La buona scuola: la consultazione più grande d’Europa o una grande occasione perduta?
La riforma della scuola è partita con una consultazione pubblica online lo scorso autunno, ma ha scatenato un forte dissenso che si è tradotto in numerose iniziative di protesta, generando in primavera la più ampia adesione allo sciopero dei docenti e del personale scolastico, appoggiati da studenti e famiglie. Una adesione più alta persino di quella che si era registrata il 30 ottobre 2008 contro i provvedimenti del ministro Gelmini. Sino alle mobilitazioni dei sindacati e agli scioperi in corso nelle giornate degli scrutini (sciopero breve di Confederali con Snals e Gilda; scioperi di due giorni – 10 e 11 giugno in Sicilia - per Cobas, Usb e Anief). Con adesioni allo “sciopero degli scrutini” del 90% in tantissime realtà, secondo i dati diffusi dai sindacati la maggior parte degli scrutini è già saltata. Allo sciopero degli scrutini gli insegnanti hanno unito quello della fame. In diverse scuole di Palermo gli scrutini sono stati bloccati del tutto, in altre la percentuale di scrutini saltati è compresa tra il 50 e il 70 per cento. “La buona scuola” insomma è osteggiata da una forte opposizione parlamentare e da numerose iniziative di protesta anche radicale. Nonostante ciò la riforma è andata avanti senza grandi modifiche a dispetto dell’ascolto annunciato, seppure con ritardi e solo di recente con la decisione di uno slittamento di una settimana per la votazione al Senato.
Al di là dei proclami sui numeri di contatti
del sito dedicato all’iniziativa e sul fatto che sia stata definita dal governo
come la più grande consultazione d’Europa, è legittimo chiedersi cosa non ha
funzionato. O almeno provare a fare alcune ipotesi, dal momento che non si
tratta soltanto di una questione di affluenza, ma va considerato il processo
proprio a partire dai suoi risultati in termini di conflitto sociale,
legittimazione del procedimento, consenso. Il presunto dialogo prospettato dal
ministro Giannini e dal presidente del Consiglio Renzi è costantemente
contraddetto da scelte che limitano l’espressione delle posizioni differenti da
quella della maggioranza e da dichiarazioni alla stampa che costruiscono
immagini stereotipate e offensive degli interlocutori senza entrare nel merito
delle contestazioni. Nello specifico, ad esempio, basti pensare all’opposizione
del Presidente del Senato alla decisione di spostare la senatrice Maria Mussini
(ex M5S, prima firmataria del Ddl di iniziativa popolare sulla scuola) dalla
Giustizia alla commissione Istruzione, con la conseguente assenza di un
avversario competente in commissione. O alle dichiarazioni di Renzi che –
seppur ammettendo di avere sbagliato sulla scuola - continua a riferirsi agli
insegnanti come ad un gruppo che «dall’alto delle proprie rendite di posizione
pensa sia intoccabile» (06/06/2015); o ancora alla ministra dell’istruzione che
definisce “squadristi” i contestatori (24/04/2015). Tutti elementi che contraddicono
la disponibilità all’ascolto e l’apertura di cui si fanno scudo. A far
ammettere l’errore nella procedura di riforma sulla scuola, inoltre, non è
l’ascolto attivo messo in atto dal governo verso le contestazioni e le
controparti, ma il risultato deludente delle amministrative che mostrano la
perdita di voti e di una fetta rilevante dell’elettorato di riferimento del PD.
Il paradosso è che proprio la consultazione
pubblica avrebbe potuto essere – facendone un uso differente - uno strumento
utile per introdurre elementi partecipativi nel processo decisionale,
pervenendo alla costruzione di una riforma condivisa da coloro che ne sarebbe
stati direttamente interessati. Il risultato invece sembra riflettere il
fallimento della procedura. Per comprendere meglio la questione è opportuno
chiarire alcuni elementi metodologici. La procedura della consultazione
elettronica è da tempo utilizzata nel mondo anglosassone e può essere definita
come una strategia d’indagine che permette di ampliare la base informativa
sulla quale vengono prese le decisioni pubbliche, coinvolgendo cittadini ed
altri portatori di interessi nel policy making, attraverso una comunicazione
bidirezionale con rappresentanti e pubblica amministrazione. Secondo l’Organizzazione
per lo sviluppo economico e la cooperazione internazionale (Oecd), la
consultazione costituisce il punto di passaggio dalla mera informazione
top-down alla partecipazione attiva dal basso. L’estensione della
partecipazione ai portatori di interesse, coinvolti nelle scelte pubbliche che
li riguardano, ha lo scopo di ridurre i conflitti, limitare le difficoltà ed i
costi d’implementazione di politiche non volute, rendere trasparenti i processi
di policy, informare e coinvolgere il territorio nelle scelte per il futuro e
nella valutazione d’interventi in atto o conclusi. Non si tratta di una
illusoria risoluzione dei conflitti o di una loro pacifica automatica
composizione, ma di incanalare il dissenso all’interno di un procedimento
istituzionale (Luhmann 1983), invitando ad esercitare l’opzione “voce”,
piuttosto che la “defezione” (Hirschman 1982). Ma affinché ciò avvenga deve
istaurarsi un rapporto di fiducia tra i partecipanti e il committente della
consultazione che altrimenti rischia di venire elusa proprio perché ritenuta
strumentale a convalidare decisioni già prese.
I problemi della democrazia rappresentativa e
le difficoltà crescenti incontrate nell’affrontare i cambiamenti in corso nelle
società contemporanee (decisioni sempre più complesse, conflitti sociali ed
apatia politica dei cittadini, crisi di legittimazione dell’azione statale, etc.)
hanno portato a riflettere sui possibili rimedi e sulle trasformazioni dei
sistemi democratici. Uno dei temi più interessanti sarebbe proprio
rappresentato dall’integrazione della democrazia rappresentativa con forme di
“democrazia deliberativa”. La consultazione può essere intesa proprio come una
delle possibili forme di democrazia deliberativa. La versione anglosassone del
termine “to deliberate” intende
l’esaminare attraverso una discussione i pro e i contro di una scelta, prima di
decidere, a differenza del termine italiano che mette l’accento sulla fase
finale, sulla decisione. Si pone l’attenzione, dunque, sul processo, sulla
riflessione, sulla sua lentezza e ponderazione e su un altro aspetto, connesso
al discorso sulle consultazioni, cioè sul confronto con gli altri e lo scambio
di pareri prima di effettuare una scelta. Questa precisazione è fondamentale
per comprendere il senso dato dalla deliberazione alla democrazia che ne prende
il nome e che si fonda su un equilibrio tra processo decisionale dialogico e consensuale
e democrazia rappresentativa (l’esempio classico di Elster è quello delle
assemblee costituenti che partendo da posizioni eterogenee e opposte pervengono
a un testo comune condiviso).
I primi esperimenti di consultazioni pubbliche
mediante la creazione di pratiche deliberative risalgono agli anni ’70, quando
in Germania e negli Stati Uniti si sviluppano iniziative come il Planungzelle e
le Citizens Juries. Si sviluppano poi oltreoceano con gli esperimenti di
bilancio partecipativo. Negli anni si moltiplicano le tecniche e i luoghi che
adottano tali pratiche, diffuse soprattutto nel mondo anglosassone. Con
l’evoluzione tecnologica si sviluppano applicazioni che uniscono pratiche
tradizionali e strumenti innovativi legati alle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione. Le consultazioni online stanno
cominciando a ricoprire un ruolo di riguardo tra le strategie per incrementare
la partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche che sfruttano le
possibilità offerte dalle nuove tecnologie.
L’Unione europea promuove la consultazione come
metodo per la realizzazione di politiche condivise e ne determina i criteri
minimi. L’Italia ha un buon livello di e-government, è una delle nazioni in cui
i servizi in rete aumentano più velocemente. Diverso è il caso della democrazia
elettronica che nel nostro Paese è poco diffusa e presenta forti differenze
territoriali. Anche rispetto ai processi decisionali inclusivi si registrano
singole eccellenze e buone prassi soprattutto a livello locale (la Toscana ad
esempio è l’unica Regione ad avere una legge per la partecipazione dei
cittadini, la Legge regionale 2 agosto 2013, n. 46), ma manca un piano chiaro.
A livello nazionale sono state realizzate le prime consultazioni online nel campo
dell’Air (in via sperimentale L. 50/1999). La legge prevedeva la consultazione
sistematica degli stakeholder, ma si è diffuso un modo concertativo, più che
consultivo di coinvolgere le parti (La Spina, Cavatorto 2001), anche nel caso delle autorità
indipendenti. Lo stesso accade nelle esperienze dei patti territoriali e dei
contratti d’area, in cui il «dialogo tra istituzioni e parti sociali» rimane
«fondato sulla concertazione più che sui moduli della partecipazione organica»
(Silvestro 2001).
Nel 2003 la legge di semplificazione (229/2003)
introduce le consultazioni. Il decreto legge n. 4 del 10 gennaio 2006 riprende
e modifica le norme precedenti, invitando nuovamente alla realizzazione di
forme stabili di consultazione delle organizzazioni rappresentative degli
interessi della società civile ed alla loro pubblicizzazione per via
telematica. La consultazione non è una concertazione. Alle consultazioni
possono partecipare anche associazioni, gruppi non organizzati e privati
cittadini che intervengono rispondendo all’input del governo su un tema
riguardante un intervento specifico o su una questione di carattere più
generale, sulla quale basare politiche più ad ampio raggio. La consultazione,
può far emergere delle opinioni che non erano ancora state espresse o che
addirittura non si erano ancora formate. Durante la consultazione, infatti, i
cittadini vengono informati dei progetti, attraverso la diffusione di documenti
consultivi, o mediante supporti d’altro genere, e sono invitati ad approfondire
l’argomento della consultazione su cui dare il proprio contributo. I partecipanti
alla consultazione possono mettersi in contatto con gli organizzatori per
chiedere chiarimenti, confrontarsi con gli altri cittadini, valutando con
attenzione pro e contro di ogni ipotesi e suggerendone di nuove. Valastro
(2006) a tal proposito, sottolinea come invece «La tendenza che ancora si
registra in Italia è nel senso di rinviare la consultazione ad una fase il più
possibile ravvicinata alla decisione politica: il timore che le interferenze
esterne possano compromettere l’elaborazione progettuale porta a spostare in
avanti il confronto con i destinatari, in modo da disporre di un progetto
sufficientemente strutturato per sostenere la conflittualità eventualmente
aperta dalla consultazione». Il risultato ottenuto però disattende l’obiettivo
della consultazione che si trasforma in uno strumento di legittimazione ex post
della decisione anziché di elaborazione e valutazione della stessa, se non in
un tentativo di creare campagne di comunicazione unidirezionali che mirano ad
informare e persuadere i destinatari della bontà del progetto, e dunque a
ridurre la conflittualità attraverso un consenso generato più da strumenti di
tipo propagandistico che di dialogo critico (Valastro 2006).
In Italia a livello nazionale, le consultazioni
sulla semplificazione amministrativa sono le prime a partire, con il governo
Prodi nel 2007. Nel 2009 i dipendenti pubblici vengono coinvolti dal ministro
Brunetta nel Forum sulla Consultazione Pubblica Telematica sui decreti delegati.
Nel 2012 con il governo Monti si realizzano consultazioni su vari temi con la
richiesta del parere dei cittadini sui temi della semplificazione della PA, i
principi fondamentali di internet, l’agenda digitale italiana e sul valore legale
del titolo di studio. Nel 2013 divengono più diffuse e riguardano diversi temi
tra questi le riforme istituzionali, le 100 procedure più complicate da
semplificare, le 50 misure contenute in Destinazione Italia, l’Open Government
Partnership, le linee guida relative ai centri di elaborazione dati, la nuova disciplina
in materia di impatto della regolazione. Filo conduttore di tali iniziative è
la scarsa partecipazione che le caratterizza e la mancanza di una restituzione
dei risultati, requisito minimo per ogni consultazione anche secondo la Ue.
Considerando ad esempio quella relativa
all’abolizione del valore legale del titolo di studio, sul sito dedicato non si
presenta nessun rapporto finale che ne riepiloghi i risultati, i partecipanti
intervenuti e gli effetti sulle politiche.
La consultazione su La Buona Scuola è l’unica –
tra quelle condotte a livello nazionale - ad avere avuto una adeguata
partecipazione in termini numerici e ad avere nel sito dedicato sezioni
destinate con chiarezza alla presentazione del percorso (con un “patto di
partecipazione” che spiega, ad esempio, perché intervenire e criteri d’uso dei
dati raccolti) e dei risultati. In cui la fase di consultazione, con una
grafica accattivante ed una navigazione semplice ed efficace dal punto di vista comunicativo, viene
connessa al percorso legislativo e alle fase attuativa (ancora non avviata).
Proprio quello che apparentemente sembrerebbe essere una buona prassi dal punto
di vista procedurale e comunicativo, si presenta guardando alla realtà dei
fatti come un grande insuccesso, scatenando aspri conflitti e forme radicali di
protesta (dagli scioperi, alle manifestazioni di piazza, sino al blocco degli
scrutini).
Rispetto ai numeri, al di là della poca
chiarezza su come siano stati calcolati dal momento che quelli disaggregati
indicati non corrispondono al totale (1.800.000 partecipanti), di certo si
tratta di migliaia di partecipanti, un’affluenza di gran lunga molto più
numerosa di quella delle altre consultazioni nazionali che tranne poche
eccezioni (come la consultazione sulle Riforme Costituzionali con 131.676),
solo in pochi casi (quelli più fortunati e che riportano le statistiche
rendendo visibili i dati di fruizione) presentano poche centinaia di
partecipanti, se poco più di una decina per veri flop come la consultazione
della Regione Siciliana sul DDL Città metropolitane del 2013 (con soli 13
commentatori).
Ciò conferma che quando un tema è ritenuto
interessante per sé e per i propri familiari suscita partecipazione solo se c’è
anche un buon senso d’efficacia percepito rispetto ai risultati delle proprie
azioni. James Fishkin ritiene però che più che raccogliere “opinioni cieche”
cioè non opinioni o idee che si formano sul momento scegliendo in modo casuale
tra le alternative precostituite di un questionario, sia preferibile promuovere
opinioni informate. Limitandoci ad analizzare la versione online della
consultazione sulla scuola italiana, vediamo che il documento consultivo che si
chiedeva di commentare o sul quale era disponibile un questionario strutturato,
presentava già delle priorità e delle alternative chiuse.
Su un tema altamente conflittuale, come la
riforma della scuola, dunque, si sceglieva una tecnica non deliberativa come il
questionario, lasciando però spazio per la discussione deliberativa nell’area
del sito dedicate al “dibattito online” e secondo la pratica del
“notice-and-comment” (commenti scritti al documento consultivo), diffusa nel
mondo anglosassone ma poco nota in Italia, si dava inoltre la possibilità di
inviare position-papers e documenti ufficiali degli Uffici Scolastici
Provinciali. Oltre ad organizzare “dibattiti diffusi” sul territorio.
I risultati vengono presentati, una volta
conclusa la consultazione, solo sottoforma di slide-share. Una sintesi che fa
principalmente riferimento ai numeri della consultazione, ai risultati delle
risposte al questionario e all’analisi dei concetti chiave tramite l’analisi
linguistica computazionale.
Il documento consultivo che apriva la
consultazione, presentato dal governo, si sviluppava in 6 punti ed era
indirizzato all’intera cittadinanza, con lo slogan: “Perché per fare la Buona
Scuola non basta solo un Governo. Ci vuole un Paese intero.” Grande
soddisfazione del governo per i risultati si evidenzia nei comunicati stampa e
nella presentazione in slide dei risultati. Altrettanto non avviene da parte
degli insegnanti, degli studenti e delle associazioni che li rappresentano.
Al si là degli slogan inclusivi ed aperti al
paese intero, nel sito della consultazione, però, non si faceva nessun riferimento
a proposte differenti o a proposte di legge già presentate ed in (perenne)
attesa di essere discusse, caso più grave proprio per la presenza di una Legge
di iniziativa popolare sulla scuola (Lip) già depositata prima dell’avvio della
consultazione. La proposta de “La buona scuola” elaborata nei primi sei mesi
del governo Renzi non considerava le ragioni e i temi ritenuti prioritari da
oltre 100.000 cittadini che avevano firmato e presentato per la prima volta nel
2006, una Lip frutto di una costruzione partecipativa durata anni. Ignorata
dalla Riforma Gelmini, così come dalla ex ministra Carozza, è stata
ripresentata con aggiornamenti nell’agosto del 2014 da alcuni senatori (Disegno
di legge 1583, Mussini prima firmataria ex M5S) e a settembre anche alla Camera
(Proposta di legge n. 2630) per valorizzare il percorso popolare realizzato e
avviare un processo condiviso. La Lip è stata realizzata da un gruppo di
genitori, insegnanti, studenti e cittadini che hanno elaborato la legge
d’iniziativa popolare e poi raccolto le firme per proporla al parlamento o
semplicemente che ne hanno condiviso l’idea di scuola, i suoi principi fondanti;
la proposta è stata elaborata da un movimento spontaneo nato nel tentativo di
bloccare, prima, e abrogare, poi, la legge di riforma 53/03 introdotta dall’allora
ministro Letizia Moratti; per la rielaborazione della proposta si sono formati
29 comitati territoriali diffusi da Sud a Nord (http://lipscuola.it/).
Il vedersi guidati da uno strumento strutturato
su alternative predisposte dal governo con poco spazio per commenti ed
eventuale dissenso ha suscitato aspre polemiche sia tra gli insegnanti che tra
i genitori. I tentativi di manipolazione – o meglio elementi percepiti come
tali – sono stati denunciati da soggetti con posizioni non sempre concordi, per
posizione e appartenenza politica. Dubbi, infatti, vengono espressi sia da
insegnanti esponenti dei comitati Lip, sia da membri di alcune associazioni di
genitori (come la Age). Solo per fare un esempio, il prof. Roberto Buscetta
(del comitato Lip Palermo) afferma: “Questa consultazione non ha funzionato
perché il mondo della scuola non è stato ascoltato con un reale dibattito. Il
questionario guidava a scegliere tra alternative attuative di una decisione già
presa, senza dare la possibilità di dichiararsi assolutamente contrari alla
proposta stessa. Ad esempio si chiedeva quali informazioni si ritenesse più
importante conoscere attraverso il Registro Nazionale dei Docenti, senza dare
la possibilità di indicare la propria contrarietà alla realizzazione di tale
albo. Inoltre, il rapporto di presentazione che illustrava gli elementi sui
quali intervenire, riportava i dati in modo distorto. Solo per fare un esempio,
per spiegare come funziona la carriera dei docenti, invece di indicare il reale
stipendio lordo di un insegnante corrispondente ad ogni scatto, ne presentava
una versione gonfiata definendola nel titolo e nel testo “posizione
stipendiale” e spiegando solo in una nota dai caratteri più piccoli e dal
contenuto enigmatico per la maggior parte della popolazione che ‘I compensi
riportati sono lordo Stato’ (La Buona Scuola, p. 49)” (intervista del 21 maggio
2015). Per chiarire, ricordiamo che il “lordo Stato” è il costo complessivo che
la scuola sostiene per quel dipendente formato dallo stipendio lordo percepito
dal dipendente più i contributi a carico della Amministrazione (Irap, Inps,
Tfr, etc.). Con uno scarto elevatissimo con la retribuzione effettiva, ad
esempio lo stipendio di un docente della scuola dell’infanzia e primaria con il
massimo degli scatti (sono in tutto 6), dunque con almeno 35 anni di servizio,
è indicato nel rapporto in 47.007,03 euro mentre consultando le tabelle
stipendiali effettive corrisponde a 28.291,99 euro (CCNL Scuola ai sensi della
legge n.106 del 12 luglio 2011, fonte: https://www.aranagenzia.it), dunque con
una differenza di quasi diciannovemila euro. Molti dei docenti che hanno
partecipato hanno visto in questa scelta un tentativo del governo di realizzare
una informazione di propaganda che rafforzasse l’immagine pubblica negativa
spesso attribuita agli insegnanti. Sempre su questo punto, un sindacato di base
nel suo sito commenta: “Una svista, un refuso? Manco per niente! […] A noi è
parso che la cosa assomigli tanto alla furbizia pelosa di qualche venditore
ambulante di frutta e verdura che indica il prezzo evidenziando ‘AL CHILO’ e il
prezzo, e sotto, in maniera appena leggibile, ‘mezzo’. Insomma una furbata da
imbonitori per altro ripetuta pari pari dal sottosegretario Toccafondi in risposta
ad una interrogazione alla camera […]. Con l’aggravante della omissione del
“LORDO STATO” riportato in calce alla tabella. Non ci resta che invocare
l’intervento dell’Autorità Garante per pubblicità ingannevole, sperando che passodopopasso.Italia
la-buona-scuola, non sia da prendere tutto a … ‘mezzo chilo’.” (http://www.scuolathena.it/athena/docenti-othermenu-38/728-lordo-stato).
“La comunicazione del governo, la consultazione
e il documento su La Buona Scuola alimentano i pregiudizi sul mondo della
scuola: gli insegnanti lavorano poco, sono privilegiati. Proclamano l’ascolto,
ma questo richiede tempo, così sostengono che adesso è tempo di decidere. Non
c’è stata la possibilità di far apportare modifiche consistenti, gli
emendamenti riguardano dettagli all’interno di un meccanismo complessivo che
non funziona.” (Roberto Alessi, Cobas Scuola Sicilia)
Lo strumento principale adottato per la
consultazione, il questionario non consente di aprire il percorso all’inatteso,
ma limita l’interazione a scelte precostituite. Proprio la scelta di questo
strumento di consultazione è stato percepito come un tentativo di
strumentalizzare le risposte per rafforzare la propria proposta senza
esercitare un reale ascolto attivo. “Nel questionario si parla di scuola non
per parlare di docenti e studenti, si parla di condizione economica, ma non di
didattica. Abbiamo invitato a partecipare a dibattiti su temi concreti e non
sono mai venuti. Parlano per slogan e non ascoltano. Non hanno mai abrogato le
riforme precedenti, né i tagli. Usano i precari come arma di ricatto per fare
passare contenuti inaccettabili. La Corte europea si è espressa in tal senso,
ma loro presentano il piano assunzioni come una mossa spontanea per far passare
gerarchizzazione e tagli” (Roberto Buscetta, Comitato Lip Palermo).
Critiche sul sistema decisionale e la sua
manipolabilità sono emerse anche da alcune associazioni di genitori.
L’Age, associazione che raccoglie gruppi di
genitori che si ispirano ai valori costituzionali, ai diritti dell’uomo e del
fanciullo e all’etica cristiana, ad esempio, denuncia, nel suo sito web
ufficiale, presunti tentativi di manipolazione anche della parte della
consultazione dedicata al dibattito a risposta libera: “purtroppo è accaduto un
fatto piccolo ma non trascurabile, che getta cattiva luce sulla democraticità
del nostro Paese e ci fa indignare come cittadini. La nostra proposta a favore
del Testo unico e degli Organi collegiali della scuola è stata deliberatamente
oscurata per tre giorni, probabilmente perché tutte le proposte di AGe Toscana
figurano fra le più votate nelle varie stanze di discussione e non si voleva
dare spazio a questo tipo di idee.” (AGe Toscana 15/11/2014).
La consultazione dovrebbe avere come principale
obiettivo l’incremento della legittimazione sociale delle decisioni, assorbendo
i rischi del dissenso. Il coinvolgimento istituzionalizzato dei soggetti è
un’opportunità per permettere anche a chi non condivide una decisione, di
riconoscersi nel processo che la ha prodotta. Non dovrebbe trattarsi
semplicemente di un meccanismo per selezionare alternative esistenti, ma di un
momento di confronto e dialogo, secondo il modello deliberativo. Un passaggio
per la determinazione di soluzioni comuni.
La consultazione sintetizza due aspetti
centrali della comunicazione pubblica: quello funzionale e quello d’integrazione
simbolica (Mancini 1996). Permette di raccogliere informazioni utili alla
realizzazione di interventi e nello stesso tempo diffonde valori (es.
democrazia) ed una visione differente dell’amministrazione pubblica che appare
aperta ed orientata al cittadino. Il decisore costruisce un simulacro dei
portatori d’interessi coinvolti, un’immagine idealtipica, sfruttando i
contributi dei consultati.
La consultazione elettronica ha, dunque, una doppia valenza, da una parte è una tecnica d’indagine che consente al governo di conoscere l’opinione di cittadini e portatori d’interessi, dall’altra, è uno strumento del consenso che può servire a legittimare decisioni che non necessariamente riscuotono il favore dei cittadini. La consultazione è sovrafunzionale, da un lato ha una funzione di integrazione sociale, mediando e componendo i conflitti creando una sfera pubblica nella quale si confrontano opinioni contrastanti nell’ambito della democrazia deliberativa; dall’altro ha una funzione di legittimazione delle decisioni prese e dell’organo decisore che le ratifica. È uno strumento di raggiungimento del consenso e nello stesso tempo un mezzo di innovazione e mutamento per il sistema democratico. Svuotare questa strategia di ricerca della sua valenza conoscitiva e farne una fabbrica di sondaggi d’opinione, significherebbe perdere un’opportunità per rafforzare le democrazie rappresentative, dal momento che il danno non si limita esclusivamente al fallimento della singola consultazione e del singolo processo di riforma della scuola, ma si riflette sulla procedura della consultazione in sé, facendo perdere ai cittadini senso d’efficacia e incrementando la loro sfiducia verso le istituzioni che appaiono impermeabili al dissenso e verso quegli strumenti innovativi di partecipazione democratica che potrebbero segnare una svolta. Il processo chiuso al cambiamento e diffidente verso la partecipazione, anche nelle sue forme più radicali, con cui sta avvenendo l’ennesimo processo di riforma contro e non con i diretti interessati e al suo interno la consultazione sulla buona scuola, dunque, rischiano di rappresentare un’occasione perduta.
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