Stati Uniti hanno rafforzato il cordone di alleanze con paesi asiatici e con l’Australia per contenere le mire espansionistiche della Cina nell’Indo-Pacifico e l’annessione di Taiwan. In Europa ora è il turno della Russia: Mosca – così ragionano gli americani - deve capire che non può fare e disfare a piacimento, in barba all’ordine internazionale, nei confronti dei paesi che hanno la sventura di essere collocati ai suoi confini.
La “Dottrina Monroe” (in estrema sintesi: l’intero continente americano è “cosa nostra”; gli Stati Uniti esercitano la supremazia sia nell’America del Nord che in quella del Sud e guai alle altre potenze che vorrebbero metterci becco) risale al 1823. La Russia in definitiva applica nel nostro tempo – più correttamente: vorrebbe applicare - una dottrina speculare in quello che continua a ritenere il suo “cortile di casa”. Ovvero in tutti i paesi che componevano l’Urss, se possibile nei paesi o in parte dei paesi che componevano il Patto di Varsavia e, infine, in altre propaggini più distanti come ad esempio ciò che rimane della Siria del macellaio Assad. Vladimir Putin dispone di un formidabile arsenale convenzionale e nucleare e può ricattare quanto vuole e come vuole una Europa fragilissima quanto talmente incosciente e sprovveduta da affidarsi alla Russia – cioè all’Unione Sovietica perché sempre quella degli zar e poi dei segretari generali del Pcus è la mentalità di chi governa al Cremlino – per il suo vitale approvvigionamento di gas. Con il trascorrere degli anni della sua dittatura a vita a Mosca Putin vive come una ferita irrimarginabile il disfacimento dell’Urss e la conseguenza che dal Mar Baltico al l’Europa centrale, ai Balcani, al Mar Nero quasi tutte le “province” esterne e gli stati dell’ex impero sovietico si siano accasati dal Patto di Varsavia alla Nato e/o siano entrati a far parte dell’Unione Europea. Un elenco lunghissimo: Lituania, Estonia, Lettonia, Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria. Se la Bielorussia del sanguinario dittatore Lukascenko rimane fedele stato vassallo della Russia (ma chiedetelo ai bielorussi quanto e se sono d’accordo…) se la povera e piccola Repubblica Moldova si barcamena tra Romania e Russia e un suo pezzo, la Transnistria, si è resa indipendente, riconosciuta solo da Mosca (i russi sono professionisti della istigazione al separatismo dei territori dove sono presenti comunità russofone) un caso a parte è costituito dall’Ucraina. Le regioni orientali della Repubblica dell’Ucraina, stato esteso quasi due volte l’Italia e con una popolazione di 43 milioni di abitanti, abitate prevalentemente da russi, l’Oblast di Donec’k e l’Oblast di Luhani’c, nel 2014 si sono sollevate e rese indipendenti costituendosi in improbabili microstati riconosciuti, al solito, solo dalla Russia. E desiderosi di essere annessi alla Russia. Sempre nel 2014 i carri armati di Putin si sono ripresi dall’Ucraina la penisola della Crimea e la città di Sebastopoli. Con votazioni e plebisciti illegali che mettono di fronte al colpo di mano ed al fatto compiuto, Crimea e Sabastopoli sono stati poi di fatto annessi alla Russia. Mosca non rinuncia alla Crimea sia per la presenza di una forte comunità russa nella popolazione sia perché la sua flotta da guerra non può privarsi della munita base navale di Sebastopoli per il suo dispiegamento nel Mar Nero e nel Mar Mediterraneo.
E’ dagli anni di questi colpi di mano che hanno parecchio sforbiciato la consistenza territoriale dello stato ucraino che Kiev e Mosca sono ai ferri corti. La presenza di intere armate russe bene equipaggiate nei pressi del confine con l’Ucraina – oltre 100.000 uomini, probabilmente 130.000 - viene ora usata come strumento di pressione politica ma viene anche vista come possibile preludio ad una vera e propria invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo.
In questa contesa gli Usa del fragile e incerto Biden si sono inseriti lancia in resta. Nel 2014 le regioni orientali e soprattutto Crimea e Sebastopoli erano state sfilate a Kiev da Putin con un atto contrario alle legittimità statuali e all’ordine internazionale. Solo un regime cleptocratico (Putin viene ritenuto uno degli uomini più ricchi del mondo grazie a prestanome che gestiscono il suo miliardario patrimonio tangentizio) al cui comando assoluto si pone un criminale di guerra senza scrupoli morali agisce con simili modalità in barba al diritto internazionale. Washington in qualche modo era stata colta di sorpresa o comunque non aveva saputo reagire o non aveva reagito temendo di scatenare un conflitto incontrollabile. Ma ora è diverso. Ora gli Usa sono pronti al braccio di ferro con Putin, dovesse costare anche uno scontro militare diretto Stati Uniti – Russia o l’innesco della Terza Guerra Mondiale. E’ tanta la determinazione, la voce grossa, che fa la Casa Bianca che si è giunti al paradosso – vista la centralità che la crisi ha assunto al punto di mandare a gambe all’aria la già malmessa economia ucraina dove ormai, in attesa degli eventi, nessun investitore internazionale vuole rischiare un solo dollaro o un solo euro – che nei giorni scorsi lo stesso governo di Kiev ha voluto smorzare i toni bellicosi. Dichiarando a più riprese che la tanto evocata invasione russa (Mosca, ci mancherebbe, giura che non ha alcuna intenzione di aggredire l’Ucraina) non sembra alla fin fine così sicura e così imminente.
Il “casus belli” in definitiva sembra passare quasi in secondo piano rispetto alla discesa in campo “diretta” dei due “omoni” – Russia e Usa – che hanno tutta l’aria non solo di minacciarsi a parole ma di prendersi a scazzottate. L’Ucraina somiglia a un bambino che, preso a schiaffi da un adulto, chiama il padre o un altro familiare per farsi proteggere e spalleggiare ma poi minimizza il ceffone preso. Certo, il fortissimo nazionalismo ucraino che a volte sfocia in veri e propri gruppi armati di estrema destra che combattono sanguinosamente - e con violenze di ogni genere sulla popolazione civile da ambo le parti - contro gli altri nazionalisti filorussi delle regioni orientali non aiuta nella ricerca di soluzioni pacifiche. Ed ha il suo corrispettivo nell’ipersovranismo di Mosca. Come sempre la rovina del mondo, anche in questo secolo e non solo nel precedente, si annida in tutti gli “ismi”: fascismi, nazismi, comunismi, sovranismi, nazionalismi, autoritarismi. E si potrebbe continuare con molti altri “ismi”.
Il punto nodale: l’Ucraina nella Nato? “Niet”
In questa conflittualità novecentesca od ottocentesca tra stati ed etnie si innestano altri piani di analisi. Il primo riguarda la Nato. Georgia ed Ucraina, stati ora indipendenti ma fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 province dell’impero, sono passate dalla neutralità ad indicare come priorità l’adesione alla Nato. L’Ucraina in particolare mentre la Georgia è meno convinta con piuttosto la Nato a coltivare l’ipotesi d’un suo ingresso nell’alleanza. Adesione, dunque, come avevano fatto le tre piccole repubbliche baltiche (Lituania, Estonia e Lettonia) la Bulgaria e la Romania. Addirittura la crisi in Ucraina nel 2013 precipitata l’anno seguente nell’invasione russa e nella decurtazione del suo territorio è nata con la scelta di un presidente e di un governo democraticamente eletti a Kiev di non firmare l’accordo di associazione europea e preferire rapporti stretti con la Russia, è passata attraverso la protesta altrettanto democratica di parte degli ucraini ed è finita con un colpo di stato paramilitare a Kiev avallato da Stati Uniti ed Unione Europea. Uno dei primi atti del nuovo governo filoccidentale di Kiev è stato di cambiare la costituzione nella quale era sancita la neutralità del paese e inserire come priorità l’entrata nella Nato. A seguire, a cascata, gli eventi successivi nel 2014: l’invasione russa e l’annessione da parte di Mosca della Crimea e di Sebastopoli, la guerra civile nelle province orientali ucraine a prevalente popolazione russa ed ora questa polveriera che si sta apparecchiando.
Cosa chiedono gli attuali governanti ucraini? Ha risposto il 30 novembre 2021 il primo ministro Denys Shmyhal ad una intervistatrice di “Euronews”: “Cooperazione, tecnologie, armi, addestramento dei nostri soldati. Voli di ricognizione da parte della Nato, ma non solo da parte della Nato, ma anche di altri nostri partner che non sono membri della Nato. Qualsiasi supporto, qualsiasi presenza delle forze della Nato nel Mar Nero vicino ai nostri confini e vicino al confine russo ci sosterrà e fermerà queste provocazioni aggressive”. La presenza della Nato nel Mar Nero per l’Ucraina è un fattore di sicurezza. Ma Mosca ha ammonito che dispiegamenti del genere potrebbe essere visti come una minaccia alla sicurezza della Russia. Ecco, quello di Putin va considerato un “avvertimento preventivo”. Categoria comportamentale tanto in auge nel mondo criminale e mafioso. Che l’Ucraina – molto più che un “cortile di casa” per l’Urss e dunque ora anche per la mentalità aggressiva di Putin - entri a far parte della Nato per il Cremlino si deve additare come un vero e proprio argomento tabù. Neppure da ipotizzare, neppure a parlarne. Proprio questo è uno dei punti nodali dello scontro in corso. Anzi, il “punto nodale”.
In realtà non esistono date determinate e scadenze in questa vicenda dell’adesione e all’interno della Nato non tutti i giochi sono fatti e non tutti i paesi membri sarebbero entusiasti. L’Alleanza Atlantica è divisa su una ipotetica, possibile adesione di Kiev. Polonia e repubbliche baltiche, sotto l’ombrello degli Stati Uniti, spingono per questa “new entry”. Ma Francia, Germania, e potremmo aggiungere anche Italia, sono più caute. E’ evidente che l’allargamento ad est della Nato è stato sicuramente legittimo ma è stato percepito dalla Russia come una minaccia alla propria sicurezza. Polonia e stati baltici temono l’aggressività russa già sperimentata sul campo nel 2008 in Georgia e nel 2014 in Ucraina.
Già Mosca vive come fumo negli occhi la Nato che confina con la Russia nelle tre repubbliche baltiche, vi effettua manovre militari e localizza batterie di missili a qualche metro dal confine con il “sacro suolo” russo. Figuriamoci che cosa significherebbe per Mosca l’Ucraina nella Nato e, di nuovo, batterie, depositi di armi, esercitazioni e manovre militari a ridosso del lunghissimo confine russo-ucraino. Ecco perché Putin considera “linea invalicabile” il no all’adesione di Kiev alla Nato.
Posizione alla quale Washington contrappone la lapalissiana considerazione che un paese indipendente (e l’Ucraina lo è) può aderire a tutti i consessi ed a tutte le alleanze militari che vuole. Se gli americani hanno ragione è anche vero che i motivi di “difesa della sicurezza nazionale” rivendicati da Mosca non è che siano del tutto accampati o peregrini.
Ma c’è di più. In questo groviglio di richieste e minacce la Russia ne ha inserita un’altra che non si può che classificare come irricevibile. E cioè che la Romania e la Bulgaria, che fanno parte della Nato dal 2004, ne escano fuori.
Le tappe dell’escalation
Secondo alcuni osservatori sarebbero i presidenti americani democratici piuttosto che i repubblicani quelli più propensi a fare guerre. Se Trump nei confronti dello zar del Cremlino è stato piuttosto ambiguo, Biden considera Vladimir Putin una minaccia. Il 30 dicembre 2020 la “Cnn” riporta rapporti di intelligence dell’inizio di quell’anno secondo i quali sia la Cina che la Russia avrebbero offerto ricompense ai militanti afghani per uccidere militari americani in quel martoriato paese. Il 28 luglio 2021 Biden, visitando la Direzione nazionale dell’intelligence, ha affermato: “Putin sa di essere in difficoltà e questo lo rende ancora più pericoloso”. Aggiungendo che i cyber attacchi potrebbero un giorno “scatenare un vero e proprio conflitto armato”.
A fine novembre 2021 è stata ridisegnata la strategia americana in Europa e nell’area dell’Indo-Pacifico: “Rafforzare la presenza militare nel Pacifico, per contrastare la linea aggressiva della Cina, e non abbandonare l'Europa davanti alle minacce della Russia. Sono gli elementi fondamentali nella revisione del posizionamento globale delle forze armate americane, che il Pentagono ha pubblicato proprio mentre i ministri degli Esteri della Nato si riuniscono a Riga per discutere la risposta alle manovre di Mosca vicino al confine con l'Ucraina. Il segretario di Stato Antony Blinken infatti ha inviato un avvertimento al Cremlino, dicendo che "ci saranno serie conseguenze" se assalirà Kiev.
I punti concreti principali del documento sono questi: rafforzare le basi a Guam, in Australia e nelle isole del Pacifico; stazionare in maniera permanente uno squadrone di elicotteri e una divisione di artiglieria in Corea del Sud; togliere il tetto di 25mila uomini alle truppe in Germania, che voleva imporre Donald Trump per punire la cancelliera Angela Merkel; aggiungere una task force di 500 uomini a Wiesbaden per potenziare le funzioni di comando; cancellare la riconsegna di sette siti militari a Germania e Belgio, prevista dal precedente piano per il consolidamento delle infrastrutture europee. Il Pentagono poi ha individuato altre iniziative da prendere per rafforzare la deterrenza in Europa, che saranno discusse nel prossimo futuro con gli alleati.
La revisione della "Global Posture" era stata ordinata da Biden il 4 febbraio, per allineare le risorse della Difesa con le sue linee guida della sicurezza nazionale. Non è inusuale che un nuovo presidente riveda il posizionamento delle forze armate americane nel mondo, ma in questo caso c'erano diverse questioni in movimento da verificare: la maggiore aggressività della Repubblica popolare sul terreno, nel Mar Cinese Meridionale e oltre, e adesso anche nello spazio con i missili ipersonici; il timore che il Pentagono avesse abbassato la guardia nei confronti della Russia, a causa delle ambiguità di Trump con Putin; la necessità di riesaminare la strategia in Medio Oriente, anche in vista del ritiro dall'Afghanistan, poi mal gestito durante l'estate. Su Pechino e Kabul sono in corso approfondimenti specifici, che produrranno decisioni nei prossimi mesi, mentre le discussioni con gli alleati europei sono in corso. Lunedì però il segretario Lloyd Austin ha presentato la review a Biden, che l'ha approvata.
Presentando il documento, la vice sottosegretaria alla Difesa per la policy Mara Karlin ha fatto una premessa: "Questa guida afferma che gli Usa eserciteranno la leadership prima di tutto con la diplomazia, rivitalizzeranno la nostra rete senza pari di alleati e partner, e faranno scelte intelligenti e disciplinate riguardo alla nostra difesa nazionale e all'uso responsabile delle forze armate". Non sono parole di circostanza, perché Biden ha cambiato atteggiamento nei confronti degli alleati rispetto al predecessore, anche se la mancata condivisione delle informazioni sull'Afghanistan e l'accordo Aukus per i sottomarini nucleari all'Australia ha fatto vacillare le certezze degli europei. Biden ha cercato di rimediare, in particolare durante gli incontri al G20 di Roma, che hanno portato all'avvio della cancellazione delle tariffe (doganali, n.d.r.) imposte da Trump contro Bruxelles. Partendo dalla ricostruzione delle alleanze, fondamentali per contrastare insieme l'aggressività geopolitica e commerciale di Cina e Russia, era necessario verificare che le risorse militari fossero adeguate e allineate con gli obiettivi.
Potenziare le basi a Guam e in Australia significa avere più aerei bombardieri pronti all'uso, e capacità logistiche per schierare rapidamente le truppe, in una zona dove la Cina punta ad allargare la propria influenza. Non ridurre le forze in Germania e Belgio, e proporre nuove iniziative per la deterrenza in Europa orientale, significa lanciare un segnale alla Russia. Oggi si concluderà il vertice Nato a Riga, ma già presentandolo l'assistente segretaria di Stato per l'Europa Karen Donfried aveva avvertito che "ogni opzione è sul tavolo", per scoraggiare Mosca dall'idea di un nuovo attacco a Kiev. In Medio Oriente resterà la presenza in Siria e Iraq contro Isis e terrorismo, ma gli Usa vogliono rafforzare i partner per ridurre le loro impronta. Non è ancora una rivoluzione strategica, ma l'inizio di un riallineamento che promette sviluppi nel prossimo futuro”. (Paolo Mastrolilli “Più truppe e più basi, la nuova strategia Usa nel Pacifico e in Europa”, “la Repubblica”, 30 novembre 2021).
Già ad inizio dicembre l’escalation di dichiarazioni e avvertimenti comincia a farsi quotidiana. La tensione per la crisi ucraina sale. Putin si dice preoccupato per le esercitazioni della Nato nell’Europa dell’est e avverte l’Alleanza Atlantica: “Non schierate le truppe, per noi è una linea rossa. Pronti a dispiegare i missili”. Il segretario di Stato americano Antony Blinken a sua volta ammonisce i russi che schierano militari nelle regioni russe confinanti con l’Ucraina: “Davanti a una escalation ci saranno conseguenze gravi”. Gli incontri con l’omologo russo Lavrov somigliano ad un dialogo tra sordi. Blinken minaccia “Conseguenze severe” se Mosca aggredirà una seconda volta dopo il 2014 l’Ucraina. Lavrov vorrebbe un nuovo patto per la sicurezza europea. Chiede “come arrivare ad accordi legali per escludere l’ulteriore espansione verso Est della Nato” aggiungendo che “la Russia ha il diritto di muovere le truppe all’interno del suo territorio e ciò non significa nessuna escalation”.
Il 4 dicembre 2021 le posizioni possono essere così riassunte (“TGCom24”): “La Russia starebbe pianificando un'offensiva militare in Ucraina su più fronti all'inizio del prossimo anno utilizzando 100 gruppi tattici di battaglione con un numero stimato sino a 175mila soldati, insieme a blindati, artiglieria e altro equipaggiamento. Lo scrive il Washington Post citando dirigenti Usa e documenti dell'intelligence americana, tra cui immagini satellitari.
Da questi documenti emergerebbe l'ammassamento di forze russe in quattro luoghi posti lungo il confine ucraino e la presenza, già ora, di 50 gruppi tattici di battaglione. "I piani russi prevedono una offensiva militare contro l'Ucraina all'inizio del 2022 con una scala di forze doppia di quella che abbiamo visto la scorsa primavera durante le esercitazioni rapide russe vicine ai confini ucraini", ha confidato un dirigente dell'amministrazione Biden sotto anonimato.
I piani coinvolgono il movimento esteso di 100 gruppi tattici di battaglione con un numero stimato sino a 175mila soldati, insieme a blindati, artiglieria ed altro equipaggiamento", ha aggiunto. Gli Usa tuttavia valutano che attualmente Mosca abbia 70mila soldati vicino al confine con l'Ucraina, contro i circa 94mila indicati da Kiev. Il monito degli 007 americani arriva alla vigilia dell'imminente summit virtuale tra Joe Biden e Vladimir Putin.
Gli Usa potrebbero imporre sanzioni economiche e usare altri strumenti contro la Russia se invade l'Ucraina: lo ha detto la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki, parlando di misure da prendere in consultazioni con gli alleati e con il Congresso Usa. Joe Biden mette quindi in guardia Putin contro la possibile l'invasione dell'Ucraina e minaccia sanzioni senza precedenti, alla vigilia del loro nuovo faccia a faccia la prossima settimana, questa volta in video collegamento dopo il summit in persona di giugno a Ginevra.
Tanti i temi in agenda nel summit Usa-Russia, dalle "insoddisfacenti" relazioni bilaterali alla stabilità strategica, dall'Iran alla Libia e all'Afghanistan. Ma in cima a tutto resta la crisi ucraina, con la richiesta di Mosca di "garanzie legali" contro l'ulteriore espansione della Nato ad est, dopo il collasso dell'Urss e l'adesione di molti Paesi del blocco di Varsavia: una linea rossa che per Putin resta invalicabile.
Il Cremlino continua a respingere accuse e sospetti, rivendicando il suo diritto di spostare e ammassare truppe all'interno dei confini del Paese. Ma è chiaro per molti osservatori che Putin sta giocando la sua partita a scacchi, aumentando le pressioni su Kiev e sull'Occidente per ottenere quello che finora non ha avuto: la garanzia giuridicamente vincolante che l'Alleanza non si avvicinerà alla frontiera russa. Mosca vuole mantenere degli Stati cuscinetto con l'Europa. E se la Bielorussia per ora non è in discussione, resta il rischio che Georgia e soprattutto Ucraina prima o poi entrino nella Nato. L'Alleanza aveva ufficialmente aperto la porta a Kiev nel 2008 e nel 2014 si cominciò a intravedere una possibilità concreta, dopo la rivolta filo occidentale del Maidan e la fuga del presidente filorusso Viktor Ianukovich. Putin reagì annettendo la Crimea. Ma ora l'Ucraina non vuole rinunciare a questa prospettiva. Abbandonarla "non è una opzione", ha assicurato il ministro degli esteri di Kiev Dmytro Kuleba”.
Tre analisi impeccabili
La crisi ucraina avanza a grandi falcate in un periodo in cui, tanto per cambiare, l’Europa è distratta più del solito da mille altre emergenze, pandemia in testa. Impeccabile l’analisi di Franco Venturini sul “Corriere della Sera” del 7 gennaio 2022 (“Le tante sfide lanciate da Putin all’Europa”). Osserva Venturini: “Nemmeno nel più bello dei suoi sogni Vladimir Putin avrebbe potuto immaginare un Occidente distratto e confuso come quello di oggi. L’America è lacerata dalle sue contrapposizioni interne e ha un Presidente che non è riuscito a risalire la china dopo l’onta di Kabul. La Germania ha un nuovo governo che deve ancora definire sul campo i suoi orientamenti. La Francia è immersa in una campagna elettorale per l’Eliseo che si annuncia rischiosa anche per Macron. L’Italia, lo sappiamo bene, è alla vigilia di scelte istituzionali difficili. La Gran Bretagna paga cara la Brexit. L’Europa di Bruxelles è divisa più che mai. L’Occidente, insomma, attraversa una di quelle fasi di incertezza e di debolezza che inevitabilmente si ripercuotono sulle scelte strategiche, o sulle risposte alle scelte strategiche altrui. Non è escluso, anzi è probabile, che Putin abbia voluto sfruttare questo stato di cose quando ha inviato più di centomila uomini al confine con l’Ucraina, esigendo da Joe Biden, che per lui è l’unico Occidente che conta, un virtuale smantellamento della Nato in tutta l’Europa orientale. Soltanto così, avverte il Cremlino, rimettendo in discussione per la prima volta dopo il crollo dell’Urss l’architettura della sicurezza europea, e sottoscrivendo di fatto una nuova versione delle intese di Yalta del febbraio ‘45, le divisioni russe torneranno in caserma e l’Ucraina sarà risparmiata. Putin ha dimostrato altre volte, in Georgia e poi in Crimea, di saper usare lo strumento militare per ottenere vantaggi territoriali o politici.
E se i suoi rapporti con l’Occidente sono peggiorati, la colpa è delle sue scelte sempre più autoritarie contro oppositori e difensori dei diritti civili. Anche a costo di contraddirsi, mettendo fuori legge le testimonianze storiche di Memorial proprio mentre tenta di usare la storia a suo favore. Oppure facendo intervenire il patto di mutua alleanza tra sei repubbliche ex-sovietiche per porre fine alla violentissima rivolta in Kazakistan. Dove l’ordine di sparare ha già fatto molte decine di morti, e questo mentre sotto accusa viene messa la Nato.
Al negoziato Usa-Russia che si apre domani a Ginevra, i delegati americani faranno bene a non abbassare la guardia. Ma sarebbe un errore, loro e nostro, credere che Putin voglia soltanto sfruttare una congiuntura internazionale favorevole. Putin, certo, è un nazionalista. La missione che si è dato è quella di restituire alla Russia, sconfitta in quanto erede dell’Urss, almeno una parte della sua passata grandezza. Ma il dopo-guerra fredda è andato in direzione opposta. Uno dopo l’altro dieci Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia o dell’Urss sono stati ammessi nella Nato. Una alleanza che per noi è difensiva, ma che per i russi è un organismo che schiera armamenti offensivi sempre più vicini ai confini della patria.
Nella distanza tra queste due concezioni della Nato risiede forse l’ostacolo più difficile da superare nel negoziato russo-americano. Putin e Biden hanno entrambi le loro «linee rosse». Il capo del Cremlino afferma che un ingresso dell’Ucraina (e della Georgia) nella Alleanza completerebbe l’accerchiamento della Russia e renderebbe impossibile la sua difesa in caso di attacco missilistico. A corredo di questa esigenza centrale vi è poi l’inaccettabile volontà di ricreare una zona d’influenza russa in Europa dell’est, allontanandone la Nato. Biden risponde che gli ucraini devono essere liberi di decidere, e minaccia Putin di sanzioni economiche e finanziarie mai viste finora. Può esistere un compromesso che salvi l’Europa da una guerra ulteriore dopo quella che già si trascina nel Donbass, e che eviti conseguenze irreparabili tra le due potenze nucleari più armate del mondo?
Forse sì, ma a una condizione. Che le richieste troppo arroganti di Putin vengano rispedite al mittente. E che nel contempo venga riconosciuto il diritto della Russia a difendere la sua sicurezza e l’Ucraina non entri nella Nato fino a nuovo ordine. Non accadde la stessa cosa a ruoli invertiti, malgrado le molte diversità tra le due situazioni, quando l’Urss provò a piazzare i suoi missili a Cuba nel 1962? Il compromesso non sarebbe una nuova Yalta. Sarebbe una conferma del documento Nato emesso al vertice di Bucarest del 2008, con qualche tacita garanzia.
Gli europei devono sperare che le armi russe tacciano, mentre gli Usa hanno già detto che non difenderanno militarmente l’Ucraina. La partita che comincia si giocherà sul filo del rasoio. Ma intanto l’assenza dell’Europa in un negoziato che discute della sicurezza europea non può che risultare avvilente. L’ha voluta Putin, ma Biden l’ha accettata”.
E Lucio Caracciolo l’8 gennaio 2022 su “Limes” (“Anche se spento a mano armata, l’incendio in Kazakistan segnerà un prima e un dopo”) argomenta: “La destabilizzazione del paese centroasiatico è solo il più recente, colossale anello della catena di tensioni e conflitti che premono lungo i confini della Federazione Russa. La preghiera quotidiana di ogni stratega russo o sovietico è sempre stata la regolare verifica della stabilità della sua frontiera occidentale, fonte primaria d’ogni minaccia. Fossero svedesi o polacchi, francesi o tedeschi, era di lì che sempre passavano gli invasori, prima o poi costretti a invertire la marcia lungo i rispettivi corridoi di penetrazione.
Putin non fa certamente eccezione nella pratica di questo obbligato esercizio liturgico. Ma da ieri, quando lascia galoppare la mente nella rapida perlustrazione degli sterminati confini russi, il sovrano del Cremlino deve torcere lo sguardo anche verso oriente. Per concentrarsi sul Kazakistan, scosso da una rivolta che minaccia di espandersi nella regione centroasiatica che separa e connette Russia e Cina.
Dal suo punto di osservazione, Putin vede l’incendio kazako come allargamento della manovra a tenaglia concepita dagli Stati Uniti e dai paesi antirussi della Nato (Polonia e Romania le avanguardie, oltre alle formalmente neutrali Svezia e Finlandia, con Londra aiuto regista di Washington) per rovesciare il regime di Mosca. È l’incubo della “rivoluzione colorata”, versione sofisticata della pressione americana con cui i leader russi convivono da tre quarti di secolo.
Dubitevole che in questa fase storica gli Stati Uniti, alle prese con una tempesta interna, sentano l’urgenza di rovesciare il regime russo. Ma quel che conta è la percezione di Putin e della sua squadra, aggravata dall’invisibile ma serpeggiante transizione verso una nuova leadership, ancora avvolta nelle nebbie.
In tale contesto, la destabilizzazione del Kazakistan è solo il più recente, colossale anello della catena di tensioni e conflitti che premono lungo i confini della Federazione Russa. Dalla Bielorussia all’Ucraina, dalla Georgia alle instabilità endemiche fra Caucaso e Caspio (qui Putin aveva appena finito di sedare l’ennesima fiammata del conflitto fra azeri e armeni) eccoci al massimo paese dell’Asia centrale (...)".
Per concludere questo capitolo dedicato alle analisi strutturate ecco quanto osserva il 13 gennaio su “AffarInternazionali,it” Stefano Silvestri, un po’ il “decano” degli analisti italiani di politica internazionale (“Le ragioni della strategia russa ai confini con l’Europa”): “In teoria Vladimir Putin non avrebbe interesse ad intervenire militarmente contro l’Ucraina. L’occupazione militare del paese incontrerebbe forti resistenze e sarebbe difficile e costosa da mantenere, oltre ad accrescere l’isolamento del paese. Operazioni più limitate, come ad esempio il distacco forzato delle regioni orientali, farebbero montare il rischio di una presenza militare occidentale in quel che resta del paese e probabilmente anche in Georgia, peggiorando il quadro della sicurezza russa, invece di migliorarlo. La soluzione più favorevole agli interessi del Cremlino è che la minaccia alle frontiere porti ad un mutamento di governo a Kiev, con l’arrivo di un leader filo-russo. Si tratta però di un’ipotesi molto dubbia e che dovrebbe comunque fare i conti con una fortissima opposizione interna. Qual è dunque il più probabile obiettivo di Putin e quali rischi potrebbe essere disposto a correre?
Tutto fa pensare che Putin voglia “rigiocare” la partita persa dalla Russia dopo la fine della Guerra Fredda. A Mosca si sostiene che l’Occidente ha mancato alla parola data quando ha allargato la Nato (e l’Unione Europea) ai paesi europei membri del defunto Patto di Varsavia e persino a tre Repubbliche ex-sovietiche, e che ha peggiorato il danno prevedendo un possibile ulteriore allargamento all’Ucraina e alla Georgia. Da parte americana si riconosce che le cose sono andate oltre quanto si pensava inizialmente, ma si afferma che non erano state fatte promesse formali e che comunque questi allargamenti non hanno intenzioni aggressive nei confronti della Russia e non prevedono, almeno per ora, il dispiegamento permanente ad oriente di consistenti nuove forze alleate. Unica eccezione: la creazione di alcune postazioni antimissile destinate a difendere l’Europa da possibili attacchi missilistici dall’Iran.
Mosca, oltre ad avere dei dubbi sulla natura solo difensiva di queste postazioni, teme che l’Occidente voglia approfittare di questa situazione per favorire un mutamento di regime a Mosca, come avrebbe già fatto (sempre secondo il Cremlino) in Ucraina.
È possibile che Putin, dopo la tempesta Trump, il brutto ritiro americano dall’Afghanistan e i relativi successi raccolti in Siria e nel Mediterraneo, ritenga che sia giunto il momento di tentare un affondo per riconquistare, almeno in parte, la sua tradizionale sfera di influenza. Forse ritiene anche che la confusa situazione politica interna americana, la crescente preoccupazione di Washington nei confronti della Cina e la perdurante dipendenza europea dalle importazioni di gas dalla Russia, siano fattori da sfruttare subito, prima che la situazione possa cambiare.
I comportamenti tenuti in questo periodo dalla Russia delineano anche un secondo obiettivo: il tentativo di umiliare o comunque intimidire l’Europa, riducendola al ruolo di spettatore più che interlocutore, sia contro ogni ipotesi “revanscista”, sia soprattutto per conquistare una maggiore influenza politica su alcuni paesi chiave europei, in particolare quelli che più hanno sofferto l’offensiva mediatico-politica di Trump, come la Germania e la Francia. L’obiettivo europeo si è visto ad esempio nella scelta teatrale di ritirare la missione russa presso la Nato e nel trattamento sprezzante riservato al rappresentante ufficiali dell’UE in visita a Mosca. Nel caso ucraino, Putin ha esplicitamente sottolineato il fallimento dei negoziati condotti con il formato “Normandia” (Russia, Ucraina, Francia e Germania), che avevano portato agli accordi di Minsk, mai rispettati. Ciò squalificherebbe il ruolo degli europei.
Putin ha quindi privilegiato la trattativa diretta con gli Usa. Tuttavia è praticamente impossibile che questi negoziati possano portare ai risultati ufficialmente auspicati da Mosca nelle due bozza di trattato (quello bilaterale tra Russia e Usa e quello multilaterale tra Russia e Nato) che la Russia ha fatto circolare. Gli americani non vogliono, né possono, scavalcare gli europei (inclusi gli ucraini) in una sorta di grottesca replica degli accordi di Monaco del 1938, che aprirono ad Hitler le porte della Cecoslovacchia. Essi intendono parlare di riduzione della tensione e di controllo degli armamenti, in particolare nucleari, ma non intendono certo mettere in crisi la Nato.
Stiamo quindi assistendo al complesso balletto di un negoziato/non negoziato, che ha un centro bilaterale a Ginevra e molte appendici multilaterali (tra Nato e Russia, nell’Osce, tra Ue e Russia, nel gruppo Normandia, tra il G-7 e la Russia e così via), che sembra per ora orientarsi verso formule più o meno inconcludenti e verso tempi lunghi. A meno, naturalmente, che incidenti o altri eventi inaspettati trascinino tutti verso un’avventura militare.
Una situazione pericolosa dunque, che nessuno ha in realtà interesse a protrarre indefinitamente, ma che nessuno sembra ancora disposto a disinnescare, in primo luogo al Cremlino. Ciò dovrebbe preoccupare soprattutto noi europei, più esposti alle possibili conseguenze di un improvviso peggioramento.
È possibile che l’assunzione da parte europea di un profilo più deciso ed assertivo possa dimostrare a Putin l’inutilità del ricorso ad ulteriori minacce, come già avvenne negli anni Ottanta del secolo scorso, quando l’Urss tentò un’ultima volta di intimidire militarmente l’Europa. Allora Mosca fu obbligata a cambiare strategia. Ma a questo punto il problema diviene tutto europeo: esiste oggi la possibilità di una risposta unitaria, coerente e credibile?
Conosciamo i limiti del coordinamento di politica estera dell’Ue, né la Nato sembra avere il necessario profilo politico. Servirebbe l’impegno esplicito di alcuni grandi paesi europei, in comune tra loro. Molti dicono di temere un accordo diretto tra Mosca e Washington, sopra le nostre teste. In realtà questo sembra per ora impossibile, almeno fino a che Biden resterà Presidente. Ma non possiamo garantire il futuro, a meno di non assumercene la responsabilità”.
Il resto è cronaca dei nostri giorni
Ritorniamo alla cronaca del “complesso balletto di un negoziato/non negoziato”, come lo definisce Silvestri. In un grande gioco di propaganda e fake news, informazione e disinformazione, il 14 gennaio scorso vengono resi pubblici i sospetti americani:
“Mosca ha infiltrato sabotatori nelle regioni orientali dell'Ucraina, con l'obiettivo di provocare un incidente che le dia la scusa per invadere il Paese. L'accusa viene da un alto funzionario dell'amministrazione Biden, che l'ha condivisa via mail con la Cnn e altri media americani, proprio al termine della settimana che in teoria avrebbe dovuto rilanciare il dialogo diplomatico con il Cremlino. "La Russia - ha rivelato la fonte - sta gettando le basi per avere la possibilità di fabbricare un pretesto per l'invasione, anche attraverso attività di sabotaggio e operazioni di disinformazione, accusando Kiev di preparare un attacco imminente contro le forze russe nell'Ucraina orientale". L'allarme prosegue così: "L'esercito russo prevede di iniziare queste attività diverse settimane prima di un'invasione militare, che potrebbe scattare tra metà gennaio e metà febbraio. Avevamo già visto questo schema nel 2014 in Crimea".
Le informazioni di intelligence vengono dalle intercettazioni delle comunicazioni e le osservazioni sul terreno: "La Russia ha preposizionato un gruppo di agenti per condurre un'operazione sotto falsa bandiera nell'Ucraina orientale. Sono addestrati alla guerra urbana e all'uso di esplosivi, per compiere atti di sabotaggio contro le stesse forze per procura della Russia". Quindi ha concluso: "Siamo molto consapevoli del fatto che Mosca cercherà di inventare un pretesto per compiere un tentativo di colpo di Stato". Il Cremlino, per bocca del portavoce Peskov, ha smentito: "Finora, tutte queste affermazioni non sono state confermate da nulla".
Proprio ieri, però, il governo ucraino ha subito un attacco digitale, simile a quelli lanciati in passato da hackers al servizio della Russia. La rivelazione è avvenuta mentre due alti funzionari della Casa Bianca tenevano un briefing con un gruppo di giornali europei, tra cui Repubblica. Le fonti hanno detto che "Putin non ha ancora deciso se seguire la via diplomatica, o lanciare un intervento, che potrebbe essere militare o ibrido". Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha lanciato una specie di ultimatum, dicendo che si aspetta risposte entro la settimana prossima sulle richieste fatte per bloccare la Nato: "Questa richiesta - hanno spiegato le fonti della Casa Bianca - dimostra che in realtà la fase della diplomazia non è finita". Gli americani si augurano che i russi abbiano imparato una cosa dai colloqui della settimana scorsa: "Noi siamo pronti a negoziare, ma anche a rispondere duramente ad un intervento. L'Alleanza è unita al cento per cento". In questo quadro, l'Italia deve accettare che l'attenzione al fronte meridionale passa in secondo piano: "Non vogliamo minimizzare i problemi che il coinvolgimento russo genera in Libia, ma in Ucraina crea la possibilità di una guerra in Europa. Lo prendiamo in maniera estremamente seria, perché minaccia la stabilità dell'Europa e l'intero ordine internazionale basato sulle regole". (Paolo Mastrolilli “I sospetti degli Usa: Mosca cerca pretesti per invadere l’Ucraina”, “la Repubblica” 14 gennaio 2022).
I russi ironizzano su questo sospetto e giurano che si tratti di una invenzione.
Appare sempre più evidente che le posizioni delle due superpotenze in più contesti di trattativa e faccia a faccia, in presenza o attraverso uno schermo, sono inconciliabili. Il confronto continuerà sul filo della tensione. “Con il rischio che possa sfuggire di mano” avverte più d’un osservatore (come l’ex ambasciatore Giampiero Massolo, diplomatico di lungo corso). Jens Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, riparte con gli ammonimenti: “Con Mosca intesa lontana. Putin vuole dominare i vicini ma reagiremo. I russi vogliono ristabilire una sorta di influenza riservata alle grandi potenze ma America del Nord ed Europa difendono la democrazia. Se useranno la forza contro Kiev ci saranno gravi conseguenze economiche, politiche e finanziarie. Sosteniamo l’Ucraina”.
Certo, si rischia di capire poco la crisi ucraina e non si ritiene che un conflitto possa deflagrare in Europa coinvolgendo alleanze militari, stati, centinaia di milioni di abitanti se non ci si rende pienamente conto del quadro strategico e geopolitico complessivo nel quale si colloca questa crisi. Il Cremlino sta cercando di rovesciare, o quantomeno di rivedere, l’ordine europeo per la sicurezza risalente agli Accordi di Helsinki del 1975 e di tornare ad una sfera di influenza occidentale ed una sfera di influenza russa. Ma non considera – ed è questa la complicazione vera – che dopo il crollo dell’Unione Sovietica del 1991 a poco a poco quasi tutti i paesi della sua sfera di influenza in Europa (a parte la Bielorussia dove nelle settimane scorse sono andate in scena esercitazioni militari congiunte con l’esercito russo e dove il dittatore Lukashenko ha dichiarato: “Visto l’aumento dei militari ai confini ci prepariamo con i nostri alleati”; a parte – ma non al cento per cento – la Serbia) una decina di paesi ha aderito alla Nato e/o sono entrati a far parte dell’Unione Europea.
Il disegno di Mosca di tornare alle sfere di influenze dei tempi dell’impero sovietico appare dunque in ritardo di un trentennio sulla storia.
Intanto il Segretario di Stato americano Blinken vola a Kiev per colloqui con l’altro contendente Vladimiro, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskij, e gli aerei cargo Usa scaricano aiuti militari negli aeroporti di quel paese.
E’ drastico ma niente affatto lontano dal vero Robert David Kaplan, un autore americano molto noto, specialista in libri di politica e in particolare di politica estera, quando ammonisce che “l’imperialismo oggi viene da est; gli Usa contengano l’espansionismo di Mosca e Pechino”.
A fine gennaio, il 26, l’Ucraina, come anticipato, abbassa i toni: “La tensione frena gli investimenti, ci impoverisce e la destabilizzazione favorisce la Russia”.
Il nuovo governo socialdemocratico-verde-liberale tedesco guidato dal cancelliere Olaf Scholz frena sull’invio di armi tedesche all’Ucraina e sulle sanzioni alla Russia mentre la Francia prova a ridare voce all’Unione Europea attraverso una sorta di negoziato parallelo Macron-Putin. Scrivono le corrispondenti de “la Repubblica” da Berlino Tonia Mastrobuoni e da Parigi Anais Ginori il 27 gennaio (“L’indecisione tedesca irrita i partner. Macron cerca la via diplomatica”): “La Germania invierà cinquemila elmetti all’Ucraina: per Vitalij Klychko, sindaco di Kiev, una mossa “ridicola”. Da settimane l’ambasciatore ucraino Andrij Melnyk supplica inutilmente Berlino di inviare aiuti militari seri al suo paese. E non è l’unico dossier su cui i tedeschi stanno frenando, irritando Usa ed europei. A proposito dell’ipotesi di tagliare Mosca fuori dal sistema dei pagamenti Swift e di bloccare Nord Stream 2, la Germania continua a mantenere il freno a mano. La morbidezza tedesca verso Mosca affonda le sue radici nella tradizionale “Ostpolitik” della Spd, ma pesa anche il cammino tedesco verso le “emissioni zero” rinunciando all’atomo e al carbone; nei prossimi anni il gas rappresenterà una fonte energetica essenziale. Metà del metano tedesco continua ad arrivare dalla Russia, e fonti diplomatiche rivelano che il timore, nel caso di conflitto, è quello di una chiusura dei rubinetti del gas, da parte di Putin. Il blocco di Nord Stream 2 è sul tavolo delle eventuali sanzioni contro Mosca: a microfoni spenti Berlino lo dice da settimane. Pubblicamente continua ad essere prudente “per non chiudere gli ultimi canali diplomatici con Putin”, dice una fonte. Peraltro, al momento gli Usa, che continuano a premere perché si blocchi il Nord Stream 2, non riuscirebbero a compensare il buco nelle forniture neanche attraverso il gas liquido che arriva in Europa attraverso le navi: servirebbe un robusto contributo qatarino e cinese aggiuntivo. Ieri, intanto, la riunione all’Eliseo degli sherpa del formato Normandia (Ucraina, Russia, Francia, Germania) segna il tentativo per gli europei di tornare protagonisti nella gestione diplomatica. Emmanuel Macron parlerà domani al telefono con Vladimir Putin per presentargli un piano europeo per la de-escalation. Il capo dell’Eliseo punta a ritagliare un ruolo di mediatore per se stesso e per l’Europa, sempre divisa nel braccio di ferro tra Mosca e Washington. Da giorni Parigi insiste sulla necessità di non drammatizzare la comunicazione sulla crisi. I diplomatici vicini a Macron non minimizzano le manovre russe alla frontiera ucraina ma ne danno un’interpretazione meno allarmista e sostengono che non è il caso di enfatizzarle. “Stiamo agendo per portare a termine un processo di de-escalation” ha spiegato Jean-Yves Le Drian, che insieme alla sua omologa tedesca Annalena Baerbock andrà a Kiev nei prossimi giorni per discutere la crisi con la Russia”.
Lo scenario è in quotidiano movimento. Il 17 dicembre il ministero degli Esteri russo chiede garanzie in due documenti agli Stati Uniti e alla Nato sul tema dell’espansione ad est dell’Alleanza Atlantica. Viene richiesto inoltre il blocco delle esercitazioni militari dirimpetto ai propri confini e il ritiro delle truppe dislocate nell’area. Il 26 gennaio la Nato consegna la risposta. Viene respinta una delle principali richieste della Russia ovvero quella di bloccare l’attività della Nato sul fianco orientale dell’Europa. Resta aperta la porta al dialogo ed alla diplomazia per evitare un conflitto armato. Per il segretario di Stato americano ora spetta alla Russia decidere se scegliere la strada della diplomazia o il confronto. Blinken si è detto pronto ad incontrare l’omologo Lavrov, già incontrato la settimana precedente a Ginevra.
La lettera americana necessita di un approfondimento. Come scrive Anna Lombardi (“La risposta Usa alla Russia “Niente veti a Kiev nella Nato”, la Repubblica 27 gennaio 2022”) “(…) il plico è stato consegnato dall’ambasciatore John Sullivan al Ministero degli Esteri di Mosca. Chiarendo subito come la richiesta di tenere fuori dalla Nato Kiev sia irricevibile: “L’Ucraina ha diritto di scegliersi gli alleati”. Confermando pure la consegna questa settimana da parte americana “di tre carichi di aiuti militari, comprese armi anticarro e 283 tonnellate di munizioni” alla luce dell’acuirsi della tensione alla frontiera russo-ucraina e nel timore di un possibile attacco. Azione a cui ieri ha reagito il partito Russia Unita, vicino a Putin, chiedendo l’invio di armi ai separatisti del Donbass”.
La lettera non sarà resa pubblica. “Secondo anticipazioni dei giorni scorsi vi sono però enunciati limiti al dispiegamento di truppe, navi da guerra e aerei e una proposta per evitare di dislocare missili a medio e corto raggio in siti che potrebbero minacciare entrambe le parti.
“Siamo pronti a sederci al tavolo e ascoltare le preoccupazioni di Mosca, ma non a scendere a compromessi sui nostri principi” ha rilanciato il Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg, nel corso della conferenza stampa organizzata a Bruxelles un’ora dopo quella dell’americano nella quale avverte di avere alzato il livello di allarme delle truppe. Mostrando dunque i muscoli, ma fornendo anche maggiori informazioni sulle proposte sottoposte a Mosca: “Siamo un’alleanza difensiva, non cerchiamo lo scontro. Ma non scendiamo a compromessi sui nostri principi e fra questi c’è il diritto di ogni nazione a scegliersi il suo percorso. Rispettiamo l’autodeterminazione”. Accusando poi Mosca: “Vediamo truppe anche in Bielorussia dispiegate sotto la copertura di esercitazioni ma sono corpi di combattimento. Non c’è trasparenza, non c’è de-escalation”. Pur ammettendo che “questo rende ancora più importante impegnarsi nello sforzo politico di trovare soluzioni comuni”. Le richieste fondamentali sono tre: “Ristabilire i contatti interrotti, riaprendo i rispettivi uffici a Mosca e a Bruxelles ripristinando le comunicazioni militari esistenti per promuovere la trasparenza e ridurre i rischi”. I russi, poi, “devono astenersi da atteggiamenti coercitivi, retorica aggressiva e attività maligne, ritirandosi da Ucraina, Georgia e Moldova, dove sono schierati senza il consenso di quei paesi”. Infine, “trasparenza e controllo degli armamenti per ridurre ogni rischio, attraverso incontri informativi reciproci su esercitazioni e politiche nucleari” riducendo pure le minacce informatiche”.
Mosca non è rimasta per niente convinta dalle risposte scritte di Usa e Nato alle richieste di garanzie di sicurezza avanzate. Ritenute insufficienti, elusive, marginali nelle soluzioni proposte. “L’Occidente vive una frenesia militare” aveva detto ancor prima di ricevere le lettere il ministro degli esteri russo Lavrov, dicendosi comunque “pronto a rappresaglie, per proteggere gli interessi del Paese” nell’eventualità di nuove sanzioni dirette. Magari approfondendo le “partnership strategiche con Cuba, Venezuela, Nicaragua”.
Insomma, rendere pan per focaccia agli Stati Uniti nel loro “cortile di casa”. Sommando così alla crisi ucraina una seconda crisi dei missili come quella del 1962 a Cuba o dalle parti del “compagno” Nicolas Maduro a Caracas o del “compagno” Daniel Ortega a Managua. E’ sorprendente: trascorrono i decenni, sono già più di sei, ma il comunismo sopravvive nelle consolidate, intatte alleanze di sempre che il “compagno” Putin continua a coltivare. E se del caso ad allertare. Risposta su risposta, tensioni su tensioni in un crescendo irrefrenabile.
Il nuovo gasdotto Nord Stream 2 dalla Russia all’Europa settentrionale. Come sarebbero applicate le sanzioni
Un altro piano di analisi concerne gli aspetti economici, finanziari, energetici della attuale crisi ucraina. Capiamo tutti cosa significherebbe per centinaia di imprese italiane che operano in e con la Russia un conflitto che di fatto distruggerebbe ogni genere di produzione, scambi, import, export. Quanto alla questione energetica, riprendiamo a scriverne con qualche considerazione aggiuntiva rispetto a quanto precedentemente osservato. Già Usa ed Unione Europea dopo la prima crisi ucraina e il “furto” a mano armata della Crimea da parte della Russia hanno varato sanzioni che colpiscono personaggi del mondo politico-finanziario russo, società, aziende, centrali finanziarie e bancarie. In Russia politica putiniana, affari e finanza sono un tutt’uno molto stretto, talvolta inestricabile. Ora si profila un ulteriore giro di vite se si comincerà a sparare. Colpirà gli interessi finanziari personali di Putin e dei suoi sodali e prestanome. Come reagirà il padrone della Russia? Ed ancora: il nuovo gasdotto ormai quasi pronto per entrare in funzione che via Russia ed Europa settentrionale aumenterà in modo consistente l’export di gas dallo sterminato paese alle nazioni europee come entrerà nella guerra delle sanzioni? Gli Usa che, bontà loro, così lontani, godono dell’autosufficienza energetica e giocano con la vita e la sicurezza degli altri, hanno già fatto sapere che in caso di attacco russo all’Ucraina il nuovo gasdotto non entrerà in funzione. Solo un mucchio di miliardi sprecati, specie dalla Germania, e la conseguente perdita di incassi per Mosca.
Un po’ di dati, anche guardando a casa nostra: la Russia fornisce già adesso il 47 per cento del fabbisogno italiano di gas naturale e il 41 per cento di quello europeo. Il 45 per cento del Pil russo proviene dall’export di gas naturale. Di cui l’Europa, come abbiamo visto, è uno dei principali clienti. Analisti economico-finanziari hanno calcolato che un conflitto costerebbe alla Russia 100 miliardi di mancati introiti per mancata vendita di gas nei paesi europei. Ma, in una evenienza catastrofica del genere, come e con cosa si riscalderebbero centinaia di milioni di europei? Con quali fonti energetiche produrrebbero le industrie del Vecchio Continente? E giù progetti alternativi, di dubbia realizzazione nel brevissimo periodo: in sostituzione più gas per l’Europa dal Qatar e da altri produttori mediorientali e nordafricani, maggiore afflusso di fonti energetiche dagli stessi Stati Uniti. La verità è che l’Europa, intesa come continente e come Unione Europea, ha commesso nei decenni scorsi un colossale, tragico errore di calcolo strategico: ha pensato di lasciarsi alle spalle i comunisti, i sovietici, la Guerra Fredda e che la Russia, sebbene sempre in deficit quanto a democrazia autentica, sarebbe diventata un vero partner per scambi, commerci, globalizzazione. Come lo sono, poniamo, la Gran Bretagna (anche del dopo Brexit) per la Germania o la Spagna per l’Italia. Errore imperdonabile. La Russia non sarà mai un paese occidentale e democratico. Ragiona su altri binari, anche planetari, non ha interessi comuni con i paesi situati ad ovest delle sue frontiere occidentali, da sempre avvertiti come invasori reali e potenziali, da Napoleone a Hitler, si ritiene e di conseguenza agisce da superpotenza, è storicamente priva di una cultura politica democratica, al contrario ha sempre coltivato l’autocrazia e l’autoritarismo, ci snobba - divisi e “piccoli” come siamo - rispetto alla sua estensione anche per la debolezza intrinseca e le tante, troppe voci problematiche da amalgamare in una posizione unitaria nell’Unione Europea. Così decenni di aperture – in qualche modo anche reciproche – di affari, commercio, investimenti, import, export, turismo non hanno cancellato il marchio originario. Con il risultato che l’Unione Europea per la sua alimentazione, per il suo ossigeno energetico si è messa nelle mani della persona divenuta anno dopo anno il suo peggior nemico: Vladimir Putin. Un altro che non le voleva affatto bene era Donald Trump. Mentre Biden evoca gli alleati europei, li consulta ma poi le decisioni sono sistematicamente prese a Washington e imposte agli alleati.
Il cappio energetico stretto dalla Russia attorno al collo degli europei è di quelli che strangolano. Accappona la pelle al pensiero dei rischi inimmaginabili che comporta. E che non saranno certo gli Stati Uniti a risolvere e neppure a ridimensionare con i loro patetici (ma, business su tutto, tornacontistici…) propositi di “rifornimento energetico alternativo” con le navi che trasporterebbero gas attraverso l’Atlantico. Quanto alle fonti energetiche verdi passeranno anni, anzi decenni, prima che eolico, solare e via discorrendo (ma che non si parli mai di nucleare, vecchia o nuova generazione che sia, perché dal nucleare il mondo intero deve solo uscire, sia da quello di guerra sia da quello di pace!) consentano maggiore autonomia energetica.
Il 27 gennaio il portavoce del Segretario di Stato Blinken ha dichiarato in una intervista: “Voglio essere molto chiaro: se la Russia invade in un modo o in un altro l’Ucraina, il gasdotto Nord Stream 2 non andrà avanti”. Le tubature che collegano direttamente Russia e Germania, peraltro non ancora in funzione, sarebbero, dunque, il primo obiettivo delle ritorsioni occidentali. Anche se la ministro degli esteri tedesca Baerbock ha puntualizzato: “L’abbandono del progetto Nord Stream 2 è una delle opzioni sul tavolo”.
In realtà a Washington si teme che le forniture di gas possano dividere il fronte europeo. Biden vuole colpire l’export russo di idrocarburi “se anche una sola unità militare di Mosca” dovesse sconfinare. Tuttavia qualche giorno dopo la vicesegretaria di Stato Wendy Sherman ha ammesso che “siamo di fronte ad una interdipendenza tra Europa e Russia”. Le sanzioni dunque dovranno essere applicate con discernimento.
Ma come interverrebbero le nuove sanzioni economiche alla Federazione Russa se i 100 e più mila militari spostati a novembre sul confine con l’Ucraina e la Crimea “passassero il Rubicone” entrando nel territorio ucraino? Ci aiuta a comprendere i meccanismi dell’applicazione l’analisi di Federico Fubini sul “Corriere della Sera” del 28 gennaio scorso (“Pronte le sanzioni Usa per tagliare fuori i russi dalla finanza mondiale. E la UE dovrà adeguarsi”): “Quando nel 2014 la Russia occupò la Crimea innescando l’annessione, ai governi occidentali servirono mesi per mettere insieme le loro sanzioni. L’invasione iniziò in febbraio, ma solo a luglio Stati Uniti, UE, Canada e altre democrazie pubblicarono una lista di misure che sarebbero costate un punto e mezzo di crescita alla Russia. Vladimir Putin decise che era un prezzo accettabile, in cambio della riconquista di uno spicchio dello spazio imperiale di Mosca.
Stavolta, gli americani vogliono far saltare i calcoli del presidente russo: tanto per la durezza quanto per la rapidità delle sanzioni che hanno già preparato. E poco importa che i governi europei decidano di seguire o no, perché il pacchetto di Washington è tale da obbligare le aziende del Vecchio Continente ad adeguarsi per non essere escluse dai mercati degli Stati uniti.
L’obiettivo principale della Casa Bianca è definito con precisione, qualora l’esercito di Mosca dovesse innescare un’altra spirale di violenza in Ucraina: tagliare fuori il sistema finanziario russo dal resto del mondo. Vari osservatori informati confermano che si intende far intervenire l’Office on Foreign Asset Control (Ofac). Spetterebbe a questa sezione del Tesoro Usa pubblicare una lista nera di tutte le principali banche russe, come avvenuto già ai danni dell’Iran. A quel punto, ogni banca o impresa di Paesi terzi che accettasse transazioni con un’entità russa in lista nera sarebbe esclusa da qualunque scambio in dollari o tramite imprese e mercati americani. In sostanza, in caso di sanzioni del Tesoro Usa, le banche e gli esportatori europei dovrebbero scegliere: commerciare e scambiare con i russi, o farlo con il resto del mondo attraverso il dollaro. Resta sul tavolo anche l’opzione di espellere il sistema bancario di Mosca da Swift, la rete internazionale di comunicazioni finanziarie dominata anch’essa dal dollaro (il sistema di transazioni finanziarie Swift è una delle parti principali del sistema globale per il trasferimento di denaro in tutto il mondo, n.d.r.).
La Casa Bianca sarebbe orientata, in caso di invasione russa in Ucraina, di applicare subito il massimo della pressione possibile. L’economia russa finirebbe in gran parte paralizzata, ma uno scenario del genere non potrebbe che avere conseguenze profonde anche per l’Italia: nel 2019 il gas russo copriva poco meno di metà del fabbisogno italiano, nel 2020 il “made in Italy” esportava in Russia per circa 10 miliardi di euro, mentre alcune banche italiane sono esposte in Russia per oltre un miliardo di euro.
Di colpo questi rapporti sarebbero in discussione, qualora la crisi precipitasse. Resta da capire però quali eventi esattamente potrebbero innescare le sanzioni americane e come sta manovrando Mosca per prevenirle. In vari ambienti cresce l’aspettativa che Putin prepari un’invasione felpata come nel 2014 in Crimea, limitandosi alla regione orientale del Donbass (che di fatto è già occupata dalle milizie sostenute da Mosca). Non sarebbe sorprendente se alcuni esponenti filo-russi dichiarassero improvvisamente l’indipendenza della regione dall’Ucraina, offrendo a Putin il pretesto per mandare nel Donbass una missione di “peace-keeping”. Già oggi una mozione per il riconoscimento dell’indipendenza del Donbass del resto è depositata alla Duma di Mosca. L’esercito russo a quel punto potrebbe prendere il controllo, mentre la regione tiene un preteso referendum di annessione proprio come in Crimea otto anni fa.
Un disegno simile non implica spargimenti di sangue, in teoria, ma il rischio che inneschi uno scontro con l’esercito ucraino resta altissimo. La stabilità del continente europeo poggia oggi dunque su di uno strato di ghiaccio sottile. E’ sempre possibile che Putin eviti di accelerare, preferendo mantenere a lungo la minaccia armata sull’Ucraina senza passare ai fatti. Ma se tutto dovesse precipitare, per l’Europa reagire con sanzioni proprie non sarebbe facile. Serve sempre l’unanimità dei 27 governi. E Pèter Szijjàrtò, ministro degli esteri ungherese, ha già fatto sapere a Bruxelles che il suo Paese opporrebbe resistenza. Del resto martedì prossimo Viktor Orbàn, l’uomo forte di Budapest, rende omaggio a Putin a Mosca perché conta di farsi aiutare a produrre energia nucleare”.
L’1 febbraio Mario Draghi ha parlato al telefono con Putin che lo ha rassicurato sulle forniture di gas all’Italia dai gasdotti in attività e sul costo di questa fonte di energia in un periodo nel quale i prezzi di gas e idrocarburi in genere sono saliti alle stelle. Comunque sia, i produttori ci guadagnano sempre: uno dei tanti modi in cui oggi si combattono le “guerre ibride”. Mosca, come fa per gli attacchi propagandistici e la disinformazione scientifica nei media o per i cyber attacchi, sa usare sapientemente le tante leve delle “guerre ibride”. Ma quanto valgono in questi giorni, in queste ore, le rassicurazioni di un Putin così avvolto nell’inestricabile matassa della crisi ucraina? Un dato è certo: almeno nella fase iniziale del possibile conflitto la Russia non dovrebbe chiudere i rubinetti dei gasdotti della potente azienda Gazprom. E non ha nessun interesse ad interrompere il completamento del metanodotto Nord Stream 2 che attraversa il Mar Baltico e continua il suo percorso in Germania. Se le esportazioni di gas in Europa con i gasdotti in funzione o in completamento dovessero bloccarsi vero è che l’Europa si spegnerebbe nella vita quotidiana, nella produzione agricola, nella produzione industriale. Ma è altrettanto vero che specularmente senza i 100 miliardi di euro di guadagno da queste vendite di gas che la Russia incassa l’economia dell’immenso paese andrebbe in fallimento. Non riuscirebbe a pagare i dipendenti pubblici e a far marciare gli investimenti, le attività economiche. Scenari nell’uno e nell’altro versante da collasso, da film catastrofici da “day after”.
Proposta ragionevole per un piano di descalation
Come si esce dalla gravissima crisi che rischia di mettere a ferro e fuoco il continente europeo un trentennio dopo i sanguinosi conflitti etnico-nazionalisti nei Balcani iniziati nel 1991 e protrattisi per dieci anni, alimentati dalla dissoluzione della Jugoslavia? Esercizio complicatissimo. Ma ecco, nei punti essenziali, una proposta ragionevole e possibile che potrebbe tenere conto delle esigenze delle parti in causa.
1.L’Ucraina congela formalmente la sua entrata nella Nato per un arco temporale che tranquillizzi Mosca. Ad esempio per un decennio.
2.L’Ucraina piuttosto che nella Nato si attrezza politicamente, socialmente ed economicamente per entrare nella Unione Europea che non è e non viene vissuta a Mosca come una alleanza militare.
3.Bulgaria e Romania restano ovviamente nella Nato.
4.La Russia ritira le armate dai suoi territori a ridosso del confine orientale dell’Ucraina e mette fine alle sue esibizioni muscolari fatte di continue esercitazioni e manovre.
5.La Crimea con Sebastopoli rimane nell’orbita territoriale russa. E’ dura incassare la legittimazione di un atto illegittimo e violento compiuto nel 2014 però non esistono alternative: senza la Crimea e senza Sebastopoli la Russia diventa insignificante nel Mar Nero e nel Mar Mediterraneo come superpotenza navale e dunque la Russia non vi rinuncerà mai.
6.Le regioni secessioniste filorusse orientali dell’Ucraina, il Donbass, diventano il secondo troncone dello stato federale in cui dovrà trasformarsi l’Ucraina. Stato federale con due entità (una le regioni occidentali - e filoccidentali – e l’altra le regioni orientali filorusse) dotate di amplissima autonomia all’interno della cornice statuale unica. Coesistenza difficilissima ma necessaria. In casi del genere – vedi l’esperienza storica della Germania est e della Germania Federale prima e dopo la riunificazione – chi diventa più ricco, chi sa produrre meglio, chi è più moderno e aperto finisce che imporsi come locomotiva trainante rispetto all’altro pezzo di territorio. Viene guardato anche come realtà da emulare.
7.Il gasdotto Nord Stream 2 si completa e si mette in funzione per approvvigionare i paesi europei. Ma ogni paese europeo anno dopo anno non lasci nulla di intentato per diversificare i fornitori di gas, idrocarburi e fonti energetiche varie. Così da lasciarsi alla spalle la schiacciante dipendenza dall’importazione del gas del “compagno” Putin. Naturalmente questa dietrologia non si scriverebbe nell’accordo tra le parti ma diverrebbe implicita e perseguita. Che si importi materia prima energetica dalla Norvegia, dalla penisola arabica, dall’Africa, da altre aree geografiche. Da più territori uno stato si approvvigiona e meno è esposto alle crisi energetiche e militari. Almeno finchè in sella a Mosca resterà Putin e finchè la Russia non vedrà l’Occidente e l’Europa come nemici o, nella migliore delle ipotesi, come “competitor” e non come partner. E nel frattempo sia sempre più assiduo il ricorso alle energie alternative verdi e pulite. Per rispettare l’ambiente. Per frenare le follie del clima alterato. E, non meno, per non rimetterci la pelle in massa in nuovi conflitti che, gira e rigira, hanno sempre come premessa o in evidenza la componente energetica, che ci siano di mezzo vecchie o nuove tecnologie.
Intanto in queste ore in Ucraina si addestrano i civili all’uso delle armi e un gruppo navale russo dai porti del Baltico dopo giorni e giorni di tempestosa navigazione attraverso lo Stretto di Gibilterra è entrato nel Mediterraneo per rimpinguare la già considerevole presenza di navi da guerra di Mosca o per raggiungere il Mar Nero e l’area di crisi. A Kiev continuano ad atterrare cargo che scaricano armi americane destinate all’esercito ucraino e 8.500 soldati degli Usa si preparano a dislocarsi nelle basi della Nato nei paesi aderenti dell’Europa orientale per potenziare sia l’effetto pressione sia l’effetto deterrenza.
Il 2 febbraio il Pentagono ha confermato l’invio dei primi 3.000 soldati degli 8.500 messi in stato di allerta nell’Europa dell’est per rinforzare il fianco orientale della Nato in caso di invasione russa dell’Ucraina. Arriveranno a destinazione “nei prossimi giorni”. Il nuovo dispiegamento riguarda circa 2.00 soldati a stelle e strisce in Polonia e gli altri nei paesi sud-orientali come la Romania. “Non si tratta di mosse permanenti e i soldati non combatteranno in Ucraina” ha precisato il portavoce. “E’ importante mandare un forte segnale non solo a Putin ma al mondo” ha aggiunto.
Il Segretario Generale della Nato Stoltenberg ha accolto “con favore la decisione Usa di schierare ulteriori forze in Germania, Polonia e Romania” come fattore di deterrenza. “E’ un forte segnale dell’impegno Usa e si aggiunge ad altri recenti contributi americani alla nostra sicurezza – ha aggiunto – I nostri schieramenti sono difensivi e proporzionati e mandano il chiaro messaggio che la Nato farà tutto il necessario”.
La reazione di Mosca a questa decisione tanto telegrafica quanto efficace. “Una mossa distruttiva” è stato il ringhioso commento delle fonti ufficiali. Chiosando il 3 febbraio con una più articolata risposta: “Continuiamo a chiedere agli Usa di smettere di alimentare tensioni in Europa ma sfortunatamente gli americani continuano a farlo” ha detto il portavoce del Cremlino Peskov. L’invio di altre truppe americane “non è un passo volto alla de-escalation ma al contrario una azione che porta a un aumento delle tensioni”. Le preoccupazioni russe per l’espansione di Nato e Usa a est sono “chiare e giustificate”.
Nelle ultime ore nella guerra dei comunicati e della disinformazione o della costruzione di false prove e falsi pretesti (ricordate le insistite quanto del tutto inventate prove americane della disponibilità nell’Iraq di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa?) si sono aggiunti nuovi particolari, chissà se e quanto veri o costruiti a tavolino dalle intelligence. “Abbiamo informazioni che i russi vogliano invadere l’Ucraina con un pretesto. Una delle ipotesi è che inventino un attacco da parte di Kiev con video di propaganda che mostrino cadaveri e armi ucraine fornite dall’occidente” ha spiegato il portavoce del Pentagono. In precedenza il “Washington Post” aveva reso noto che l’amministrazione Biden disponeva di notizie circa la preparazione di un “incidente” che sarebbe servito a Mosca come pretesto per giustificare una invasione dell’Ucraina.
Intanto il 3 febbraio i ministri degli esteri di Russia e Cina, Lavrov e Wang Yi, si incontrano. Mosca cerca il pieno appoggio di Pechino. Tra regimi autocratici sempre più legati e con un crescendo di interessi strategici ed economici in comune ci si intende. Mentre si è in attesa dell’inaugurazione delle Olimpiadi invernali di Pechino e dell’imminente incontro dell’invitato Putin con il padrone di casa Xi Jinping il ministro Wang Yi dichiara: “Gli Usa e i paesi occidentali stanno esercitando pressioni contro la Russia per la questione dell’Ucraina e contro la Cina per Taiwan. Tali atti di pressione da parte dell’Occidente costringeranno Russia e Cina a rafforzare la loro cooperazione”. Tradotto: l’alleanza sino-russa diventa sempre più stretta e potente.
Particolarmente
attivo sul piano diplomatico Emmanuel Macron. Alla Francia in questo
semestre compete la presidenza di turno dell’Unione Europa e il
presidente francese opera nella doppia veste. “Putin e Macron ieri
sera si sono parlati al telefono sulla crisi in Ucraina. E' la terza
telefonata della settimana tra i due, secondo quanto riferisce la
Tass.
Ieri sera, secondo quanto riferito da fonti dell'Eliseo,
Macron ha parlato per 45 minuti con Putin e per circa un'ora con il
presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. "Le due discussioni -
continuano le fonti - giungono in un contesto di concertazione
continua fra partner europei ed alleati. Si iscrivono nella
determinazione del presidente francese di proseguire il dialogo per
identificare gli elementi che devono portare a una de-escalation".
"I colloqui - proseguono le fonti della presidenza francese -
sono stati incentrati su due priorità. La prima, capitalizzare sui
recenti progressi del formato Normandia per giungere ad una soluzione
duratura nel Donbass. La seconda, avviare la conversazione sulle
condizioni dell'equilibrio strategico in Europa, che devono
consentire di constatare una riduzione dei rischi sul terreno e
garantire la sicurezza sul continente". Macron si recherà a
Mosca lunedì 7 febbraio ed a Kiev martedì 8. (“Ansa, 4 febbraio
2022”)
Denso di significati e di firme di ben quindici accordi economici miliardari, in particolare in campo energetico, il vertice Xi-Putin qualche ora prima della cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici invernali di Pechino. “Il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, è giunto a Pechino per le Olimpiadi invernali. In occasione dell'incontro tra Vladimir Putin e Xi Jinping, Cina e Russia hanno firmato una dichiarazione congiunta per denunciare l'influenza americana definita "destabilizzatrice" in Europa e Asia. Nel documento i due Paesi si oppongono ad una eventuale futura espansione della Nato in Europa e denunciano "l'influenza negativa per la pace e la stabilità della regione e la strategia degli Stati Uniti nell'Indo-Pacifico", dicendosi "preoccupati" per la creazione nel 2020 di Aukus, l'alleanza militare tra Usa, Gran Bretagna e Australia.
"Le nostre compagnie petrolifere hanno preparato delle nuove soluzioni molto buone per le forniture di idrocarburi verso la Repubblica popolare cinese, e anche nell'industria del gas è stato fatto un passo in avanti: mi riferisco al nuovo contratto per la fornitura di gas in Cina dall'estremo oriente russo di dieci miliardi di metri cubi". Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin, durante i colloqui con Xi Jinping secondo quanto riportato dall’agenzia Ria Novosti”. (“Ansa”, 4 febbraio 2022)
Putin incassa l’appoggio pieno di Xi Jinping e gongola: “Le relazioni tra Cina e Russia in questa fase sono senza precedenti”. Si consolida l’asse Pechino-Mosca. Le prima è diventata la fabbrica del mondo e la seconda le fornisce l’energia, materia prima per poterlo fare. All’imperialismo americano l’asse Pechino-Mosca contrappone l’imperialismo autocratico dittatoriale ed affarista – al passo con la modernità e le nuove tecnologie - in cui si è evoluto il comunismo tra fine XX secolo ed inizi XXI nei due sterminati paesi. Una volta classista, internazionalista, operaio e contadino. Altri tempi, altre immagini e altre retoriche.
Se la parola dalla diplomazia dovesse passare alle armi rassegniamoci tutti. Verrebbero giorni al cui confronto i due sconvolgenti anni di pandemia che stiamo attraversando sarebbero ricordati come una lunga passeggiata di salute. Non saremmo di fronte ad una guerra per procura tra le superpotenze nella quale una combatte e l’altra interviene ma non combatte direttamente pur schierandosi con la parte avversa. E’ successo in passato nel Vietnam per gli Stati Uniti – che, scornati, hanno infine abbandonato il paese - con l’Urss che sosteneva ed armava i vietcong. O, a ruoli invertiti, in Afghanistan con l’Urss impegnata sul campo - e che parimenti sconfitta ha abbandonato al suo destino il paese - mentre Washington armava ed appoggiava la guerriglia afghana, scelta sconsiderata decenni dopo pagata a carissimo prezzo. Stavolta - in un crescendo parossistico di decisioni, di ordini, di posizionamenti, di azioni e reazioni, di spostamenti di truppe, di geometrie variabili – se l’incendio non si spegne al più presto ed anzi si propaga potremmo assistere ad uno scontro diretto tra le due superpotenze Stati Uniti e Russia. Armate, non dimentichiamolo, degli ordigni più micidiali. Inimmaginabili quanto ad energia distruttiva.
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