La "Catania bene" svelata da Sebastiano Ardita
Cultura | 15 settembre 2015
Ho percepito due livelli sovrapposti di lettura in “Catania bene” di Sebastiano Ardita: l'uno personale e quasi intimo con il rimpianto per la Catania che avrebbe potuto essere e con il complicato ritorno in città dopo nove anni passati a Roma; l'altro centrato sull'analisi lucida del magistrato che ricostruisce”carte alla mano” le inchieste che negli anni '90 hanno destrutturato la mafia catanese e colpito il sistema di potere politico-affaristico. La tesi dell'attuale procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribuna,e di Messina è chiara e condivisibile: “la vecchia Cosa Nostra che spara ed attacca lo Stato” è stata sostituita da un progetto criminale nuovo elaborato alle pendici dell'Etna che ha portato la mafia a “non solo inabissarsi , ma tagliare il legame tra i beni e l'organizzazione. Investire su nuove attività. Cancellare le origini stesse dei patrimoni mafiosi. Marcare la differenza col passato per poter contare su una discendenza tenuta realmente fuori da padrini ed iniziazioni, e così spuntare le armi dello Stato rispetto alla possibilità di aggredire le risorse di provenienza illecita.” A mio avviso. l'ipotesi rappresenta una chiave interpretativa valida in generale, non solo sul versante della Sicilia Orientale. Perciò nel contrasto alle mafia si conferma essenziale l'aggressione ai patrimoni ed alle aziende mafiose e la capacità di impedire che le immense ricchezze illegali accumulate negli anni scorsi riemergano sotto forma di attività formalmente lecite o addirittura inserite nel giro “alto” della finanza. Il dottor Ardita porta l'esempio della Sud trasporti di Catania e della nomina a presidente della FAI (Federazione Autotrasportatori Italiani) di Angelo Ercolano, incensurato ma figlio di Giambattista fratello di quel Giuseppe Ercolano che era cognato di Nitto Santapaola. Il rischio è, dunque, che rientri dalla finestra ciò che è stato fatto uscire dalla porta. “l'assist glielo ha fornito l'incapacità dello Stato stesso, durata anni, di mettere a punto strumenti validi per sequestrare e confiscare i beni”. Affermazione che appare quasi profetica, alla luce di quanto- allo stato degli atti come avvisi di garanzia- sembra evidenziarsi dall'inchiesta aperta dai magistrati della procura di Caltanissetta nei confronti di magistrati ed amministratori giudiziari di beni mafiosi. Se i comportamenti ipotizzati fossero provati in sede processuale, si sancirebbe l'emergere di un verminaio di interessi tale da proiettare un'ombra davvero oscura sulla gestione degli unici strumenti che la mafia ritiene veramente lesivi dei propri interessi. In attesa che l'inchiesta segua il suo corso, è necessario ed urgente accelerare la messa in opera della strumentazione per la gestione dei beni sequestrati che sono stati fortemente sollecitate da molte associazioni, a partire dalla Cgil, dal Centro Pio La Torre da Libera. Torno all'ottimo libro del magistrato catanese, che si innesta in una tradizione di studi sul sistema di potere della città etnea, come è verificabile già dalla bibliografia. Sebastiano Ardita inserisce giustamente la mafia catanese all'interno del sistema di potere che dominò la città nel cinquantennio postbellico, e si schiera contro quanti sostenevano esistere a Catania solo forme, ancorché ferocissime, di gangsterismo. Tuttavia, la caratteristica distintiva non risiede solo nella scelta di infiltrarsi nelle istituzioni, ma soprattutto nella capacità di incunearsi nella “Catania bene che domina tutto con la sua vocazione commerciale ed imprenditoriale e fornisce i quadri dirigenti di ogni settore: politica, amministrazione, economia e informazione, quest'ultima per anni gestita in monopolio dal quotidiano “La Sicilia”. Sono aspetti culturali duraturi che pervadono tutti i comportamenti di lungo periodo, a volte persino aldilà del dato cosciente. Ha ragione l'autore: non si può conoscere la Catania di oggi senza aver conosciuto quella di ieri. Essa è ancor oggi un luogo di contraddizioni, e non ha elaborato a sufficienza la consapevolezza che proprio gli errori e le scelte di chi deteneva il potere nella “raggiante Catania” degli anni sessanta hanno creato le condizioni per l'affermarsi di quella che l'autore definisce correttamente “una mafia padrona che da sempre si traveste e vive in mezzo ad un popolo aperto e generoso, un po' vittima e un po' complice”. Anch'io, per la piccola parte che mi è toccata, quel popolo l'ho conosciuto ed amato e so che oggi vive una fase in cui, nonostante gli sforzi generosi di chi governa la città, rischia di perdere la speranza di futuro e la capacità di reinventarsi che lo hanno sempre caratterizzato. La “caduta degli dei” non ha purtroppo prodotto nella città quella riflessione critica ed autocritica che, sola, rappresenterebbe la leva per una stagione di rinascita economica, sociale, della convivenza civile. Ho letto lo splendido capitolo sulla tangentopoli catanese, su Nino Drago e Rino Nicolosi qualche giorno prima della trasmissione “Presa diretta” di Riccardo Jacona: la dimostrazione che è ancora in pieno svolgimento la corsa per balzare sul carro vincente. Purtroppo, chi si presenta come rinnovatore della politica finisce sempre per sottomettersi alla logica del consenso ”comunque”. Anche per simili episodi, mi sono convinto da tempo che il manifesto ideologico del potere siciliano non è “I gattopardi” del principe Tomasi di Lampedusa, ma “I Viceré” del borghese catanese (anche se di origine napoletana) Federico De Roberto. Ma in ciò non mi permetto di coinvolgere le opinioni dell'autore di ”Catania bene”, un libro che vale la pena di leggere e sul quale vale la pena di riflettere. FRANCO GARUFI
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