La corsa agli armamenti e l'incubo nucleare

Società | 20 marzo 2022
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1.Prologo. “Uomo del mio tempo” di Salvatore Quasimodo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Versi di incommensurabile intensità. Pubblicata nel 1946 nella raccolta “Giorno dopo giorno”, “Uomo del mio tempo” del Nobel siciliano Salvatore Quasimodo è stata scritta con un preciso intento: all’indomani della Seconda Guerra Mondiale lancia un monito alle nuove generazioni, un appello perché ciò che è accaduto nel quinquennio precedente non si ripeta mai più. Un grido contro il radicato, e pare proprio ineliminabile, ritorno della guerra nella storia dell’uomo. Sempre primitivo. Perché continua a combattere e massacrare, “ammodernando” solo (moltiplicando di conseguenza l’impatto delle distruzioni) le modalità con le quali combatte.


2.“L’ingiustizia della guerra” nell’Enciclica di Papa Francesco Fratelli Tutti”

Scriveva il 3 ottobre 2020 Papa Francesco nella Lettera Enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale “Fratelli Tutti” nel capitolo intitolato “L’ingiustizia della guerra” (paragrafi 256 …262):

256. «L’inganno è nel cuore di chi trama il male, la gioia invece è di chi promuove la pace» (Pr 12,20). Tuttavia, c’è chi cerca soluzioni nella guerra, che spesso «si nutre del pervertimento delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della diversità vista come ostacolo». La guerra non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il mondo sta trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che aveva intrapreso e che cominciava a dare alcuni frutti.

257. Poiché si stanno creando nuovamente le condizioni per la proliferazione di guerre, ricordo che «la guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli. A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale». Voglio rilevare che i 75 anni delle Nazioni Unite e l’esperienza dei primi 20 anni di questo millennio mostrano che la piena applicazione delle norme internazionali è realmente efficace, e che il loro mancato adempimento è nocivo. La Carta delle Nazioni Unite, rispettata e applicata con trasparenza e sincerità, è un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e un veicolo di pace. Ma ciò esige di non mascherare intenzioni illegittime e di non porre gli interessi particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune mondiale. Se la norma viene considerata uno strumento a cui ricorrere quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si scatenano forze incontrollabili che danneggiano gravemente le società, i più deboli, la fraternità, l’ambiente e i beni culturali, con perdite irrecuperabili per la comunità globale.

258. È così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose condizioni di legittimità morale». Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano «mali e disordini più gravi del male da eliminare». La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene». Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!

259. È importante aggiungere che, con lo sviluppo della globalizzazione, ciò che può apparire come una soluzione immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future. Nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale.

260. Come diceva San Giovanni XXIII, «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia». Lo affermava in un periodo di forte tensione internazionale, e così diede voce al grande anelito alla pace che si diffondeva ai tempi della guerra fredda. Rafforzò la convinzione che le ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi. Però non si colsero pienamente le occasioni offerte dalla fine della guerra fredda, per la mancanza di una visione del futuro e di una consapevolezza condivisa circa il nostro destino comune. Invece si cedette alla ricerca di interessi particolari senza farsi carico del bene comune universale. Così si è fatto di nuovo strada l’ingannevole fantasma della guerra.

261. Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace.

262. Neppure le norme saranno sufficienti, se si pensa che la soluzione ai problemi attuali consista nel dissuadere gli altri mediante la paura, minacciandoli con l’uso delle armi nucleari, chimiche o biologiche. Infatti, «se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni in questo mondo multipolare del XXI secolo, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, la sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà, non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide. Siffatte preoccupazioni assumono ancor più consistenza quando consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari con devastanti effetti indiscriminati e incontrollabili nel tempo e nello spazio. […] Dobbiamo anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia fra i popoli. La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere. […] In tale contesto, l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario. […] La crescente interdipendenza e la globalizzazione significano che qualunque risposta diamo alla minaccia delle armi nucleari, essa debba essere collettiva e concertata, basata sulla fiducia reciproca. Quest’ultima può essere costruita solo attraverso un dialogo che sia sinceramente orientato verso il bene comune e non verso la tutela di interessi velati o particolari». E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa”. (Libreria Editrice Vaticana, Editrice Elledici, Ottobre 2020. Le parti tra virgolette riportano in prevalenza precedenti citazioni, messaggi, discorsi, interventi dello stesso Papa Francesco, n.d.r.).


3.L’appello di 50 premi Nobel per la riduzione delle spese militari

Il 13 dicembre 2021 cinquantatré Nobel ed otto accademici, studiosi e scienziati – il top dell’intelligenza mondiale – firmano il seguente appello per ridurre le spese militari:

La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all’anno. Inoltre, è in aumento in tutte le aree del mondo. I singoli governi sono sotto pressione e incrementano la spesa militare per stare al passo con gli altri Paesi. Il meccanismo della controreazione alimenta una corsa agli armamenti in crescita esponenziale, il che equivale a un colossale dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate a scopi migliori.

In passato, la corsa agli armamenti ha spesso condotto a un’unica conseguenza: lo scoppio di guerre sanguinose e devastanti. Noi vogliamo presentare una semplice proposta per l’umanità: che i governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite si impegnino ad avviare trattative per una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni.

La nostra proposta si basa su una logica elementare:

  • Le nazioni nemiche ridurranno la spesa militare, e così facendo rafforzeranno la sicurezza dei rispettivi Paesi, pur conservando l’equilibrio delle forze e dei deterrenti.

  • L’accordo siglato servirà a contenere le ostilità, riducendo il rischio di futuri conflitti.

  • Enormi risorse verranno liberate e rese disponibili, il cosiddetto «dividendo della pace», pari a mille miliardi di dollari statunitensi entro il 2030.

La metà delle risorse sbloccate da questo accordo verrà convogliata in un fondo globale, sotto la vigilanza delle Nazioni Unite, per far fronte alle istanze più pressanti dell’umanità: pandemie, cambiamenti climatici e povertà estrema. L’altra metà resterà a disposizione dei singoli governi. Così facendo, tutti i Paesi potranno attingere a nuove e ingenti risorse, che in parte si potranno utilizzare per reindirizzare le notevoli capacità di ricerca dell’industria militare verso scopi pacifici nei settori di massima urgenza.

La storia dimostra che è possibile siglare accordi per limitare la proliferazione degli armamenti: grazie ai trattati Salt e Start, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno ridotto i loro arsenali nucleari del 90 percento dagli anni Ottanta ad oggi. I negoziati da noi proposti avranno una buona possibilità di successo, perché fondati su un ragionamento logico: ciascun attore sarà in grado di beneficiare dalla riduzione degli arsenali del nemico, e così pure l’intera umanità. In questo momento, il genere umano si ritrova ad affrontare pericoli e minacce che sarà possibile scongiurare solo tramite la collaborazione. Cerchiamo di collaborare tutti insieme, anziché combatterci”.

Firmatari:

Hiroshi Amano (Nobel per la fisica)

Peter Agre (Nobel per la chimica)

David Baltimore (Nobel per la medicina)

Barry C. Barish (Nobel per la fisica)

Steven Chu (Nobel per la fisica)

Robert F. Curl Jr. (Nobel per la chimica)

Johann Deisenhofer (Nobel per la chimica)

Jacques Dubochet (Nobel per la chimica)

Gerhard Ertl (Nobel per la chimica)

Joachim Frank (Nobel per la chimica)

Sir Andre K. Geim (Nobel per la fisica)

Sheldon L. Glashow (Nobel per la fisica)

Carol Greider (Nobel per la medicina)

Harald zur Hausen (Nobel per la medicina)

Dudley R. Herschbach (Nobel per la chimica)

Avram Hershko (Nobel per la chimica)

Roald Hoffmann (Nobel per la chimica)

Robert Huber (Nobel per la chimica)

Louis J. Ignarro (Nobel per la medicina)

Brian Josephson (Nobel per la fisica)

Takaaki Kajita (Nobel per la fisica)

Tawakkol Karman (Nobel per la pace)

Brian K. Kobilka (Nobel per la chimica)

Roger D. Kornberg (Nobel per la chimica)

Yuan T. Lee (Nobel per la chimica)

John C. Mather (Nobel per la fisica)

Eric S. Maskin (Nobel per l’economia)

May-Britt Moser (Nobel per la medicina)

Edvard I. Moser (Nobel per la medicina)

Erwin Neher (Nobel per la medicina)

Sir Paul Nurse (Nobel per la medicina e presidente emerito della Royal Society)

Giorgio Parisi (Nobel per la fisica)

Jim Peebles (Nobel per la fisica)

Sir Roger Penrose (Nobel per la fisica)

Edmund S. Phelps (Nobel per l’economia)

John C. Polanyi (Nobel per la chimica)

H. David Politzer (Nobel per la fisica)

Sir Venki Ramakrishnan (Nobel per la chimica e presidente emerito della Royal Society)

Sir Peter Ratcliffe (Nobel per la medicina)

Sir Richard J. Roberts (Nobel per la medicina)

Michael Rosbash (Nobel per la medicina)

Carlo Rubbia (Nobel per la fisica)

Randy W. Schekman (Nobel per la medicina)

Gregg Semenza (Nobel per la medicina)

Robert J. Shiller (Nobel per l’economia)

Stephen Smale (Medaglia Fields per la matematica)

Sir Fraser Stoddart (Nobel per la chimica)

Horst L. Störmer (Nobel per la fisica)

Thomas C. Südhof (Nobel per la medicina)

Jack W. Szostak (Nobel per la medicina)

Olga Tokarczuk (Nobel per la letteratura)

Srinivasa S. R. Varadhan (Premio Abel per la matematica)

Sir John E. Walker (Nobel per la chimica)

Torsten Wiesel (Nobel per la medicina)

Roberto Antonelli (Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei)

Patrick Flandrin (Presidente dell’Académie des Sciences, Francia)

Mohamed H.A. Hassan (Presidente della World Academy of Sciences)

Annibale Mottana (Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei)

Anton Zeilinger (Presidente dell’Academy of Sciences, Austria)

Carlo Rovelli and Matteo Smerlak, organizzatori.

In sintesi: meno armi, più sviluppo. E’ “la campagna per il “Dividendo della pace”: liberare risorse per combattere il cambiamento climatico, le pandemie, le povertà. Costituendo così un fondo di 1.000 miliardi di dollari entro il 2030” (Lucia Capuzzi “Appello. 50 scienziati e premi Nobel: via il 2 per cento alle spese militari, più pace nel mondo”, “L’Avvenire” 15 dicembre 2021).

Commenta Tommaso Di Francesco in un editoriale sul quotidiano “Il Manifesto” il 15 dicembre 2021 (“Draghi risponda ai cinquanta premi Nobel”): “Certo non è la messa in pratica della parola d’ordine del movimento operaio all’inizio del secolo breve, ripresa, tutti ricorderanno, dal presidente Sandro Pertini: «Si svuotino gli arsenali di armi, si riempiano i granai», ma la proposta avanzata ieri con un appello sottoscritto da cinquanta premi Nobel e accademici di ogni paese – tra gli altri da Carlo Rubbia e Giorgio Parisi - è davvero molto importante. Soprattutto perché, probabilmente con la moralità di chi sente necessaria una restituzione di verità – quanta scienza è stata abusata dalla ricerca militare per distruggere invece che per costruire? – si rivolge in modo semplice e diretto ai governi del mondo.

Che cosa dichiara e chiede l’appello? Di negoziare una riduzione equilibrata della spesa militare globale che darebbe l’avvio ad un grande «dividendo globale per la pace», liberando enormi risorse da utilizzare per i gravi problemi dell’umanità: pandemie, riscaldamento globale, povertà estrema. E lo fa subito con una denuncia che fotografa l’attuale condizione del pianeta alle prese con ogni specie di conflitto armato: «La spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000. Si avvicina a 2 trilioni di dollari Usa all’anno, ed è in aumento in tutte le regioni del mondo – sostengono i Nobel – i singoli governi sono sotto pressione per aumentare le spese militari perché gli altri lo fanno». È la corsa agli armamenti.

Un colossale spreco di risorse che potrebbero essere utilizzate molto più saggiamente». È il circolo vizioso di più armi più guerra, più guerra più armi – sempre più sofisticate – dal quale non solo non si esce ma sempre più diventa un mare di sabbie mobili. Per una corsa agli armamenti raddoppiata in 20 anni che ha generato solo conflitti mortali devastanti. La proposta? «I governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite negozino una riduzione comune delle loro spese militari del 2% ogni anno, per cinque anni. La logica della proposta è semplice: le nazioni avversarie riducono le spese militari, quindi la sicurezza di ogni paese è aumentata, mentre deterrenza e equilibrio sono preservati.

Proponiamo che metà delle risorse liberate da questo accordo siano destinate a un fondo globale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, per affrontare i gravi problemi comuni dell’umanità… L’altra metà resti a disposizione dei singoli governi». Insomma, insistono i Nobel: «Collaboriamo, invece di farci guerra». Troppo semplicistico? Mica tanto. Facciamo pure noi i nostri conti in tasca. In Italia 26 miliardi di euro son spesi annualmente dal ministero della Difesa, equivalenti a una media di oltre 70 milioni di euro al giorno – a fronte dei peggiori salari del Continente, delle spese sanitarie mancanti e dell’accanimento sul reddito di cittadinanza.

A questi si aggiunge per i prossimi anni un fondo di 30 miliardi di euro stanziati a fini militari dal Ministero dello Sviluppo economico e di altri 25 richiesti dal Recovery Fund. Nei prossimi anni, come richiesto dalla Nato e ribadito dagli Usa, occorre passare ad almeno 36 miliardi di euro annui, equivalenti a una media di circa 100 milioni di euro al giorno. Nel mondo ogni minuto si spendono circa 4 milioni di dollari a scopo militare. Nel 2020 la spesa militare mondiale ha quasi raggiunto i 2.000 miliardi di dollari, il più alto livello dal 1988 al netto dell’inflazione.

La spesa militare mondiale è trainata da quella statunitense, salita a circa 770 miliardi di dollari annui (stime del Sipri, 3 volte la spesa militare della Cina e 12 volte quella della Russia). La cifra rappresenta il budget del Pentagono, comprensivo di operazioni belliche. E con altre voci di carattere militare siamo al totale di oltre 1.000 miliardi annui.

Qualcuno subito dirà dell’ingenuità dell’appello dei premi Nobel: il 2% alla fine comunque legittimerebbe che l’altro 98% venga comunque utilizzato per la guerra. Ma attenzione, questo risparmio che, fatti i conti su 2 trilioni di dollari, vorrebbe dire mille miliardi di dollari stornati per la pace e le necessità vitali dell’umanità, non corre alcun il rischio – vorremmo essere smentiti – di essere approvato da nessun governo del mondo impegnato a chiacchiere nella «transizione ecologica» con gli arsenali pieni di armi, anche atomiche.

Giacché tutti sono attivi nella corsa al riarmo, perfino con il ricatto dell’occupazione – che pesa anche sul sindacato, perché un vero discorso sulla riconversione dell’industria bellica non è mai diventato pratica diffusa. Tutti, a partire dal governo Draghi che più volte ha annunciato un «riarmo» mentre avvia i traffici più oscuri di vendita di armamenti a regimi corrotti e dittatoriali, se non addirittura in guerra o che occupano altri Paesi.

Un governo Draghi impegnato con Macron e altri leader europei – pensate agli «ecologici» droni armati che suggellano il patto di governo verdi-socialdemocratici in Germania – non a ridurre la spesa per le armi ma «semplicemente» a raddoppiarla con la cosiddetta Difesa europea. Intesa non come alternativa alle spese gravose per l’Alleanza atlantica, ma come aggiunta doppia, come rinforzo della Nato che resta centrale – anche nell’attivare nuove crisi e guerre dopo quelle disastrose che l’hanno vista protagonista. Porga l’ascolto e risponda dunque Draghi all’appello dei 50 accademici e premi Nobel”.


4.E invece nella realtà…

La barbara, medievale invasione russa dell’Ucraina ha sovvertito persino la percezione temporale degli eventi. L’enciclica “Fratelli Tutti” risale a 17 mesi fa, l’appello dei 50 Nobel a circa 100 giorni fa. Eppure sembrano prese di posizione lontanissime. Tanto oggi ancor più indispensabili quanto contraddittoriamente “superate” dall’incalzare degli avvenimenti. A cominciare dalla decisione della Germania del 27 febbraio di avviare un massiccio programma di riarmo che mette fine a 77 anni in cui tutto si è potuto dire dei tedeschi tranne che fossero tornati al loro secolare bellicismo. Fino ad arrivare all’Ordine del giorno del 17 marzo votato a stragrande maggioranza dalla Camera dei Deputati che impegna il Governo italiano ad aumentare le spese militari dall’attuale 1,54 per cento del Pil fino al 2 per cento.

Lo scorso 21 novembre la Cina testava un missile ipersonico che elude ogni difesa. Il 5 dicembre il Segretario alla Difesa americano Austin dichiarava: “ (…) Pechino accelera il riarmo nucleare, e punta ad avere almeno mille testate entro il 2030 per essere competitiva contro Usa e Russia, non accettando di partecipare ai negoziati sulle armi atomiche per non limitare le capacità di sviluppo”. 

Prendendo spunto dal recente test di un missile ipersonico, David Thompson, vice capo della US Space Force, ha ammonito che la Repubblica Popolare Cinese sta costruendo le sue risorse militari nello spazio "al doppio della velocità" degli Usa. "Se non acceleriamo le nostre capacità, presto ci supereranno. Il 2030 non è una stima irragionevole" per il sorpasso. Gli Stati Uniti non vogliono affrontare la sfida da soli, parlano di una "deterrenza integrata", diversa da quella adottata contro l'Urss durante la Guerra Fredda.

Per fronteggiare Pechino, Washington vuole creare un fronte comune con alleati e partner su diversi piani, militare, economico e commerciale. Quindi chiede che la tecnologia pubblica e privata occidentale corra più veloce dell’innovazione cinese, dall’intelligenza artificiale alle armi, perché questa è la vera chiave per conservare il vantaggio ancora esistente. Il discorso per ora riguarda Pechino, ma con modalità diverse andrà allargato anche a Mosca”. (Paolo Mastrolilli “Taiwan, è scontro tra Usa e Cina: “Difenderemo l’isola” ”, Repubblica.it, 5 dicembre 2021).

E il 31 dicembre Marta Dassù commentava: “Guardando ai rischi del 2022, proviamo a mettere sul tavolo una tesi controintuitiva: che il rischio americano sia essenzialmente politico e il rischio cinese sia sostanzialmente economico. Una realtà a parti rovesciate rispetto ai decenni passati.

L'America è in guerra con se stessa. La polarizzazione interna è ormai tale da generare caratteristiche patologiche per la salute della democrazia degli Stati Uniti. Si vedrà prima alle elezioni di Midterm, dove Joe Biden teme di perdere la Camera e non solo il Senato; e soprattutto con la prossima sfida presidenziale, dove i repubblicani si presenteranno nel segno del trumpismo, con o senza Trump. La debolezza politica interna degli Stati Uniti, con un partito democratico diviso in una nazione spaccata a metà, renderà più difficile la gestione di una ripresa economica che è forte ma alquanto volatile: la spirale inflattiva sembra ormai persistente, piuttosto che temporanea.

La Cina autoritaria di Xi Jinping, che nel 2022 sigillerà il suo terzo mandato al potere, è invece di fronte a rischi economici prevalenti, di cui sono sintomo e simbolo il caso Evergrande (la bolla immobiliare), gli shock energetici e un primo serio rallentamento dei tassi di crescita da cui dipende la legittimità del regime cinese. Non esiste solo un problema di equilibri fra Stato e mercato, con il ritorno a un tasso di ingerenza politica che colpisce settori crescenti dell'economia e centrali per la crescita futura, come il digitale. La realtà è che la Cina, dopo una fase di ascesa straordinaria dalla fine degli anni '70 in poi, sembra essere arrivata a un nuovo appuntamento con la storia, quella trappola del "reddito medio" da cui dovrà tentare di uscire. Lo sta facendo, almeno apparentemente, nel modo sbagliato.

Il rischio 2022 riflette il confronto, e lo complica, tra sistemi politico-economici alternativi: la tesi di una grande "convergenza" fra forme diverse di capitalismo politico fa ormai parte dei libri di storia. E il rischio dei rischi è che la situazione attuale - una pace fredda o una seconda guerra fredda modificata, rispetto alla prima, dal tasso di integrazione economica fra le due parti - finisca per sfuggire di mano. Magari dalle parti di Taiwan.

Le debolezze intrecciate di un'America alla prova con se stessa e di una Cina alla prova del proprio sviluppo alimentano più che smussare la tensione fra le due grandi potenze del Pacifico.

In America, nonostante il parziale ritorno di Joe Biden ai tavoli internazionali e alle alleanze, nazionalismo e "astensionismo" (Afghanistan docet) dominano le percezioni di politica estera: l'unico punto di accordo bipartisan è la centralità della sfida cinese. A Pechino, nazionalismo e auto-isolamento da zero tolleranza al Covid si combinano, scaricandosi sulle rivendicazioni territoriali nel Mar cinese meridionale. Il regime cinese è convinto che l'America sia in declino e che l'Impero di centro abbia una nuova occasione storica per affermare il proprio dominio, anzitutto sull'Asia orientale.

Il centro di gravità degli equilibri globali è ormai lì, in quella regione indo-pacifica dove gli Stati Uniti stanno costruendo nuove alleanze (Quad e Aukus) e dove la Cina, che non ha alleati importanti ma interessi nazionali permanenti, si rafforza sul piano militare e utilizza la propria capacità di coercizione economica. 

Lo scenario di competizione estrema fra le due superpotenze del secolo aumenta il peso contrattuale relativo della Russia di Putin: tenersi in mano la carta cinese, senza giocarla fino in fondo, è un potenziale vantaggio per il Cremlino, che vuole ottenere rassicurazioni da Washington sul futuro dello spazio ex sovietico. Joe Biden non può certo accettare le richieste già formulate da Mosca, dopo una fase di pressione militare sull'Ucraina. Ma intanto ha riconosciuto a Putin (nuova telefonata di ieri) un ruolo di interlocutore privilegiato.

Il negoziato è cominciato e continuerà con la Nato a gennaio. Un'Europa divisa sulla gestione della frontiera orientale rischia di non pesare granché sulle decisioni, mentre ne subirà comunque le conseguenze e avrà un peso importante (gasdotto Nord Stream) nella loro attuazione. 

Di qui una lezione essenziale, per noi europei: economia e geopolitica non possono più essere separate. La fine dell'era Merkel segna anche la fine del vecchio mercantilismo. Per non venire scavalcata, l'Europa deve compiere alcune scelte cruciali: fra nuovo atlantismo e istinti neutrali di larga parte dell'opinione pubblica (la Grande Svizzera); fra espansione fiscale e tentazioni di ritorno a un parente prossimo del Patto di stabilità; fra accordi fra i grandi Paesi (incluso il Trattato Italia-Francia, che Roma dovrà cercare di completare con un solido aggancio a Berlino) e resistenze "sovrane" di Polonia e Ungheria.

Anche l'Europa 2022 è essenzialmente alla prova con se stessa: se il rischio americano è una nazione divisa a metà, il rischio europeo è ancora legato alla divisione fra nazioni. (Marta Dassù “Usa e Cina, fragili giganti”, “Repubblica.it”, 31 dicembre 2021).

Nelle parole di inviati, analisti, commentatori, editorialisti, esperti veri e presunti di geopolitica e strategia ancora continuava a “preoccupare” più la Cina che la Russia. Nessuno o solo una sparuta minoranza intuisce o prefigura il massacro che nel giro di qualche settimana ridurrà ad un cumulo di macerie uno stato indipendente europeo di 44 milioni di abitanti. Dal Cremlino, prima centrale mondiale quanto a bugie e travisamento della realtà, le dichiarazioni ufficiali sulle armate russe ammassate a ridosso del confine con l’Ucraina continuano ad insistere come un disco rotto su di una versione: sono lì per “manovre militari”, per “esercitazioni di routine”. Anche se da Washington la Cia mette in scena una strategia nuova, incalzante che consiste nel rivelare alle opinioni pubbliche se non tutte grandissima parte delle informazioni di cui viene in possesso così da mettere Mosca in difficoltà nel suo bluff.

Il massimo dell’ipocrisia in fatto di armamenti nelle concitate settimane di inizio 2022 si registra ad inizio anno, il 3 gennaio, quando i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu - Cina, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia - ribadiscono l'impegno a "prevenire l'ulteriore diffusione" delle armi nucleari.

In una dichiarazione congiunta in vista della conferenza sul Trattato di non proliferazione (NPT), i cinque sottolineano la loro volontà di "lavorare con tutti gli Stati per compiere ulteriori progressi sul disarmo, con l'obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari". La nota congiunta è stata diffusa dall'Eliseo.

"Affermiamo - scrivono i cinque paesi - che una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai verificarsi. Viste le conseguenze di grande ampiezza che avrebbe l'impiego di armi nucleari, affermiamo anche - continua il comunicato diffuso da Parigi - che esse, fin quando esistono, devono servire a scopi difensivi, di dissuasione e prevenzione della guerra. Siamo fermamente convinti della necessità di prevenire la proliferazione di queste armi".

I firmatari ribadiscono la loro "determinazione a rispettare gli obblighi del NPT, in particolare quello che figura nell'articolo VI di "proseguire in buona fede negoziati su misure efficaci relativi alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari al più presto e al disarmo nucleare e su un trattato di disarmo generale e completo sotto un controllo internazionale stretto ed efficace".

Verrebbe da scrivere: “Da che pulpito viene la predica!” o verrebbe da rispolverare il vecchio sarcastico adagio per il comportamento che si rimprovera ai preti: “Fate come dico io, non fate come faccio io”.

Il 6 gennaio Giappone e Australia firmano un trattato "storico" che rafforza la loro cooperazione nella difesa, garantendo una stabilità regionale proprio mentre la Cina continua ad espandere la sua influenza militare ed economica. Anche se il primo ministro australiano Scott Morrison, parlando prima della firma, non ha menzionato Pechino, il trattato è visto da tutti come un altro passo chiave nel rafforzamento dei legami tra Canberra e Tokyo di fronte alle ambizioni della Cina nella regione indopacifica.

L’11 gennaio, con una accelerazione impressionante quanto a tempi di realizzazione della nuova arma, la Corea del Nord entra nel club dei paesi che hanno testato missili balistici ipersonici: “Il leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, ha personalmente assistito ieri, 11 gennaio, al terzo lancio di un missile balistico ipersonico che ha colpito con successo un bersaglio simulato a mille chilometri dal sito di lancio. È la versione riferita dai media di Stato nordcoreani, confermando la notizia diffusa ieri dalle autorità di Giappone e Corea del Sud. L'agenzia di stampa ufficiale Korean Central News Agency non ha precisato la velocità del missile, che secondo gli analisti sudcoreani ha raggiunto una velocità 10 volte superiore a quella del suono. Kim non assisteva personalmente al collaudo di un missile balistico da marzo 2020.

Stati Uniti e Corea del Sud hanno deciso di lavorare ad un "nuovo piano di guerra operativo" nell'eventualità di un conflitto armato con la Corea del Nord, vista l'accresciuta minaccia rappresentata dal programma balistico di quel Paese”. 


5.Un mondo impazzito e l’inaccettabile invasione russa dell’Ucraina

E’ un mondo impazzito – totalmente sordo a richiami, ammonimenti, proposte di guide spirituali come il papa e delle migliori menti del pianeta come i 50 Nobel e il loro appello – quello che ci sta facendo precipitare nell’abisso della distruzione e dell’autodistruzione. Oggi in Europa contrapponendo Occidente e Russia. Domani in Asia contrapponendo Usa ed alleati da una parte e Cina dall’altra.

Dell’invasione russa dell’Ucraina non c’è nulla di accettabile. Vigliacca perché una nazione ben più potente attacca uno stato più piccolo e debole. Nazioni, si badi bene, sorelle. Con milioni di persone nei due paesi imparentate tra loro e milioni di famiglie con genitori misti russi e ucraini. Ingiustificabile perché l’ossessione di Putin e dei russi che gli credono di essere diventato il loro paese “una grande fortezza assediata” nel trentennio seguito alla fine dell’Unione Sovietica appare forzata, immotivata, falsa, pretestuosa. Al contrario, sono le forze armate russe che assediano senza ritegno città e villaggi in Ucraina. In realtà ci stiamo sempre più convincendo che quella ucraina è solo la prima tappa del tour del militarismo antioccidentale russo. Putin e la sua cricca oligarchica iper-ricca e iper-corrotta negano che stati come l’Ucraina e la Bielorussia possano esistere come stati indipendenti. Per loro gli ucraini o sono nazisti o sono russi in quanto parte della Russia. Punto. Una concezione manichea che dipinge il governo di Kiev come ostaggio di milizie neonazista. Che pure esistono, che andranno prima o poi debellate. Ma alle quali non può ridursi il coraggioso patriottismo di un intero popolo. Peraltro l’Ucraina ha sofferto non poco durante l’occupazione nazista nella Seconda Guerra Mondiale e il presidente Zelensky è un ebreo. Alla luce di questi convincimenti o di queste comode narrazioni costruite al Cremlino – se la guerra non si allargherà ad occidente ossia agli stati indipendenti dell’Europa centrale facenti parte dell’Unione Europea e della Nato – Putin non si accontenterà neppure della neutralità dell’Ucraina (non adesione alla Nato e punto interrogativo sulla adesione all’Unione Europea). Detto con parole ancora più chiare: per il padrone “di tutte le Russia”, come si diceva una volta in epoca zarista a lui tanto cara, l’Ucraina non dovrà avere diritto ad esistere. A meno che – come la Bielorussia di Lukashenko – non diventi dietro la parvenza dell’indipendenza una colonia di fatto o comunque una allineatissima succursale di Mosca. Nel miscuglio di bombardamenti con decine di migliaia di morti, di 3,3 milioni di profughi finora – soprattutto bambini e donne – sradicati dal loro habitat, di complesse trattative in corso si delineano inequivocabili diktat di Mosca. Molto chiari: smilitarizzazione e disarmo dell’Ucraina, sua “denazificazione” (pretesto su cui i russi insistono tanto) e, si sostiene, in nome della comune origine pari rango della lingua russa con la lingua ucraina. Nelle trattative in corso il cessate il fuoco non riesce ad imporsi. Sul piano dei nuovi assetti futuri sembra prendere forma l’ipotesi di una sorta di “garanzia” della neutralità ucraina che dovrebbe essere garantita dalle cinque potenze membri stabili del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia) più Germania e Turchia.

Su di un punto i più sono d’accordo: l’ipotesi che la Russia conquisti l’intero territorio dell’Ucraina e controlli “tutto” il territorio non appare realistica. L’occupazione richiederebbe da mezzo milione a un milione di militari russi schierati in pianata stabile nel paese. Con costi finanziari ed organizzativi del tutto insostenibili per la Russia e con una guerriglia continua degli ucraini.

In Italia da tutti che eravamo esperti di pandemie nel giro di poche settimane siamo diventati tutti esperti di politica internazionale e di massimi sistemi. Un profluvio h24 di commenti, tesi, interpretazioni, previsioni che sulla carta stampata, in radio, tv, sui social spaziano dalle posizioni apertamente filorusse a quelle che vedono in Putin l’Arcidiavolo. C’è spazio per le considerazioni più fantasiose pur di affermare qualcosa che distingua il nostro commento dagli altri. Ma non mancano anche riflessioni attente che superano l’emotività del momento e, con sagacia, sanno disegnare analisi di sistema più complessive e ponderate.

Ne vogliamo citare una non priva d’un suo illuminante carico motivazionale. Sintetizzabile nel seguente concetto: il vero pericolo che spaventa Putin è “il pericolo di contagio democratico”. Spiegazione evocata di volata in qualche dibattito televisivo ma sulla quale vale la pena di insistere e valutarla in modo più approfondito. La firma lo storico Marcello Flores D’Arcais e la riportiamo da “www.rivistailmulino.it” del 25 febbraio 2022, titolo “I segnali ignorati della strategia di Putin”:

Nessuno, per fortuna, sembra mettere in dubbio che l’aggressione militare russa all’Ucraina sia stata una scelta consapevole di Putin: da qui la condanna, anche se in forme molto diverse. Dietro questa apparente unanimità, tuttavia, vi è una profonda divisione che in Italia si manifesta con la convinzione, da parte di molti giornalisti, politici, opinionisti, che qualche giustificazione il dittatore del Cremlino l’avesse. Ci si sofferma così sulle colpe e sulle responsabilità dell’Occidente.

Personalmente, dopo lo sgomento per l’attacco militare e la preoccupazione per le vittime ucraine, la rabbia per la prepotenza imperiale di Putin che sembra incarnare la volontà espansionistica dello zarismo e dello stalinismo, trovo inaccettabile i distinguo sulle «colpe» della guerra in atto che molti, a destra e a sinistra, continuano a manifestare da noi, naturalmente dopo la condanna di rito all’invasione. Sono troppe le persone che hanno un rilievo pubblico e influenzano l’opinione generale che condividono, di fatto, il ragionamento di Putin sulle responsabilità della situazione di crisi tra Russia e Ucraina, anche se ne condannano – e non potrebbero fare altrimenti – la scelta di avere iniziato l’azione militare.

Questo ragionamento, che è lo stesso che fa Putin da anni, si fonda sul «pericolo» che la possibile e richiesta adesione all’Unione Europea e alla Nato da parte dell’Ucraina costituirebbe per la sicurezza della Russia. Qualcuno può davvero credere che una potenza militare che è pari a quella degli Stati Uniti possa avere timore di una qualche offensiva sui propri confini, che coinvolgerebbe ovviamente l’Europa e il mondo intero in una guerra nucleare? Il «pericolo», tuttavia, esiste ma è un pericolo politico che Putin non può tollerare: quello di avere ai propri confini Stati che stanno – con fatica, lentezza e contraddizioni – camminando verso la democrazia e la libertà. Un pericolo di contagio democratico, questo è il motivo della faccia feroce che Putin da anni sta facendo sui suoi confini orientali, dietro la scusa della «minaccia» della Nato e dell’allargamento dell’Unione Europea.

Se una colpa l’Occidente deve rimproverarsi non è quella di avere avuto un atteggiamento ambiguo o addirittura aggressivo verso il problema della «sicurezza» rivendicata da Mosca: ma di non avere compreso che la strategia di Putin, in modo sempre più chiaro negli oltre vent’anni di potere che sta celebrando, non è riconducibile a una logica da Guerra fredda, di minacce reciproche per restare fermi in una situazione di deterrenza permanente. Putin, come aveva già manifestato ampiamente in Cecenia e in Georgia (che l’Occidente riteneva comunque ancora nella «sfera d’influenza» russa ragionando come ai tempi della Guerra fredda), e come avrebbe mostrato senza più alcun dubbio con l’occupazione della Crimea nel 2014, ha come stella polare della sua azione il ristabilimento dell’impero zarista-sovietico, anche se non con un controllo pieno e diretto come era avvenuto ai tempi dell’Urss.

La reazione – meglio, la mancata reazione – all’occupazione della Crimea ha convinto Putin che la debolezza dell’Occidente era ormai un dato storico ineliminabile, accentuato ancor più dal precipitoso ritiro dall’Afghanistan nel 2021.

Dal 2014 l’Occidente e l’Europa avevano tutto il tempo – pur evitando scelte affrettate sull’adesione dell’Ucraina a Unione Europea e Nato – per rafforzare la difesa militare, tecnologica ed economica di Kiev, per ridurre drasticamente la dipendenza energetica nei confronti del gas e del petrolio russo, soprattutto da parte di Germania e Italia, di aiutare con maggiore forza e determinazione le forze democratiche in Russia e prendere provvedimenti che indebolissero realmente i gerarchi e gli oligarchi del Cremlino in Russia e fuori. Non lo si è fatto perché si è ritenuto che, in una logica da Guerra fredda, Putin non avrebbe mai mosso guerra all’Ucraina e che la conquista della Crimea era stata un’occasione presa al volo e un evento irripetibile. Basti pensare, cosa che nessuno sembra avere il coraggio di fare con una seria autocritica, agli insulti e ai dileggi rivolti a Biden e all’amministrazione statunitense che in queste ultime settimane raccontavano al mondo intero, con una strategia nuova di comunicazione delle informazioni di intelligence, quello che Putin stava preparando e che si è avverato quasi al minuto.

Non va dimenticato, inoltre, che solo all’inizio del suo potere Putin, nel 2002 con la formazione del Nato-Russia Council, sembrò continuare nella strada intrapresa dalla Russia negli anni Novanta del secolo scorso, con la Partnership for Peace (1994) e il Nato-Russia founding Act (1997), che avevano segnato l’accettazione dell’allargamento della Nato a Est e una fase di collaborazione tra Russia e Occidente. Il rafforzamento della repressione in Cecenia, la guerra contro la Georgia per l’Ossezia del Sud nel 2008, la costruzione di una dittatura sempre più forte all’interno, segnata dalle uccisioni di Anna Politkovskaja nel 2006, di Boris Nemtsov nel 2015, dal tentativo di omicidio e dall’incarcerazione di Aleksej Naval’nyj nel 2020-21, dalla messa fuori legge di Memorial, non ha spinto a vedere nella strategia di Putin un mutamento profondo rispetto sia agli anni della Guerra fredda che al decennio dopo di essa.

Il richiamo alla storia con cui Putin ha spiegato l’inesistenza autonoma dell’Ucraina, rivendicata come parte tout court della Russia, non è solo il gioco abituale dei dittatori che utilizzano e manipolano la storia ai propri fini, è una dichiarazione d’intenti che è stata ignorata e sottovalutata perché, ancora una volta, i nostri politici, giornalisti, e anche alcuni studiosi (per fortuna di minoranza), hanno continuato a guardare con gli occhi della Guerra fredda questa nuova realtà, incapricciandosi della spiegazione Nato sì/Nato no come spiegazione di tutto.

Ci si è dimenticati, ad esempio, che appena qualche settimana fa la dichiarazione congiunta di Putin e Xi Jinping del 4 febbraio 2022 (di cui le poche testate italiane che ne hanno parlato hanno sottolineato come «non» fosse ancora un’alleanza) parlava di inizio di una «nuova era» in cui non fosse più determinante la “democrazia dell’occidente» ma ogni nazione potesse scegliersi le «forme e metodi di attuazione alla democrazia che meglio si adattano al loro stato». La richiesta di «garanzie di sicurezza» a lungo termine per l’Europa, accolta in genere favorevolmente dai commentatori come una nuova Helsinki o addirittura una nuova Yalta, era invece il segnale del rifiuto del multipolarismo esistente e della riaffermazione di una logica di forza che Putin ha appena manifestato invadendo l’Ucraina e Xi Jinping si prepara a fare con l’annessione di Taiwan.

Resta da aggiungere, anche se ancora è presto per giudicare misure che si stanno prendendo e valutando nelle prossime ore, che il tipo di sanzioni che verranno prese contro la Russia saranno il segnale di quanto l’Europa abbia effettivamente compreso la natura e la strategia dello zar del Cremlino o continui a guardare alle sue azioni con l’ottica e l’illusione degli anni Settanta-Novanta del secolo scorso”.

E che dire delle inaudite, sconcertanti e ripetute prese di posizione tutte “Dio e Patria” del Patriarca ortodosso di Mosca Kirill, assurto a guida spirituale del tirannico regime dittatorial-poliziesco di Putin? Roba vecchia quanto i sermoni di vescovi e religiosi al seguito delle Crociate. Scrive Manuela Tulli (“Un nuovo affondo del Patriarca Kirill”, “Giornale di Sicilia”, 12 marzo 2022): “Il Patriarca di Mosca Kirill non arretra. Nonostante i numerosi appelli della Chiesa nel mondo perché condanni la guerra e interceda con Vladimir Putin, interviene per ribadire che la Russia è dalla parte della ragione. Dice che è in atto uno scontro tra Occidente e Russia e che la Nato ha sottovalutato le preoccupazioni di Mosca.

Negli anni ’90 alla Russia era stato promesso che la sua sicurezza e dignità sarebbero state rispettate” scrive in risposta al Consiglio Mondiale delle Chiese, ma “anno dopo anno, mese dopo mese, gli Stati membri della Nato hanno rafforzato la loro presenza militare”. Quindi è l’Occidente che ha armato l’Ucraina e l’ha sobillata contro la Russia. “Hanno cercato di rendere nemici popoli fraterni”. Poi torna ad attaccare il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo perché, riconoscendo l’autocefala Chiesa ortodossa di Kiev “ha creato lo scisma ecclesiastico” e “ha messo a dura prova la Chiesa ortodossa ucraina”. “La russofobia si sta diffondendo nel mondo occidentale a un ritmo senza precedenti” conclude Kirill nella sua narrazione totalmente al fianco di Putin. Posizione, quella del patriarca ortodosso che sembra aver scavato un solco con le altre chiese ormai difficile da colmare.

Il Vaticano prosegue invece la sua opera su vari fronti per essere strumento di dialogo. (…)

Infine da Kiev la drammatica testimonianza del Capo della Chiesa greco-cattolica, monsignor Sviatoslav Shevchuk, che oggi avverte: “Questa guerra diventa principalmente la guerra contro la popolazione civile. Persino stando ai dati ufficiali, in questi giorni sono morti più civili – donne, bambini – che militari”.

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite ha accusato la Russia di impiegare le cosiddette bombe a grappolo, vietate dal diritto internazionale umanitario e da una Convenzione del 2010 firmata da 100 stati ma non dalla Russia e dall’Ucraina. Sono letali e provocano una distruzione indiscriminata.

A Mariupol combattono casa per casa a fianco dei russi i feroci miliziani musulmani ceceni di Ramzan Kadyrov. Capo della Repubblica cecena, signore della guerra al servizio di Putin, Kadyrov è accusato di omicidi e torture. E’ questa la cifra degli amici di Putin nella Federazione russa e nel mondo. Personaggi tanto discutibili (per Kadyrov il Covid-19 si poteva curare con “limone, miele e aglio”…) quanto spietati e sanguinari.

Il 19 marzo un doppio salto di qualità. Il primo, d’ordine politico-diplomatico, riguarda l’Italia. In una dichiarazione un alto funzionario del Ministero degli Esteri russo lancia un avvertimento al nostro paese: nuove sanzioni avranno “conseguenze irreversibili”. La minaccia (tagliare le forniture di gas?) tradisce tutto il disappunto per il pieno allineamento dell’Italia – probabilmente ritenuta, al solito, l’anello debole tra i paesi di UE e Nato anche per la sua dipendenza energetica dalla Russia – alle linea della fermezza in fatto di sanzioni economiche adottata in Europa e America del Nord dall’indomani dell’aggressione dell’esercito di Mosca all’Ucraina. Il copione è sempre quello delle minacce a tutti e a tutto a cui la tirannia di Mosca ricorre sempre più sistematicamente. Il secondo salto di qualità, d’ordine militare, consiste per la prima volta nel mondo nell’impiego sul terreno di missili ipersonici. I Kinzal russi che volano ad almeno cinque volte la velocità del suono e non possono essere intercettati dalla contraerea, armati con testata convenzionale, distruggono un deposito di “missili e munizioni antiaeree delle truppe ucraine nella regione di Ivano-Frankivsk”.

Nella narrazione a senso unico di Mosca emerge la nuova dottrina scongiurata da tre quarti di secolo nel continente europeo. La possiamo sintetizzare così: le mie questioni territoriali e di “spazio vitale” (che sono io a determinare e quantificare) me le risolvo non con il negoziato. Ma con le armi. Più sono armato più posso intervenire accampando giustificazioni ed in barba ai più elementari principi del diritto internazionale. Perseguo una politica di intimidazione. E me lo posso permettere perché ho dietro le mie spalle la cosiddetta “assicurazione nucleare”. Nel caso della Russia il più potente arsenale nucleare le pianeta, con un numero di testate e vettori persino superiore a quello degli Stati Uniti. E’ un principio matematico della politica internazionale che trova puntuale applicazione anche nel XXI secolo: chi semina nazionalismo violento raccoglie come conseguenza la guerra. Vale in piccolo per le frange nazionalistiche estremiste ucraine che non hanno brillato per dialogo e ricerca di soluzioni modello “Alto Adige-Sud Tirol” nelle regioni orientali russofone dal 2014 al 2022. Vale in grande per la Russia che dell’idea della “Madre terra russa” ha tessuto secoli di insanguinatissima storia. Qualcuno definisce questo modo prepotente e violento del Cremlino di regolare i propri rapporti con gli altri un precedente od una primizia. In realtà anche in anni recenti tutti hanno operato puntualmente così. In Medio Oriente, Asia Centrale, Africa, America Latina. Stavolta però le due variabili nuove sono che tutto avviene nel continente europeo e che Nato e Russia sono ormai schierate direttamente l’una di fronte all’altra. Faccia a faccia. Anche il più banale incidente non voluto, anche uno sconfinamento di un metro di un carro armato, anche una non intenzionale malcalcolata traiettoria di un caccia che penetra per un paio di chilometri all’interno dello spazio aereo in territorio avversario può scatenare la santabarbara.


6.Il sempre più florido mercato internazionale delle armi

Si comprende così perché abbiamo voluto iniziare questa lunga riflessione con i versi e il monito di Quasimodo e con le parole sulla guerra di Papa Francesco. Il papa non ha perso occasione durante il suo pontificato di sparare a zero (perdonateci il voluto gioco di parole) non solo contro la guerra ma contro il mercato delle armi con gli importi sempre più impressionanti che lo alimentano. Talmente tanti che quasi ci perdiamo nel quantificarli. Riportiamo una scheda aggiornata ad appena una novantina di giorni fa (Michele Nones “L’espansione del mercato internazionale della difesa”, “www.AffarInternazionali.it”, 9 gennaio 2022) sugli importi da brivido che l’“uomo della pietra e della fionda” – malgrado i passi da gigante fatti dalla scienza o piuttosto, duole affermarlo, grazie ai passi da gigante fatti dalla scienza – destina agli armenti. Cioè alla sua autodistruzione:

Lo scorso decennio si è chiuso con un costante incremento delle spese militari passate da 1790 miliardi di dollari nel 2011 (SIPRI a valori costanti 2019) a 1960 miliardi nel 2020 con un incremento di quasi il 10%, con solo una piccola flessione a metà periodo. Il mercato internazionale della difesa è rimasto, invece, costante nei due quinquenni, ma ha visto al suo interno importanti cambiamenti: un piccolo passo indietro per Russia, Regno Unito e Italia e un grande passo avanti per Corea del Sud, Israele e Francia e, in maniera più contenuta, per la Germania.

Armamenti in crescita

La produzione di armamenti è salita dai 439 miliardi di dollari del 2011 ai 531 del 2020 con un aumento del 21%. Fra le prime 100 imprese operanti nel settore della difesa troviamo molte novità rispetto al passato: cinque sono cinesi (tutte fra le prime 20 e ben tre fra le prime 10); cinque giapponesi; cinque sud-coreane; tre israeliane; tre indiane; una turca.

Complessivamente le esportazioni dei dieci maggiori esportatori nel periodo 2016-20 sono state così distribuite: USA 37%, Russia 20%, Francia 8,2%, Germania 5,5%, Cina, 5,2%, Regno Unito 3,3%, Spagna 3,2%, Israele 3%, Corea del Sud 2,7%, Italia 2,2%.

I maggiori paesi importatori sono stati, invece, Arabia Saudita con 11%, India 9,5%, Egitto 5,8%, Australia 5,1%, Cina 4,7%, Corea del Sud 4,3%, Algeria 4,3%, Qatar 3,8%, Emirati Arabi Uniti 3%, Pakistan 2,7%. L’incremento del Medio Oriente è confermato dal confronto fra i due quinquenni: 33% nell’ultimo quinquennio contro il 26% precedente.

Non ci sono ancora dati sull’ultimo biennio pandemico, ma quelli sul fatturato delle principali imprese (che coprono anche il 2020) sembrano confermare che la crescita di spese e mercato militari non si è interrotta.

Il nuovo, vecchio mondo

In realtà non sembrano esserci stati motivi per invertire la tendenza. Lo scenario strategico internazionale non è certamente diventato più rassicurante. Restano le stesse numerose aree di crisi, anche se è aumentata la disattenzione dei governi e delle opinioni pubbliche nei paesi democratici a causa della pandemia e della crisi economica (oggi aggravata da quella della catena delle forniture, a partire da componenti, semilavorati e materie prime, fra cui primeggiano quelle energetiche). Si sono aggravate le tensioni in molti paesi confinanti con la Russia e la sua proposizione più assertiva ha indurito i rapporti con la Nato e, in particolare, ha fatto crescere le preoccupazioni nei suoi vicini. La competizione/confronto fra Stati Uniti e Cina ha ormai assunto contorni anche militari, coinvolgendo altri paesi dell’area indo-pacifica. Su scala minore anche la Turchia sta portando avanti una politica interventistica su più scacchieri, contribuendo all’instabilità del Mediterraneo orientale e mettendosi a volte in contrapposizione con la Nato di cui continua a far parte.

Questo quadro ha spinto molti paesi verso il rafforzamento delle loro capacità di difesa e sicurezza, puntando a rafforzarsi nel dominio aereo e navale e in particolare nel settore dei velivoli da combattimento, sia pilotati che a pilotaggio remoto, in quello navale, anti-aereo e anti-missile e spaziale. La spinta dei paesi acquirenti si somma a quella dei produttori, alle prese con salti generazionali in tutti i settori e con la nuova sfida dell’approccio multi-dominio, oltre che della cibernetica e dell’ormai dirompente militarizzazione dello spazio.

Innovazioni e l’evoluzione del settore

Fra i principali cambiamenti che si stanno registrando alcuni sono più evidenti:

  1. La comparsa di nuovi paesi produttori con le loro imprese. Cina, Israele, Corea del Sud hanno ormai quote significative del mercato internazionale, precedendo l’Italia ormai scesa al decimo posto. 22 delle prime 100 imprese operanti nella difesa appartengono a questi paesi e a Giappone, India e Turchia. Quando queste ultime avranno consolidato la loro attività grazie al mercato interno, inevitabilmente si rivolgeranno al mercato internazionale, creando nuova competizione.

  2. Un settore che sta conoscendo una forte crescita è quello dei velivoli a pilotaggio remoto (sistemi ormai collaudati, facilmente utilizzabili e “spendibili” negli scenari a minore intensità militare). Anche se è difficile quantificarne le esportazioni, la Turchia sta incontrandovi crescenti successi, ma altri paesi potrebbero seguirla, a partire dall’Iran.

  3. Lo stesso sta avvenendo con i missili ipersonici dove Russia e Cina sono riuscite a sorprendere Stati Uniti e Nato, portandosi per ora in netto vantaggio e confermando che, alla fine, l’innovazione tecnologica nell’utilizzo dello spazio (sia per i satelliti di osservazione, navigazione e comunicazione, sia per i lanciatori) è un moltiplicatore di potenza anche in campo militare.

  4. Più indietro, ma altrettanto pericolosa è l’evoluzione della subacquea (a propulsione nucleare o convenzionale con i nuovi motori indipendenti dall’aria). La “furtività” dei sottomarini consente loro di operare in prossimità di una novantina di paesi marittimi oltre che di minacciare il sistema di trasporto navale, produzione e trasferimento di energia, linee di trasmissione dati. Essendo sistemi complessi, la loro produzione e diffusione segue un ritmo più lento, ma è destinata a pesare molto sul futuro mercato della difesa (anche a prescindere dallo sviluppo di sistemi automatizzati).

  5. Queste nuove “spade” spingono inevitabilmente verso il rafforzamento di ogni tipo di “scudo”, ma, in particolare, dei sistemi di difesa missilistica. Per intercettare efficacemente droni, velivoli pilotati e missili serve una difesa multistrato in grado di arrivare il più lontano e prima possibile e ridurre progressivamente il numero di bersagli in arrivo sull’obiettivo. Sono oggi i sistemi più complessi da sviluppare, per ora solo alla portata dei produttori più avanzati anche perché coinvolgono spazio, comando-controllo-comunicazioni, armi a energia diretta e missilistica.

Europa: il progetto di difesa comune tra luci e ombre

Il mercato europeo della difesa sta facendo registrare segnali positivi e negativi. È partito finalmente, seppure ridimensionato rispetto agli ambiziosi obiettivi iniziali, l’EDF-European Defence Fund che nei prossimi sette anni contribuirà a sostenere lo sviluppo tecnologico nel campo della difesa. Sta per essere approvato lo Strategic Compass che dovrebbe guidare il rafforzamento delle capacità europee di difesa e sicurezza. Ma restano irrisolti sullo sfondo troppi problemi che rischiano di allontanare nel tempo, se non impedire, la costruzione di un’Europa della difesa.

Una parte non irrilevante dei decisori europei continuano a trastullarsi con l’ipotesi di penalizzare l’industria della difesa con una nuova forma di ostracismo etico che la assocerebbe alle attività più negative per la salute, per l’ambiente e per la pace internazionale. Mentre si incentivano i programmi di cooperazione, non si punta a sciogliere il nodo della politica esportativa, rischiando che i veti incrociati dei partecipanti ai programmi rendano impossibile ogni sbocco extra-europeo, di fatto azzerando i vantaggi economici della cooperazione e degli eventuali finanziamenti comunitari. La PESCO-Permanent Structured Cooperation potrebbe finire su un binario morto se non si supera il principio dell’unanimità: per questo già oggi sono di fatto esclusi molti dei programmi per il rinnovamento dei principali sistemi d’arma. Il quadro istituzionale della difesa europea resta troppo complicato e confuso e non adeguato alle sfide della globalizzazione e della minaccia a livello internazionale.

Un primo passo avanti potrebbe essere compiuto dai principali paesi, accordandosi fra loro sulle aree tecnologiche e industriali su cui concentrare investimenti e ambizioni (anche in condivisione), creando così una prima rete di interdipendenze e di specializzazioni in cui ad ogni passo indietro rispetto alle ormai velleitarie soluzioni nazionali corrisponda un passo avanti nel rafforzamento di altre capacità. L’obiettivo, quindi, deve essere quello di condividere una sovranità tecnologica reciproca in cui ciascun grande paese dovrebbe accettare di dipendere da un altro in alcune aree.

Questo consentirebbe di rafforzare le imprese interessate concentrandone le attività su pochi segmenti in cui competere efficacemente sul mercato internazionale, abbandonando definitivamente la logica dei “salvataggi” nazionali che finiscono con il condannare ogni strategia di razionalizzazione della base tecnologica e industriale europea. Quasi ventiquattro anni fa i sei principali paesi europei cominciarono a definire un percorso comune nel settore della difesa che era probabilmente prematuro e si arenò rapidamente. Oggi i tempi sembrano maturi affinché i cinque rimasti (Francia, Germania, Italia, Spagna e Svezia) raccolgano nuovamente nelle loro mani la sfida dell’innovazione e della competizione globale”.


7.Lo studio della Princeton University sugli effetti di una guerra nucleare tra Russia e Usa/Nato

Dopo aver passato in rassegna dati e tendenze del mercato mondiale degli armamenti convenzionali, nucleari e spaziali vogliamo concludere questo approfondimento riportando uno studio della statunitense università di Princeton, nel New Jersey, uno dei più prestigiosi atenei del mondo.

La guerra tra Russia e Ucraina in corso da tredici giorni tiene alta la tensione e la preoccupazione nel mondo per una deriva nucleare che potrebbe prendere il conflitto iniziato con l’invasione dell’Ucraina decisa dal presidente russo Wladimir Putin. Lo stesso leader di Mosca, dopo la prima settimana di un conflitto in cui non si attendeva la strenua resistenza ucraina e ha subito le sanzioni economiche dell’Europa e dell’Occidente, aveva messo in allerta il sistema nucleare in suo possesso.

Un’ipotesi di una terza guerra mondiale è ancora lontana ma il fatto che ci sia preoccupa non poco il mondo. Segnerebbe la distruzione del mondo e milioni e milioni di vittime. Su questo scenario hanno lavorato già nel 2019 i ricercatori dell’Università americana di Princeton che hanno simulato una guerra nucleare tra Russia e Usa, con il conseguente coinvolgimento dei Paesi membri della Nato.

Lo studio choc è del team dell’Università di Princeton, guidato da Alex Glaser, esperto di ingegneria e affari internazionali. I ricercatori hanno simulato al computer lo scoppio di un conflitto nucleare tra le due superpotenze ipotizzando i possibili vettori di lancio impiegati e i cui esiti devastanti si potrebbero registrare già nelle prime tre ore.

Nella fase 1, la simulazione parte da un attacco aereo russo, proveniente da Kaliningrad e sferrato su una delle basi Nato su suolo europeo con una serie di raid con bombardieri strategici e missili balistici a medio raggio Irbm. Da qui si genererebbe immediatamente la controffensiva occidentale. Kaliningrad è stata scelta come luogo strategico, al confine tra Polonia e Lituania in quanto è uno sbocco sul Mar Nero. Nella fase 1 si stimano almeno 2 milioni e mezzo di morti nelle prime tre ore dallo scoppio della guerra.

L’obiettivo della fase 2 sarebbe neutralizzare le capacità nucleari della controparte con il lancio di missili Icbm dalle flotte di sottomarini nucleari lanciamissili posizionati nell’Atlantico e nel Pacifico e dalle postazioni di lancio terrestri fisse e mobili. In questa fase 2, detta anche di “completamento” si stimano 3 milioni e mezzo di morti in meno di 45 minuti.

La fase 3 presupporrebbe l’attacco alle principali città di Russia, Europa e America. In generale, gli obiettivi scelti dai missili balistici intercontinentali sarebbero le capitali o comunque le città che rappresentano il centro della vita e del potere. Il bilancio totale al termine della sa la fase 3, è disastroso: oltre 85,5 milioni di morti nelle prime 5 ore dallo scoppio della guerra nucleare, escluse le vittime della ricaduta radioattiva che le armi sprigionerebbero”. (“Guerra nucleare, lo studio choc di Princeton: in 5 ore 85 milioni di morti”, “LiveSicilia.it”, 8 marzo 2022).

Evitiamo persino di commentare scenari apocalittici del genere. Tanto generano angoscia, tanto costituiscono un incubo senza eguali che li ricacciamo indietro, già tramortiti solo a leggerli.

Ha detto Papa Francesco nell’udienza generale di mercoledì 16 marzo: “Siamo sotto pressione e confusi. Da un lato c’è l’ottimismo di una giovinezza eterna, di un futuro con macchine che ci cureranno e penseranno le soluzioni per non morire. Dall’altra parte la fantasia di una catastrofe che ci estinguerà, come con un’eventuale guerra atomica”.

Che l’appello dei 50 Nobel, per quanto apparentemente minimo in termini di percentuali e corrispondenti importi, diventi l’appello di ognuno degli 8 miliardi di sempre più sventurati esseri umani che popolano una sfera celeste che rischia di diventare un immenso cimitero di vite e civiltà. Anche per dare corso in un tempo buio – di paura e di morte - come questo ad una indispensabile controtendenza: il progressivo affermarsi di un clima di negoziato e fiducia reciproca.

Intanto non appena la guerra in Ucraina cesserà – sperando che non si allarghi ai paesi circostanti – diventa ineludibile l’organizzazione urgente di una Conferenza sul nuovo ordine (o disordine) in Europa o addirittura una Conferenza sull’intero nuovo ordine mondiale. Una nuova Yalta, una nuova Helsinki per tentare di disinnescare i troppi detonatori innescati, pronti a fare esplodere tutto.

 di Pino Scorciapino

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