La bimba “taumaturgica” dei monti e il triste condominio francese

Cultura | 5 aprile 2016
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Heidi (2015) di Alain Gsponer. La piccina inventata dalla penna di Johanna Spyri che con la sua bontà “ecologica” - il viscerale amore per la natura e per gli esseri umani, ha incantato e commosso generazioni d’infanti, di mamme e papà - resuscita sul grande schermo, dopo varie versioni cinematografiche, serie televisive di cartoon (tra cui quella italiana andata in onda nel 1978, con la sigla divenuta subito una hit, cantata da Elisabetta Viviani) fumetti e perfino…francobolli. “Heidi”, l’Adelaide delle caprette, dei monti innevati e degli spazi incontaminati, risorge (ad interpretarla per la prima volta fu Shirley Temple nel 1937), preceduta dalla sua ormai consolidata fama e da un non indifferente battage pubblicitario, come vero e proprio blockbuster di fine stagione, subito schizzato nella top-ten degli incassi. Buoni sentimenti, fedeltà al romanzo e normale happy-end per questa full immersion nella natura contrapposta all’alienante produttivismo cittadino e alla compassata freddezza della ricca dimora cittadina della paralitica Klara, la bimba che miracolosamente ritrova l’uso delle gambe nelle incorrotte distese verdi delle Alpi svizzere, dove recupera l’affetto momentaneamente perduto della “taumaturgica” e scoppiettante Heidi. Produzione, come è d’uopo, Svizzera/Germania (dove il romanzo è ambientato)                                                                                              Interpreti: Anuk Steffen (Heidi) - Bruno Ganz (il nonno) - Quirin Agrippi (Peter) - Isabelle Ottmann (Klara) - Hannelore Hoger - Maxim Mehmet - Katharina Schüttler - Jella Haase - Michael Kranz - Heinrich Giskes - Rebecca Indermaur - Peter Jecklin - Monica Gubser

Il condominio dei cuori infranti (2015) di Samuel Benchetrit. Con un tocco decisamente surreale il semiscononosciuto Benchetrit indaga sulla solitudine e sugli acciaccati sentimenti umani (ma anche sull’inaspettata solidarietà e sulla forza titanica dell’amore), planando su un “pittoresco” condominio popolare ubicato nella grigia, triste, desolata, periferia parigina (il film inizia con una buffa riunione condominiale) e abitato da fauna eterogenea. L’intreccio di tre storie (l’astronauta NASA precipitato in terrazza, l’attrice in disarmo e il “fotografo”, momentanemamente paralitico, innamorato dell’infermiera di notte) ne fanno quasi un film ad episodi, ma superato l’impasse e il piacevole stordimento delle prime battute perde di smalto, svivola lentamente in un noioso déjà vu , per riprendere solo in chiusura tutta la mestizia che qua e la il tono del racconto rende più lieve. Stravagante, curioso, con qualche metafora non proprio originalissima.. Buona la prova d’un cast “blasonato”.                                                                                                                                         Interpreti: Isabelle Huppert - Gustave Kervern - Valeria Bruni Tedeschi - Michael Pitt - Jules Benchetrit - Tassadit Mandi - Mickaël Graehling - Larouci Didi - Abdelmadjid Barja - Thierry Gimene

 

Un’ infernale macchinazione contro Pasolini? Vecchie ipotesi in un nuovo film.

 

Da molti anni ormai la morte violenta di Pier Paolo Pasolini, è diventata oggetto di bailamme e grancassa mediatica, per indagare - nel migliore dei casi - alla ricerca d’una verità divenuta (o da sempre) “impossibile” o forse troppo banale, che tale probabilmente continuerà a restare. Un ginepraio, una girandola di ipotesi, tutte prive di riscontri certi. L’ignobile vituperio ideologico sull’appartenenza politica dello scrittore, poeta, drammaturgo e regista, da parte di coloro che furono in prima fila in quella “strategia del linciaggio”, non ha avuto e non ha in Italia riscontri similari. Una strategia persecutoria, martellante, ossessiva, iniziata quand’egli ancora in vita, intellettuale solitario aveva già dato alle stampe la sua “poetica” dell’annientamento della diversità del sottoproletariato a favore di una omologazione voluta dal potere, mentre contestualmente andava elaborando la disperata coscienza della inconsistenza sociale del letterato-umanista. E’ noto, infatti, come ormai il citazionismo pasoliniano sia da tempo divenuto quasi uno sport nazionale che dagli “Scritti corsari” e “luterani”, apparsi sul Corriere della Sera allora diretto da Piero Ottone, giunge fino alla scandalosa poesia “Il PCI e i giovani” ed altri scritti. Un citazionismo, becero e banale, divenuto anche appannaggio di quella stessa stampa e parte politica che coniò perfino l’aggettivo “pasolinoide” per coacervare significati quali  “un cantore del sordido” , un “pornografo”, un “vate delle “marrane”, un “apologeta dei magnaccia e delle peripatetiche”.                                                                    

Sostanzialmente le tesi sull’efferato massacro di Pasolini restano due. Quella (ufficiale) “sessista”, del delitto omosessuale (oggettivamente credibile) provocata da un balordo bulletto di borgata diciassettenne, Pino Pelosi (forse insieme ad altri “ragazzi di vita”, di cui non è stata provata la presenza), avvenuta a seguito d’una ferale lite (provocata? casuale?) all’idroscalo di Ostia (un tentativo di rapina degenerata? come confessato da un altro misterioso testimone, subito dileguatosi) e la tesi “complottista”, appunto della macchinazione contro l’intellettuale scomodo. Il film del discontinuo Davide Grieco ”La macchinazione” mescola la clamorosa ritrattazione di Pelosi - che nel 2005 ha incredibilmente dichiarato di non essere lui l’assassino, riversando le responsabilità su un’eterogenea e misteriosa banda di siciliani, calabresi, romani e di aver taciuto (qualche nome Pelosi ha fatto in seguito) temendo di mettere a rischio la vita dei familiari (anni dopo deceduti) - con quella del “complotto” ordito da poteri occulti, in testa Eugenio Cefis (allora a capo della Montedison e fondatore della P2), protagonista insieme a Mattei del romanzo-saggio “Petrolio” che Pasolini in quegli anni andava scrivendo. Nel fluviale e mai ultimato “Petrolio” s’ipotizza un ruolo del capo della Montedison nello stragismo di matrice italiana,  attingendo anche da un lavoro - subito scomparso dalla circolazione - di un enigmatico personaggio (ucciso?) che avrebbe addirittura scritto sconvolgenti rivelazioni sotto dettatura del senatore Verzotto, fuggito all’estero perché entrato in conflitto con Cefis. Il furto delle bobine del film “Salò” (secondo una testimonianza di Sergio Citti), di cui si parla nel film, sarebbe stato dunque un tranello per attirare Pasolini all’idroscalo di Ostia da parte della banda incaricata da ignoti (o troppo noti) poteri (politici, Cefis e chissà chi altri) di massacrare il regista, scaricando poi la colpa su un ingenuo e sprovveduto capro espiatorio, appunto Pino Pelosi. Tutto già ampiamente svelato in sede giudiziaria. Tutto rimasto indimostrato.

La Procura della Repubblica di Roma dopo aver riaperto l’ennesimo fascicolo lo ha definitivamente chiuso nel 2015. Il DNA di elementi sconosciuti rinvenuto sul corpo di Pasolini non è stato ritenuto probatorio (questa la motivazione ufficiale) perché impossibile stabilire se lasciato prima o dopo l’omicidio.  Nulla pertanto è stato aggiunto (salve ipotesi su ipotesi, avanzati anche dai film di Giordana e Grimaldi) al giudizio di primo grado emesso da Alfredo Carlo Moro,  Presidente del Tribunale dei Minori di Roma, il 21 maggio 1976, che ha condannato Pelosi come il solo autore dell’omicidio. Un film che non manca di momenti fortemente emotivi, efficace nella mostrazione di elementi giudiziari rimasti poco conosciuti (o non abbstanza attenzionati) dai più. Inutile? Forse, ma solo nell’impossibilità di trovare il bandolo della matassa dell’omicidio, ormai troppo ingarbugliata e sommersa da una congerie di supposizioni. Di contro, utile a mostrare ancora una volta l’estrema pericolosità dei poteri occulti nazionali, tornando sulle nequizie e le anomalie della storia recente del paese e di una parte consistente della classe dirigente invariabilmente “anomala”, votata a trame oscure, intrighi di palazzo, collegata a mafia, ‘ndrangheta, delinquenza organizzata, servizi segreti “deviati”, spie, eversione rossa e nera. Eterni mali d’una nazione mai divenuta pienamente democratica. Nell’impossibilità di accettare una verità che sottrae irrimediabilmente la conclusione eroica ad una “vita violenta”, scissa, riportata a dimensioni troppo umane, visto dunque in un’ottica che travalica la verità storica, il film di Grieco assume una sua dimensione epica, incarnando simbolicamente Pasolini la vittima predestinata d’un sistema aberrante di potere, un destino cui egli lucidamente va incontro frequentando i suoi assassini e “programmando” così la propria morte. Intensa e misurata prova di Massimo Ranieri, scelto anche per la straordinaria somiglianza con il regista-scrittore. Paolo Bonacelli (già protagonista di “Salò”) appare in un cameo. Musiche dei Pink Floyd.                                                                              Interpreti: Massimo Ranieri - Libero De Rienzo - Matteo Taranto - François-Xavier Demaison - Milena Vukotic - Roberto Citran - Alessandro Sardelli - Catrinel Marlon - Paolo Bonacelli - Toni Laudadio.

 

 

Colpisce ancora il tipico “franchise” della DreamWoks: Kung Fu Panda 3 (2016) di Alessandro Carloni e Jennifer Yuh

 

.Puntuale, come un cronografo svizzero, l’orso pacioccone inventato dalla DreamWorks, imbattibile campione di kung fu, riappare nelle sale pasquali italiane con un terzo episodio (che forse preannuncia il quarto) diretto da un tandem, il milanese Alessandro Carloni in coppia con Jennifer Yoh, già regista del secondo Panda Po. Finalmente ritrovato dal vero padre, agnizione che provoca l’angoscia (poi placata) dell’oca che lo ha adottato, Panda Po viene iniziato dal genitore al “paradiso segreto dei panda”, dove però sarà costretto ad addestrare i suoi felicemente raggiunti simili contro il cattivissimo Kai, tornato in vita più assetato che mai di vendetta e di potere e già padrone del “Ci” (l’anima del kung fu che vive dentro gli adepti) perfino della formidabile squadra di Po. Epico scontro finale nel “pandico” paradiso e quasi morte dell’intrepido Po che riesce a riportare il malvagio e terrificante Kai tra gl’innocui ectoplasmi da cui proviene, mentre la scellerata squadra al suo seguito viene sbaragliata  dal resto dei panda. C’è da giurarci, i nuovi personaggi preparano un ulteriore sequel, per quanto i segni della stanchezza incombono in questo terzo tipico franchise moderatamente divertente, nonostante i risultati al box-office sembrino ancora premiare i fantasiosi creatori.

Le otto carogne di Quentin Tarantino

 

            L’ottavo candidato (come il suo ottavo film, alla maniera di Fellini che però calcolava anche la mezza unità) salterà fuori alla fine, quando ormai la domanda sarà diventata ineludibile. L’ecatombe Tarantino torna con il fragore delle lunghe pistole di “The hateful eight”, western-pulp-splatter tinteggiato di trhriller, film dall’ambientazione estrema (pressappoco, ma in tono minore, come “Revenant”) e come sempre spietato, sanguinolento al limite della sopportazione e maledetto, Nessuno spazio (nemmeno per un nano secondo) alla pietas umana e al processo d’indentificazione, che forse scatta tra i peggiori bassifondi del Bronx. Tematiche consuete dell’intramontabile - per quanto duramente acciaccato - genere western (cacciatori di taglie, bande di criminali incalliti…) vorticano avanzando agevolmente trainati da espedienti narrativi tradizionali (ma fastidiose ed inutili appaiono un paio d’intromissioni d’una azzardata voce fuori campo). “The hateful eight” è l’ennesima danza macabra, sarabanda di morti ammazzati, all’interno d’uno sperduto emporio squassato dalla tormenta, dove la fatal dea aleggia sinistra fin dal primo impatto e dove la suspance assume toni parossistici. La (poco usata) colonna sonora di Ennio Morricone, già in lizza per l’Oscar,  grava cupa e presaga sulle diligenze a sei cavalli spinte al galoppo su gelide piste innevate (sole sequenze spettacolari) e annuncia, tenebrosamente, sfracelli. La raccapricciante vis comica del regista cult del Tennessee si estrinseca soprattutto verso l’infernale blood-end. Girato in 70 mm. che pochi esercenti in Italia hanno avuto il coraggio di riproporre nell’era, appena iniziata ma ormai vincente, del digitale, mutilando non poco l’incanto delle immagini.                                                          Interpereti: Channing Tatum - Kurt Russell - Samuel L. Jackson - Walton Goggins - Jennifer Jason Leigh - Tim Roth - Michael Madsen - Zoë Bell - Bruce Dern - Demian Bichir - Dana Gourrier - James Parks Anno: 2015

 

 

Perfetti sconosciuti: la menzogna ci salverà

 

 

            Da Woody Allen ad Ettore Scola o Paolo Virzì (tanto per citare gli ultimi), il desco - come location privilegiata d’agone sentimentale, teatro di esplosioni di rabbia repressa, d’inespresse verità e latenti insoddisfazioni, di più o meno traballanti relazioni di coppia - ha ormai catturato l’attenzione della macchina da presa che, girando intorno ai commensali, ne mostra impietosa le aporie. La commedia umana sembra effettivamente trovare, nella dimensione teatrale chiusa della rappresentazione della mensa amicale, una più congeniale “mostrazione” alla quale da vita anche Paolo Genovese, ormai consolidato protagonista della new comedy italian style, qui apparentemente ripiegata sul privato, in realtà onusta di vizi privati e pubbliche virtù che, bene o male, invadono (o hanno occupato) la vita di tutti noi. Rapporti tra coniugi (o compagni), tradimenti, menzogne, amicizia, delusioni, le mai facili relazioni tra genitori e figli, rattoppata vita coniugale, sessualità nascoste, frustrazioni e fallimenti professionali o, di contro, successi nel lavoro, sono tutte tematiche che irrompono fragorosamente - a seguito d’un periglioso gioco “alla verità” (compiuto attraverso gli onnipresenti smartfone lasciati in modalità “vivavoce”) -  nella cena tra vecchi amici (con mogli) di “Perfetti sconosciuti”, una “Carnage” romanesca dall’esito imprevedibile. Il dio del massacro aleggia sinistro fin dalle prime battute, per poi sovraneggiare nel momento in cui l’eclissi lunare, che accompagna la cena, giunge al culmine per poi “miracolosamente” dileguarsi. Ma è proprio nella mancanza di indizi linguistici che Genovese “inganna” lo spettatore e lo spiazza all’improvviso senza alcun pur vago preavviso, chiudendo con una poco rassicurante pacificazione e attribuendo a ipocrisia e menzogna (e qui, ahimè, come dargli torto) un ruolo predominante sui sempre precari rapporti umani. Ottimo l’intero cast impegnato in una defatigante kermesse recitativa.                                                                                                                                          Interpreti: Kasia Smutniak - Marco Giallini - Valerio Mastandrea - Anna Foglietta - Edoardo Leo - Giuseppe Battiston - Alba Rohrwacher

 di Franco La Magna

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