La crisi della politica genera mostri europei
Il voto del 25 maggio per il rinnovo del Parlamento Europeo va valutato considerando almeno tre punti di vista diversi e parzialmente discordanti:
- a livello europeo si è verificato ciò che l'intellettuale progressista britannico Timothy Garton Ash definisce “un guaio di dimensioni continentali”, con la crescita dei movimenti populisti ed antieuropei e il caso drammatico della Francia con l'affermazione del Fronte nazionale ed il crollo dei socialisti.
- Il risultato italiano è segnato dal successo strepitoso del PD che ha trovato conferma anche nelle amministrative e fa dei Democratici l'unico partito a diffusione omogenea in tutto il territorio nazionale;
- la Sicilia si colloca nel trend nazionale, ma qui pesano le conseguenze delle polemiche insorte a proposito delle caratteristiche e del significato attuale della lotta alla mafia, ma soprattutto gli effetti ipotizzabili sul destino del presidente Crocetta e della legislatura regionale.
Nei ventotto paesi aderenti il comune denominatore è rappresentato dalla
crisi del rapporto tra gli elettorati e le istituzioni dell'Unione viste come
lontane, ostili per la pervicace riproposizione delle politiche di austerità, non
democraticamente legittimate. Ancora
Garton Ash, con un paragone felice ha ricordato che “il giorno dopo l'assalto
alla Bastiglia sull'agenda quotidiana del re Luigi XVI era scritto rien “; sarebbero sorde e cieche le
elitès politiche europee se si comportassero allo stesso modo. Il voto esprime
in alcuni casi – come la britannica UKIP di Nigel Farage che ha dominato anche
le elezioni locali – un’ evidente
ispirazione isolazionista, in altri un'impronta marcatamente di destra,
come in Danimarca e in Francia. La richiesta di un cambiamento profondo ha
fatto emergere il malessere generale nei confronti della politica di austerità
che è considerata la causa principale del perdurare della crisi, della
disoccupazione dilagante e del vasto impoverimento degli abitanti del
Continente. Tuttavia, non sempre il malcontento è confluito a destra: la Spd
tedesca è cresciuta del 6%, i laburisti hanno superato il partito conservatore
del premier Cameron, i socialisti svedesi sono stati i primi; in Grecia la
protesta si è orientata a sinistra verso Syriza, che non propone l'uscita
dall'euro ma la revisione radicale delle
politiche economiche. Più grave è il caso francese, con il crollo del PS ai
minimi storici e la vittoria a man bassa del Front national di Marine Le Pen.
Marc Lazar ha ricordato che la Francia ha un deficit pubblico al 4.3% del PIL ,
un debito pubblico del 93%, la competitività delle imprese sta crollando, il
tasso di disoccupazione ha superato il 10%, gli investimenti esteri diretti
sono diminuiti del 77% nel 2013. Sono dati che ne fanno la grande malata
d'Europa e che, come ha detto il sociologo Alain Touraine spiegano perché il
Front National che si rivolge “non ai cittadini ma agli individui come
consumatori” sia riuscito ad ampliare i
propri consensi dai tradizionali insediamenti del Sud al Nord Est
deindustrializzato ed alle regioni un tempo moderate dell'Ovest. Alla radice di questo risultato ci sono
pulsioni profonde nella società francese che feriscono al cuore uno dei
fondatori del progetto di Europa unita. La crisi dell'economia transalpina è
stata a lungo mascherata dalla solidità del sistema amministrativo e da un
prestigio sul piano internazionale che consentì a Sarkozy di rinviare le scelte
che furono invece imposte alla debole e squalificata Italia di Silvio
Berlusconi. Le aspettative che i ceti
sociali penalizzati dalla crisi avevano riposto in Hollande sono state tradite
da una politica che non ha affrontato le contraddizioni latenti nel profondo
della società transalpina. C'è un duro fondo di destra nella società francese
che ogni tanto riemerge, mentre non funziona più il patto repubblicano contro
la destra fascista che in altri tempi aveva sempre consentito di isolare il
lepenismo. I socialisti francesi hanno di fronte a sé un percorso irto di
difficoltà e dovranno fare i conti fino in fondo con le loro contraddizioni.
Contrariamente all'opinione comune, la Merkel non esce rafforzata dalle
elezioni né sul piano interno né su quello comunitario: il suo partito ha
tenuto, ma la Spd ha guadagnato consensi e il partito dichiaratamente
antieuropeo Alternative fur Deutschland è riuscito a conquistare un seggio a
Strasburgo.
Quali alleanze si determineranno nel
Parlamento appena eletto? Si ripeteranno le larghe intese tra Socialisti e
popolari? I gruppi euroscettici troveranno una modalità di azione comune, come
sembrerebbe emergere dagli incontri in corso tra la Le Pen e Matteo Salvini,
che ha guadagnato alla Lega Nord un
risultato positivo e dalla presa di contatto tra Grillo e Farage? Le risposte a queste domande saranno decisive
per l’assetto che l’Europa si darà nei prossimi anni. Chi sarà il presidente della Commissione
europea che per la prima volta gli elettori avevano avuto la possibilità di
indicare? Prevederlo è difficile: i popolari hanno conquistato un maggior
numero di seggi, ma da soli non hanno la maggioranza. La presidenza Junker
rappresenterebbe la soluzione peggiore e amplierebbe la distanza tra i popoli
europei e le istituzioni comunitarie. Da questo punto di vista Martin Schulz
non ha ancora perso la sua battaglia e, in ogni caso, bisognerà trovare una
soluzione dal profilo decisamente innovativo, se si vuole impedire che la
situazione precipiti. Sul terreno economico e finanziario la crisi non è
superata e si affaccia il rischio della deflazione; l'unica istituzione oggi
dotata d’indiscussa credibilità è la BCE di Mario Draghi. Se non si modificherà l'atteggiamento tedesco
di ostilità alla politica d’investimenti e alla mutualizzazione del debito, la situazione
è destinata a non reggere, specialmente in presenza di un quarto dei deputati
esplicitamente antieuropei. Se l'Europa resta in mezzo al guado è destinata a
perire: solo l'accelerazione verso istituzioni federali ridarà fiato alle
prospettive politiche ed economiche del continente.
Vengo all'Italia. Il Pd sfonda il muro del 40% e diventa il primo partito in 106 province e il secondo in due (Ilvo Diamanti), il movimento di Grillo perde quasi tre milioni di voto rispetto alle ultime politiche, Forza Italia diventa il terzo partito e non raggiunge il 17%, il NCD di Alfano supera di un'incollata il 4% restando al disotto delle aspettative, la lista Tsipras ottiene un risultato dignitoso. Non so se siamo finalmente giunti alla conclusione della lunga transizione cominciata nel 1992-93, ma la cosa certa è che l’era di Silvio Berlusconi è finita e per il centrodestra inizia una traversata nel deserto che sarà resa più difficile dalle caratteristiche di dominio personale che hanno contraddistinto l'egemonia dell'ex cavaliere. L’analisi del voto nelle singole circoscrizioni conferma che il 25 maggio è mutata, dopo più di vent'anni, la geografia politica del paese. Ha perso chi ha pensato di poter rilanciare in versione 2.0 un'antica tendenza antiparlamentare presente in una parte della società italiana che considera la democrazia un disvalore. Se Grillo e Casaleggio conoscessero qualcosa della storia del loro paese, non faticherebbero a riconoscere nel loro Pantheon i leader del movimento antiparlamentare del primo decennio del XX secolo (“apriremo il Parlamento con un apriscatole” sembra preso a prestito dal futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, che qualche rapporto col fascismo l’ebbe) oppure l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, fuoco di paglia che bruciò rapidamente il suo successo negli anni del secondo dopoguerra. Il M5S, pur in notevole flessione, diventa il secondo partito italiano: un'opposizione urlante e incolta che finirà per incontrarsi con gli iperlegalitari alla Marco Travaglio. Per la prima volta nella storia della seconda repubblica il centrosinistra, ha riconquistato il Nord, non ha perso voto operaio, ha goduto di un effetto traino uniformemente distribuito su tutto il territorio nazionale: scusate se è poco. Aggiungo che il 4% della lista Tsipras ha consentito di non disperdere un bacino di voti che, per quanto ormai socialmente e politicamente ristretto, risulta comunque utile nel concorrere all'affermazione di un'idea di cambiamento. La mia impressione è che sia stato apprezzato il salto generazionale che Matteo Renzi e molti suoi ministri incarnano e che gli elettori gli abbiano affidato una speranza di rinnovamento che per la prima volta può contare sulla forza di un partito riformista a vocazione maggioritaria (Ezio Mauro). Trovo sciocco tentare di misurare il tasso di sinistra e/o di tradizione democristiana contenuta nel voto; in realtà questo risultato elettorale segna un cambiamento nella politica italiana la cui larghezza e incisività potranno meglio misurare nei prossimi mesi. Personalmente lo interpreto non tanto come un voto che premia quanto è stato fatto (in neanche tre mesi sarebbe impossibile),quanto una scommessa sul futuro di quanti hanno avvertito che il paese si avvicinava al punto di non ritorno di una paralisi ormai quinquennale. Il presidente del Consiglio sarà atteso e giudicato sul terreno del fare e della capacità di mantenere gli impegni che ha preso: sarebbe un delitto se un tale capitale di fiducia venisse sprecato. Proprio la dimensione del successo potrebbe più ardua l'impresa che attende il governo e il PD, a partire dal modo in cui il prestigio acquisito sarà speso nella gestione del semestre di presidenza europeo che prende avvio con giugno.
Infine la Sicilia. Anche nell’isola ha prevalso il trend nazionale, ma
con alcune particolarità. Il Pd s'impone come primo partito,
con oltre il 33%, raddoppiando la media dei voti presi alle politiche del
2013 e alle regionali del 2012. Tiene il M5s che raggiunge il 26%, pur senza
sfondare come indicavano invece i pronostici della vigilia, mentre Forza
Italia, al debutto post-scissione, si attesta al21% confermando l'appeal che Berlusconi
mantiene, nonostante tutto. nell'isola, vincendo la sfida con il Ncd di
Angelino
Alfano, che agguanta quota 9%, grazie all'accordo con l'Udc, che però da sola
alle regionali
aveva superato il 10%. Steccano Idv e Scelta europea di Monti, sotto l'1% e
superati,
nell'isola, persino dalla Lega nord (0,99%) con Matteo Salvini a quota 10 mila
voti, tre volte quelli ottenuti da Ignazio Messina, segretario nazionale del
partito di Di Pietro. Nella nostra regione la distanza tra PD e M5S si
accorcia; Alfano e Schifani perdono in casa contro una Forza Italia che si
colloca circa cinque punti sopra la media nazionale, una parte del voto
moderato viene intercettata da Michela Giuffrida che, inserita in lista da
Articolo 4 di Lino Leanza, guadagna a sorpresa il seggio a Strasburgo. Il tasso di astensione di diversi punti più
elevato della media nazionale segnala tuttavia il malessere e la lontananza
dalla politica di un pezzo non secondario della società siciliana.
L'elettorato, inoltre, ha punito la litigiosità interna al partito democratico
e le forzature polemiche che hanno accompagnato l'ultima settimana della
campagna elettorale. Ne esce sconfitta, finalmente, l'idea della “diversità”
della Sicilia rispetto al contesto nazionale, come è segnalato dal primato del sardo Renato Soru nelle
preferenze e dal premio che gli elettori hanno accordato alla campagna
tranquilla di Caterina Chinnici. Mi aspetto novità a tempi brevi perché i
risultati delle elezioni, a mio avviso, accelereranno gli elementi di crisi
politica che sono maturati nelle scorse settimane Molti segnali mi confermano
nell'opinione che sia alle viste una fase completamente nuova della vicenda
regionale, nella quale nessuno dei contendenti della singolar tenzone che ha
portato all'onore delle cronache il partito siciliano sarà premiato. Allo
stato, mancano troppi elementi per prevedere se si raggiungerà un compromesso
che consenta al presidente Crocetta di portare alla conclusione naturale la
legislatura, oppure se la situazione precipiterà. A me continua a sembrare un
peccato buttare alle ortiche il primo governo di centrosinistra da quando
esiste l’elezione diretta del presidente. Francamente però - se si dovesse
continuare così – non avrebbe senso perpetuare lo spettacolo indecoroso delle
ultime settimane e sarebbe più saggio eleggere una nuova Assemblea regionale,
composta da 70 deputati, radicalmente rinnovata e capace di cogliere gli
elementi di svolta della politica nazionale mettendo in cantiere le radicali
riforme di cui la Sicilia ha estremo ed urgente bisogno.
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