La buona scuola: la consultazione più grande d’Europa o una grande occasione perduta?

Cultura | 11 giugno 2015
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La riforma della scuola è partita con una consultazione pubblica online lo scorso autunno, ma ha scatenato un forte dissenso che si è tradotto in numerose iniziative di protesta, generando in primavera la più ampia adesione allo sciopero dei docenti e del personale scolastico, appoggiati da studenti e famiglie. Una adesione più alta persino di quella che si era registrata il 30 ottobre 2008 contro i provvedimenti del ministro Gelmini. Sino alle mobilitazioni dei sindacati e agli scioperi in corso nelle giornate degli scrutini (sciopero breve di Confederali con Snals e Gilda; scioperi di due giorni – 10 e 11 giugno in Sicilia - per Cobas, Usb e Anief). Con adesioni allo “sciopero degli scrutini” del 90% in tantissime realtà, secondo i dati diffusi dai sindacati la maggior parte degli scrutini è già saltata. Allo sciopero degli scrutini gli insegnanti hanno unito quello della fame. In diverse scuole di Palermo gli scrutini sono stati bloccati del tutto, in altre la percentuale di scrutini saltati è compresa tra il 50 e il 70 per cento. “La buona scuola” insomma è osteggiata da una forte opposizione parlamentare e da numerose iniziative di protesta anche radicale. Nonostante ciò la riforma è andata avanti senza grandi modifiche a dispetto dell’ascolto annunciato, seppure con ritardi e solo di recente con la decisione di uno slittamento di una settimana per la votazione al Senato.

Al di là dei proclami sui numeri di contatti del sito dedicato all’iniziativa e sul fatto che sia stata definita dal governo come la più grande consultazione d’Europa, è legittimo chiedersi cosa non ha funzionato. O almeno provare a fare alcune ipotesi, dal momento che non si tratta soltanto di una questione di affluenza, ma va considerato il processo proprio a partire dai suoi risultati in termini di conflitto sociale, legittimazione del procedimento, consenso. Il presunto dialogo prospettato dal ministro Giannini e dal presidente del Consiglio Renzi è costantemente contraddetto da scelte che limitano l’espressione delle posizioni differenti da quella della maggioranza e da dichiarazioni alla stampa che costruiscono immagini stereotipate e offensive degli interlocutori senza entrare nel merito delle contestazioni. Nello specifico, ad esempio, basti pensare all’opposizione del Presidente del Senato alla decisione di spostare la senatrice Maria Mussini (ex M5S, prima firmataria del Ddl di iniziativa popolare sulla scuola) dalla Giustizia alla commissione Istruzione, con la conseguente assenza di un avversario competente in commissione. O alle dichiarazioni di Renzi che – seppur ammettendo di avere sbagliato sulla scuola - continua a riferirsi agli insegnanti come ad un gruppo che «dall’alto delle proprie rendite di posizione pensa sia intoccabile» (06/06/2015); o ancora alla ministra dell’istruzione che definisce “squadristi” i contestatori (24/04/2015). Tutti elementi che contraddicono la disponibilità all’ascolto e l’apertura di cui si fanno scudo. A far ammettere l’errore nella procedura di riforma sulla scuola, inoltre, non è l’ascolto attivo messo in atto dal governo verso le contestazioni e le controparti, ma il risultato deludente delle amministrative che mostrano la perdita di voti e di una fetta rilevante dell’elettorato di riferimento del PD.

Il paradosso è che proprio la consultazione pubblica avrebbe potuto essere – facendone un uso differente - uno strumento utile per introdurre elementi partecipativi nel processo decisionale, pervenendo alla costruzione di una riforma condivisa da coloro che ne sarebbe stati direttamente interessati. Il risultato invece sembra riflettere il fallimento della procedura. Per comprendere meglio la questione è opportuno chiarire alcuni elementi metodologici. La procedura della consultazione elettronica è da tempo utilizzata nel mondo anglosassone e può essere definita come una strategia d’indagine che permette di ampliare la base informativa sulla quale vengono prese le decisioni pubbliche, coinvolgendo cittadini ed altri portatori di interessi nel policy making, attraverso una comunicazione bidirezionale con rappresentanti e pubblica amministrazione. Secondo l’Organizzazione per lo sviluppo economico e la cooperazione internazionale (Oecd), la consultazione costituisce il punto di passaggio dalla mera informazione top-down alla partecipazione attiva dal basso. L’estensione della partecipazione ai portatori di interesse, coinvolti nelle scelte pubbliche che li riguardano, ha lo scopo di ridurre i conflitti, limitare le difficoltà ed i costi d’implementazione di politiche non volute, rendere trasparenti i processi di policy, informare e coinvolgere il territorio nelle scelte per il futuro e nella valutazione d’interventi in atto o conclusi. Non si tratta di una illusoria risoluzione dei conflitti o di una loro pacifica automatica composizione, ma di incanalare il dissenso all’interno di un procedimento istituzionale (Luhmann 1983), invitando ad esercitare l’opzione “voce”, piuttosto che la “defezione” (Hirschman 1982). Ma affinché ciò avvenga deve istaurarsi un rapporto di fiducia tra i partecipanti e il committente della consultazione che altrimenti rischia di venire elusa proprio perché ritenuta strumentale a convalidare decisioni già prese.

I problemi della democrazia rappresentativa e le difficoltà crescenti incontrate nell’affrontare i cambiamenti in corso nelle società contemporanee (decisioni sempre più complesse, conflitti sociali ed apatia politica dei cittadini, crisi di legittimazione dell’azione statale, etc.) hanno portato a riflettere sui possibili rimedi e sulle trasformazioni dei sistemi democratici. Uno dei temi più interessanti sarebbe proprio rappresentato dall’integrazione della democrazia rappresentativa con forme di “democrazia deliberativa”. La consultazione può essere intesa proprio come una delle possibili forme di democrazia deliberativa. La versione anglosassone del termine  “to deliberate” intende l’esaminare attraverso una discussione i pro e i contro di una scelta, prima di decidere, a differenza del termine italiano che mette l’accento sulla fase finale, sulla decisione. Si pone l’attenzione, dunque, sul processo, sulla riflessione, sulla sua lentezza e ponderazione e su un altro aspetto, connesso al discorso sulle consultazioni, cioè sul confronto con gli altri e lo scambio di pareri prima di effettuare una scelta. Questa precisazione è fondamentale per comprendere il senso dato dalla deliberazione alla democrazia che ne prende il nome e che si fonda su un equilibrio tra processo decisionale dialogico e consensuale e democrazia rappresentativa (l’esempio classico di Elster è quello delle assemblee costituenti che partendo da posizioni eterogenee e opposte pervengono a un testo comune condiviso).

I primi esperimenti di consultazioni pubbliche mediante la creazione di pratiche deliberative risalgono agli anni ’70, quando in Germania e negli Stati Uniti si sviluppano iniziative come il Planungzelle e le Citizens Juries. Si sviluppano poi oltreoceano con gli esperimenti di bilancio partecipativo. Negli anni si moltiplicano le tecniche e i luoghi che adottano tali pratiche, diffuse soprattutto nel mondo anglosassone. Con l’evoluzione tecnologica si sviluppano applicazioni che uniscono pratiche tradizionali e strumenti innovativi legati alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Le consultazioni online stanno cominciando a ricoprire un ruolo di riguardo tra le strategie per incrementare la partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche che sfruttano le possibilità offerte dalle nuove tecnologie.

L’Unione europea promuove la consultazione come metodo per la realizzazione di politiche condivise e ne determina i criteri minimi. L’Italia ha un buon livello di e-government, è una delle nazioni in cui i servizi in rete aumentano più velocemente. Diverso è il caso della democrazia elettronica che nel nostro Paese è poco diffusa e presenta forti differenze territoriali. Anche rispetto ai processi decisionali inclusivi si registrano singole eccellenze e buone prassi soprattutto a livello locale (la Toscana ad esempio è l’unica Regione ad avere una legge per la partecipazione dei cittadini, la Legge regionale 2 agosto 2013, n. 46), ma manca un piano chiaro. A livello nazionale sono state realizzate le prime consultazioni online nel campo dell’Air (in via sperimentale L. 50/1999). La legge prevedeva la consultazione sistematica degli stakeholder, ma si è diffuso un modo concertativo, più che consultivo di coinvolgere le parti (La Spina, Cavatorto  2001), anche nel caso delle autorità indipendenti. Lo stesso accade nelle esperienze dei patti territoriali e dei contratti d’area, in cui il «dialogo tra istituzioni e parti sociali» rimane «fondato sulla concertazione più che sui moduli della partecipazione organica» (Silvestro 2001).

Nel 2003 la legge di semplificazione (229/2003) introduce le consultazioni. Il decreto legge n. 4 del 10 gennaio 2006 riprende e modifica le norme precedenti, invitando nuovamente alla realizzazione di forme stabili di consultazione delle organizzazioni rappresentative degli interessi della società civile ed alla loro pubblicizzazione per via telematica. La consultazione non è una concertazione. Alle consultazioni possono partecipare anche associazioni, gruppi non organizzati e privati cittadini che intervengono rispondendo all’input del governo su un tema riguardante un intervento specifico o su una questione di carattere più generale, sulla quale basare politiche più ad ampio raggio. La consultazione, può far emergere delle opinioni che non erano ancora state espresse o che addirittura non si erano ancora formate. Durante la consultazione, infatti, i cittadini vengono informati dei progetti, attraverso la diffusione di documenti consultivi, o mediante supporti d’altro genere, e sono invitati ad approfondire l’argomento della consultazione su cui dare il proprio contributo. I partecipanti alla consultazione possono mettersi in contatto con gli organizzatori per chiedere chiarimenti, confrontarsi con gli altri cittadini, valutando con attenzione pro e contro di ogni ipotesi e suggerendone di nuove. Valastro (2006) a tal proposito, sottolinea come invece «La tendenza che ancora si registra in Italia è nel senso di rinviare la consultazione ad una fase il più possibile ravvicinata alla decisione politica: il timore che le interferenze esterne possano compromettere l’elaborazione progettuale porta a spostare in avanti il confronto con i destinatari, in modo da disporre di un progetto sufficientemente strutturato per sostenere la conflittualità eventualmente aperta dalla consultazione». Il risultato ottenuto però disattende l’obiettivo della consultazione che si trasforma in uno strumento di legittimazione ex post della decisione anziché di elaborazione e valutazione della stessa, se non in un tentativo di creare campagne di comunicazione unidirezionali che mirano ad informare e persuadere i destinatari della bontà del progetto, e dunque a ridurre la conflittualità attraverso un consenso generato più da strumenti di tipo propagandistico che di dialogo critico (Valastro 2006).

In Italia a livello nazionale, le consultazioni sulla semplificazione amministrativa sono le prime a partire, con il governo Prodi nel 2007. Nel 2009 i dipendenti pubblici vengono coinvolti dal ministro Brunetta nel Forum sulla Consultazione Pubblica Telematica sui decreti delegati. Nel 2012 con il governo Monti si realizzano consultazioni su vari temi con la richiesta del parere dei cittadini sui temi della semplificazione della PA, i principi fondamentali di internet, l’agenda digitale italiana e sul valore legale del titolo di studio. Nel 2013 divengono più diffuse e riguardano diversi temi tra questi le riforme istituzionali, le 100 procedure più complicate da semplificare, le 50 misure contenute in Destinazione Italia, l’Open Government Partnership, le linee guida relative ai centri di elaborazione dati, la nuova disciplina in materia di impatto della regolazione. Filo conduttore di tali iniziative è la scarsa partecipazione che le caratterizza e la mancanza di una restituzione dei risultati, requisito minimo per ogni consultazione anche secondo la Ue.

Considerando ad esempio quella relativa all’abolizione del valore legale del titolo di studio, sul sito dedicato non si presenta nessun rapporto finale che ne riepiloghi i risultati, i partecipanti intervenuti e gli effetti sulle politiche.

La consultazione su La Buona Scuola è l’unica – tra quelle condotte a livello nazionale - ad avere avuto una adeguata partecipazione in termini numerici e ad avere nel sito dedicato sezioni destinate con chiarezza alla presentazione del percorso (con un “patto di partecipazione” che spiega, ad esempio, perché intervenire e criteri d’uso dei dati raccolti) e dei risultati. In cui la fase di consultazione, con una grafica accattivante ed una navigazione semplice ed efficace  dal punto di vista comunicativo, viene connessa al percorso legislativo e alle fase attuativa (ancora non avviata). Proprio quello che apparentemente sembrerebbe essere una buona prassi dal punto di vista procedurale e comunicativo, si presenta guardando alla realtà dei fatti come un grande insuccesso, scatenando aspri conflitti e forme radicali di protesta (dagli scioperi, alle manifestazioni di piazza, sino al blocco degli scrutini).

Rispetto ai numeri, al di là della poca chiarezza su come siano stati calcolati dal momento che quelli disaggregati indicati non corrispondono al totale (1.800.000 partecipanti), di certo si tratta di migliaia di partecipanti, un’affluenza di gran lunga molto più numerosa di quella delle altre consultazioni nazionali che tranne poche eccezioni (come la consultazione sulle Riforme Costituzionali con 131.676), solo in pochi casi (quelli più fortunati e che riportano le statistiche rendendo visibili i dati di fruizione) presentano poche centinaia di partecipanti, se poco più di una decina per veri flop come la consultazione della Regione Siciliana sul DDL Città metropolitane del 2013 (con soli 13 commentatori).

Ciò conferma che quando un tema è ritenuto interessante per sé e per i propri familiari suscita partecipazione solo se c’è anche un buon senso d’efficacia percepito rispetto ai risultati delle proprie azioni. James Fishkin ritiene però che più che raccogliere “opinioni cieche” cioè non opinioni o idee che si formano sul momento scegliendo in modo casuale tra le alternative precostituite di un questionario, sia preferibile promuovere opinioni informate. Limitandoci ad analizzare la versione online della consultazione sulla scuola italiana, vediamo che il documento consultivo che si chiedeva di commentare o sul quale era disponibile un questionario strutturato, presentava già delle priorità e delle alternative chiuse.

Su un tema altamente conflittuale, come la riforma della scuola, dunque, si sceglieva una tecnica non deliberativa come il questionario, lasciando però spazio per la discussione deliberativa nell’area del sito dedicate al “dibattito online” e secondo la pratica del “notice-and-comment” (commenti scritti al documento consultivo), diffusa nel mondo anglosassone ma poco nota in Italia, si dava inoltre la possibilità di inviare position-papers e documenti ufficiali degli Uffici Scolastici Provinciali. Oltre ad organizzare “dibattiti diffusi” sul territorio.

I risultati vengono presentati, una volta conclusa la consultazione, solo sottoforma di slide-share. Una sintesi che fa principalmente riferimento ai numeri della consultazione, ai risultati delle risposte al questionario e all’analisi dei concetti chiave tramite l’analisi linguistica computazionale.

Il documento consultivo che apriva la consultazione, presentato dal governo, si sviluppava in 6 punti ed era indirizzato all’intera cittadinanza, con lo slogan: “Perché per fare la Buona Scuola non basta solo un Governo. Ci vuole un Paese intero.” Grande soddisfazione del governo per i risultati si evidenzia nei comunicati stampa e nella presentazione in slide dei risultati. Altrettanto non avviene da parte degli insegnanti, degli studenti e delle associazioni che li rappresentano.

Al si là degli slogan inclusivi ed aperti al paese intero, nel sito della consultazione, però, non si faceva nessun riferimento a proposte differenti o a proposte di legge già presentate ed in (perenne) attesa di essere discusse, caso più grave proprio per la presenza di una Legge di iniziativa popolare sulla scuola (Lip) già depositata prima dell’avvio della consultazione. La proposta de “La buona scuola” elaborata nei primi sei mesi del governo Renzi non considerava le ragioni e i temi ritenuti prioritari da oltre 100.000 cittadini che avevano firmato e presentato per la prima volta nel 2006, una Lip frutto di una costruzione partecipativa durata anni. Ignorata dalla Riforma Gelmini, così come dalla ex ministra Carozza, è stata ripresentata con aggiornamenti nell’agosto del 2014 da alcuni senatori (Disegno di legge 1583, Mussini prima firmataria ex M5S) e a settembre anche alla Camera (Proposta di legge n. 2630) per valorizzare il percorso popolare realizzato e avviare un processo condiviso. La Lip è stata realizzata da un gruppo di genitori, insegnanti, studenti e cittadini che hanno elaborato la legge d’iniziativa popolare e poi raccolto le firme per proporla al parlamento o semplicemente che ne hanno condiviso l’idea di scuola, i suoi principi fondanti; la proposta è stata elaborata da un movimento spontaneo nato nel tentativo di bloccare, prima, e abrogare, poi, la legge di riforma 53/03 introdotta dall’allora ministro Letizia Moratti; per la rielaborazione della proposta si sono formati 29 comitati territoriali diffusi da Sud a Nord (http://lipscuola.it/).

Il vedersi guidati da uno strumento strutturato su alternative predisposte dal governo con poco spazio per commenti ed eventuale dissenso ha suscitato aspre polemiche sia tra gli insegnanti che tra i genitori. I tentativi di manipolazione – o meglio elementi percepiti come tali – sono stati denunciati da soggetti con posizioni non sempre concordi, per posizione e appartenenza politica. Dubbi, infatti, vengono espressi sia da insegnanti esponenti dei comitati Lip, sia da membri di alcune associazioni di genitori (come la Age). Solo per fare un esempio, il prof. Roberto Buscetta (del comitato Lip Palermo) afferma: “Questa consultazione non ha funzionato perché il mondo della scuola non è stato ascoltato con un reale dibattito. Il questionario guidava a scegliere tra alternative attuative di una decisione già presa, senza dare la possibilità di dichiararsi assolutamente contrari alla proposta stessa. Ad esempio si chiedeva quali informazioni si ritenesse più importante conoscere attraverso il Registro Nazionale dei Docenti, senza dare la possibilità di indicare la propria contrarietà alla realizzazione di tale albo. Inoltre, il rapporto di presentazione che illustrava gli elementi sui quali intervenire, riportava i dati in modo distorto. Solo per fare un esempio, per spiegare come funziona la carriera dei docenti, invece di indicare il reale stipendio lordo di un insegnante corrispondente ad ogni scatto, ne presentava una versione gonfiata definendola nel titolo e nel testo “posizione stipendiale” e spiegando solo in una nota dai caratteri più piccoli e dal contenuto enigmatico per la maggior parte della popolazione che ‘I compensi riportati sono lordo Stato’ (La Buona Scuola, p. 49)” (intervista del 21 maggio 2015). Per chiarire, ricordiamo che il “lordo Stato” è il costo complessivo che la scuola sostiene per quel dipendente formato dallo stipendio lordo percepito dal dipendente più i contributi a carico della Amministrazione (Irap, Inps, Tfr, etc.). Con uno scarto elevatissimo con la retribuzione effettiva, ad esempio lo stipendio di un docente della scuola dell’infanzia e primaria con il massimo degli scatti (sono in tutto 6), dunque con almeno 35 anni di servizio, è indicato nel rapporto in 47.007,03 euro mentre consultando le tabelle stipendiali effettive corrisponde a 28.291,99 euro (CCNL Scuola ai sensi della legge n.106 del 12 luglio 2011, fonte: https://www.aranagenzia.it), dunque con una differenza di quasi diciannovemila euro. Molti dei docenti che hanno partecipato hanno visto in questa scelta un tentativo del governo di realizzare una informazione di propaganda che rafforzasse l’immagine pubblica negativa spesso attribuita agli insegnanti. Sempre su questo punto, un sindacato di base nel suo sito commenta: “Una svista, un refuso? Manco per niente! […] A noi è parso che la cosa assomigli tanto alla furbizia pelosa di qualche venditore ambulante di frutta e verdura che indica il prezzo evidenziando ‘AL CHILO’ e il prezzo, e sotto, in maniera appena leggibile, ‘mezzo’. Insomma una furbata da imbonitori per altro ripetuta pari pari dal sottosegretario Toccafondi in risposta ad una interrogazione alla camera […]. Con l’aggravante della omissione del “LORDO STATO” riportato in calce alla tabella. Non ci resta che invocare l’intervento dell’Autorità Garante per pubblicità ingannevole, sperando che passodopopasso.Italia la-buona-scuola, non sia da prendere tutto a … ‘mezzo chilo’.” (http://www.scuolathena.it/athena/docenti-othermenu-38/728-lordo-stato).

“La comunicazione del governo, la consultazione e il documento su La Buona Scuola alimentano i pregiudizi sul mondo della scuola: gli insegnanti lavorano poco, sono privilegiati. Proclamano l’ascolto, ma questo richiede tempo, così sostengono che adesso è tempo di decidere. Non c’è stata la possibilità di far apportare modifiche consistenti, gli emendamenti riguardano dettagli all’interno di un meccanismo complessivo che non funziona.” (Roberto Alessi, Cobas Scuola Sicilia)

Lo strumento principale adottato per la consultazione, il questionario non consente di aprire il percorso all’inatteso, ma limita l’interazione a scelte precostituite. Proprio la scelta di questo strumento di consultazione è stato percepito come un tentativo di strumentalizzare le risposte per rafforzare la propria proposta senza esercitare un reale ascolto attivo. “Nel questionario si parla di scuola non per parlare di docenti e studenti, si parla di condizione economica, ma non di didattica. Abbiamo invitato a partecipare a dibattiti su temi concreti e non sono mai venuti. Parlano per slogan e non ascoltano. Non hanno mai abrogato le riforme precedenti, né i tagli. Usano i precari come arma di ricatto per fare passare contenuti inaccettabili. La Corte europea si è espressa in tal senso, ma loro presentano il piano assunzioni come una mossa spontanea per far passare gerarchizzazione e tagli” (Roberto Buscetta, Comitato Lip Palermo).

Critiche sul sistema decisionale e la sua manipolabilità sono emerse anche da alcune associazioni di genitori.

L’Age, associazione che raccoglie gruppi di genitori che si ispirano ai valori costituzionali, ai diritti dell’uomo e del fanciullo e all’etica cristiana, ad esempio, denuncia, nel suo sito web ufficiale, presunti tentativi di manipolazione anche della parte della consultazione dedicata al dibattito a risposta libera: “purtroppo è accaduto un fatto piccolo ma non trascurabile, che getta cattiva luce sulla democraticità del nostro Paese e ci fa indignare come cittadini. La nostra proposta a favore del Testo unico e degli Organi collegiali della scuola è stata deliberatamente oscurata per tre giorni, probabilmente perché tutte le proposte di AGe Toscana figurano fra le più votate nelle varie stanze di discussione e non si voleva dare spazio a questo tipo di idee.” (AGe Toscana 15/11/2014).

La consultazione dovrebbe avere come principale obiettivo l’incremento della legittimazione sociale delle decisioni, assorbendo i rischi del dissenso. Il coinvolgimento istituzionalizzato dei soggetti è un’opportunità per permettere anche a chi non condivide una decisione, di riconoscersi nel processo che la ha prodotta. Non dovrebbe trattarsi semplicemente di un meccanismo per selezionare alternative esistenti, ma di un momento di confronto e dialogo, secondo il modello deliberativo. Un passaggio per la determinazione di soluzioni comuni.

La consultazione sintetizza due aspetti centrali della comunicazione pubblica: quello funzionale e quello d’integrazione simbolica (Mancini 1996). Permette di raccogliere informazioni utili alla realizzazione di interventi e nello stesso tempo diffonde valori (es. democrazia) ed una visione differente dell’amministrazione pubblica che appare aperta ed orientata al cittadino. Il decisore costruisce un simulacro dei portatori d’interessi coinvolti, un’immagine idealtipica, sfruttando i contributi dei consultati.

La consultazione elettronica ha, dunque, una doppia valenza, da una parte è una tecnica d’indagine che consente al governo di conoscere l’opinione di cittadini e portatori d’interessi, dall’altra, è uno strumento del consenso che può servire a legittimare decisioni che non necessariamente riscuotono il favore dei cittadini. La consultazione è sovrafunzionale, da un lato ha una funzione di integrazione sociale, mediando e componendo i conflitti creando una sfera pubblica nella quale si confrontano opinioni contrastanti nell’ambito della democrazia deliberativa; dall’altro ha una funzione di legittimazione delle decisioni prese e dell’organo decisore che le ratifica. È uno strumento di raggiungimento del consenso e nello stesso tempo un mezzo di innovazione e mutamento per il sistema democratico. Svuotare questa strategia di ricerca della sua valenza conoscitiva e farne una fabbrica di sondaggi d’opinione, significherebbe perdere un’opportunità per rafforzare le democrazie rappresentative, dal momento che il danno non si limita esclusivamente al fallimento della singola consultazione e del singolo processo di riforma della scuola, ma si riflette sulla procedura della consultazione in sé, facendo perdere ai cittadini senso d’efficacia e incrementando la loro sfiducia verso le istituzioni che appaiono impermeabili al dissenso e verso quegli strumenti innovativi di partecipazione democratica che potrebbero segnare una svolta. Il processo chiuso al cambiamento e diffidente verso la partecipazione, anche nelle sue forme più radicali, con cui sta avvenendo l’ennesimo processo di riforma contro e non con i diretti interessati e al suo interno la consultazione sulla buona scuola, dunque, rischiano di rappresentare un’occasione perduta.

 di Marilena Macaluso

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