La banda Brancati, eterno viaggio nella caducità del siciliano

Cultura | 19 marzo 2022
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Nel saggio, Sincerità e autenticità, Moretti & Vitali, traduzione di Raffaele Ariano, Lionel Trilling, critico letterario di fama internazionale, intellettuale newyorchese di lungo corso, nel trattare gli aspetti della narratologia nell’ambito del canone classico, ha plasticizzato talune posture dei personaggi del romanzo, attribuendo a chiunque, cultore di letteratura o semplice uomo della strada, la voglia di esorcizzare la morte, in quanto pulsione egotica inscindibile dell’essere. In un finale tragico, Trilling intravede il mezzo per soddisfare l’affermazione escatologica della sopravvivenza, almeno per coloro, i lettori, assistano, intorno al catafalco del defunto, alla scomparsa del protagonista.

Meglio ancora se la voce narrante ha misteriose, se non sotterranee, personificazioni con l’autore.

A Vladimir Di Prima va ascritto il merito con La banda Brancati, A&B editrice, di avere conseguito il duplice traguardo di offrire la prospettiva romanzata, in chiave di autenticità palpitante, di uno spaccato della biografia di Vitaliano Brancati, in uno con la sincerità di un sé narrante, né io, né voce, bensì carne e sangue dello stesso autore. Nell’imprimere il ritmo, Di Prima ha privilegiato le atmosfere e la caratterizzazione delle figure, ottenendo un ordito vibratile, musicale, accattivante.

Con piacevole meraviglia, ci si accorge di aderire alla pagina, di essere coinvolti non tanto nelle descrizioni paesaggistiche, quanto nel clima degli anni Cinquanta del secolo scorso in una Sicilia metafora del mondo, superbamente resa da una copertina evocativa delle tendenze di allora, impreziosita dal tratto rarefatto di una narrazione d’improvviso distanziatasi dall’oggetto amato e, al tempo, più vicina alle rievocazioni, ai rimpianti, ai lazzi, in una parola … alla vita. Attimi prima di entrare in una dimensione peritura, dove l’aura di morte sussume, con l’incedere del plot, quella sincerità unica di un dolore dalle dimensioni cosmiche rappresosi intorno all’inaspettata scomparsa dell’artista Brancati, ritornato nella dimensione caduca di uomo.

Eterodossia o sperimentalità, la si definisca come si vuole, Di Prima pennella senza pestare sulla tavolozza, lasciando ai colori, ma non solo, ai sapori, ai rumori, agli scorci, funzioni poetiche in itinere, proteso a fermare sul testo squarci scenici, fotografie in movimento, quello spazio di finzione indispensabile per comporre visioni attraverso la fantasia dell’osservatore. Dote non da poco per uno scrittore contemporaneo di lingua italiana, giacché lo schema comprendente la compiutezza di trama, l’intelligibilità di segno e il ricorso al manierismo ossessiona, in genere, la quasi totalità degli autori.

Chiunque non sia siciliano, giacché gli isolani nelle loro movenze posseggono in natura il concetto di caducità e di eternità, rimarrà affascinato da questa aura riconducibile al mito di Eros e Tanatos, espressa in maniera superba dal personaggio di Virginia Cesti, vecchia e giovane, seducente e tirannica, sfuggente e immanente, unica e duale. Non è la sola a bucare la filigrana del narrato, qui e là, bozzetti di scenografica potenza si affacciano nel testo come quel Vincenzo di Suttalarchi, … a quel tempo una sorta di tassista che faceva la spola da Zafferana a Catania …

Perché lo si connotasse Suttalarchi, quantunque non sia spiegato è facilmente intuibile per chi si fosse occupato della topografia e delle abitudini della città capoluogo a fine anni Cinquanta inizi Sessanta, giacché nel tunnel sotto la villa Bellini, esattamente in via Santo Euplio, stazionavano gli autisti di servizio di piazza diretti ai paesi dell’Etna. Lì, famiglie della benestante borghesia catanese si recavano, a conclusione dell’anno scolastico, per raggiungere le residenze estive, in genere case padronali di costruzione dei primi del Novecento, a San Giovanni La Punta, Viagrande o Zafferana per trascorrere i mesi di caldo all’ombra di mandorleti e uliveti. Le madri imbellettate, il velo del cappellino alla moda a punteggiare il volto, il figliolo per mano, mentre il padre accompagnava e salutava moglie e rampolli, ripromettendosi di raggiungerli a fine settimana, lavoro permettendo.

A queste notazioni, talvolta appena accennate, si deve quella contrapposizione tra l’apparente staticità di uomini e cose e l’inquietezza dello spirito … individuale e universale che attraversa il romanzo, un ircocervo di vento, refoli, soffi, parole, atteggiamenti, movimenti sfuggenti a qualsiasi catalogazione convenzionale, ancorati alla profondità semantica della narrazione rispetto al più traslucido piano formale, in grado di condurre il lettore a seguire per immagini lo svilupparsi del racconto.

Per accenni si è già detto, Di Prima dipinge il quadro del bel Brancati con il piglio duraturo di chi insofferente delle mode, imprime pregnante essenza ai tratti, come la citazione di Antonio Aniante, narratore di talento, nato a un tiro di schioppo da Zafferana, in quella Viagrande, pullulante d’estate di nobiltà catanese in villeggiatura, più anziano di sette anni di Brancati, aedo di spiccato talento, colpevolmente dimenticato dai posteri.

A Vladimir Di Prima con La banda Brancati vada una menzione speciale per avere licenziato un romanzo di densità come pochi in circolazione, degno di essere letto e, poi, riletto per l’incessante risuonare della musicalità con la quale ha celebrato il talentuoso scrittore pachinese dall’ironia sublime, iniziatore di una genia di letterati, capaci di cogliere dai costumi lo spirito degli uomini.

Se, ancora la civiltà letteraria degli anni del Novecento resiste alle abrasioni del tempo lo dobbiamo a opere come questa, godibile, appassionata e distaccata a un tempo, insieme tenera e graffiante.

 di Angelo Mattone

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