L'umanità di geni, malacarne e nullafacenti che vive sotto il katuso
Il catuso è un tubo di scarico, la parte bassa della grondaia in ghisa nera. Il nome l’hanno portato gli arabi, la K al posto della C, invece, è soltanto il frutto dell’errore di un narratore per caso, forse potenzialmente in linea con i tempi e i luoghi del lessicale conio. Ma la complessa spiegazione è anche fuori luogo, perché in realtà questo katuso, alla fine, è soltanto una pennellata nera su un muro, una sorta di indicazione stradale, di insegna. Il luogo di una piazza dove usa aggrovigliarsi un gruppo di vitelloni di paese in attesa del futuro e dell’avvenire sconosciuto, improvvisata agorà dei giorni perduti di una gioventù senza prospettive.
E’ un luogo molto frequentato il katuso. A parte i titolari, ogni giorno attorno a quella linea si radunano occasionali nullafacenti diversi per passare insieme un po’ di tempo, per discutere di niente, per infervorarsi, per parlare del mondo, della vita, della storia e di un probabile futuro.
Ma precari a parte, i titolari del Katuso, i frequentator fissi, sono cinque. Accanto a questa prima casa, dove la vita e gli incontri scorrono senza bisogno di appuntamenti, ne hanno una seconda, che è il bigliardo dello zio Gianì, ottimo posto per cambiare punto di vista senza cambiare obiettivo, lo scorrere della vita, rappresentato dall’inseguirsi delle biglie senza costrutto. Partendo da una considerazione filosofica del vecchio barone che ci vive dimenticato, in attesa di sciogliere un enigma esistenziale: siamo stecca o palle, siamo i giocatori o qualcuno sta giocando con noi?
C’è n’è poi una terza di casa, che in fondo è l’approdo di un’altra via che dal katuso si dipana: l’antica cappelluccia di pietra dedicata al santo patrono alla fine delle case, attorniata da un sedile circolare di balate ad anfiteatro sulla vallata in fondo alla quale tramonta il sole. Ma quando arrivano i nostri, il sole non c’è più. E’ un palcoscenico della sera e della notte, che qualche volta accoglie anche cantanti e suonatori. Altre volte anche il silenzio dei sogni.
Ancora un’altra strada si diparte dal katuso, ma questa è una stradina stretta che si percorre solo quattro o cinque volte l’anno. Porta a una costrizione piccola, bianca, usata solo per conservare il foraggio per gli animali. Ma una di queste pagliere diventa nelle feste comandate luogo di schiticchio, luogo di festino a base di mangiate smodate e di sesso a pagamento.
Accanto a queste strade note, battute giornalmente o solo quattro volte l’hanno, ce n’è una quinta, più grande, tanto grande che non si vede. Una strada sconosciuta che porta al domani. Per questo è invisibile ai nostri cinque: c’è il malacarne di buon cuore che farà il grande salto fino a diventare super boss di cosa nostra, c’è lo scarparo con brandelli di lavoro a singhiozzo, ci sono i due universitari senza speranze, c’è il figlio del venditore di cessi che pensa al giornalismo e al cinema C’è, soprattutto, la grande notte senza obiettivi.
Fino a quando questo futuro arriva inatteso. Viene a bussare all’improvviso, ma si dovrà pagare pegno al katuso che li ha tenuti insieme per anni. La forza centrifuga dell’avvenire li proietterà in tutte le direzioni fino a quando qualcuno non scoprirà che hanno fatto centro. Ma è un centro che non può più fare rima con la linea del katuso, che ha fatto perdere loro quell’attrazione calamitosa che li teneva insieme con la loro gioventù.
Ci sarà un lieto fine? Forse sì, forse il verbo potrà tornare a farsi carne.
Questa storia, come tutte le altre di Nonuccio Anselmo, si svolge in un paese della Sicilia. Uno dei tanti, a vostra scelta. Bisogna stare attenti solo a scegliere la geografia, che ne cambia gli uomini e la vita. Non è un paese di mare, dove vivono i pescatori; non è un paese di pianura, dove si coltivano gli ortaggi; non è un paese di montanari, dove la neve arriva sempre. E’ uno dei mille paesi della Sicilia riarsa, annegati nel feudo delle distese di frumento e del pomodoro siccagno, dove il centro di gravità ha posizioni diverse.
Nonuccio Anselmo la Sicilia, questa terra l’ha girata in lungo e largo, di giorno e di notte, per conto del Giornale di Sicilia, inseguendo tragedie e qualche volta, ma molto raramente, avvenimenti lieti. Della Sicilia non raccontata si è ricordato quando ha lasciato il giornale, dove ha praticamente vissuto per quarant’anni. Il suo incontro con la vita è avvenuto, invece, in uno di quei paesi del feudo, un molto chiacchierato paese celebrato per anni dalle cronache come “capitale della mafia”. Corleone era il paese del padre e qui ha vissuto la fanciullezza e un primo pizzico di gioventù. Siccome però la nomea di quel paese era piuttosto esagerata se riferita alla totalità del suo tessuto umano, a Corleone è sempre rimasto molto legato, tanto da dedicargli diverse pubblicazioni, sulla storia, la vita e le tradizioni, tutte cose che davano perfetta sostanza a una collocazione mozzafiato tra bastioni di calcare, cascate e canyon che avevano sbagliato posto nel mondo, scambiando quel pezzo di Sicilia con il profondo west americano.
Quando ha lasciato il giornale, adesso che non c’erano più vincoli di spazio e di verità, molte di quelle storie incontrate per caso per le strade di Sicilia e del paese della gioventù, gli sono tornate incontro chiedendo finalmente udienza. Così sono nati, oltre a una serie di racconti, otto romanzi: “Farmacia Bisagna”, “I leoni d’oro”, “I campieri di Cristo”, “Nostalgia della luna”, “Scarafaggi maculati”, “L'erba nera della notte”, “I figli del deserto” e “La casa dorata”. E cercando di farsi mancare il meno possibile, ha scritto anche qualcosa per il teatro oltre a dare un po’ di conto all’antico amore per la fotografia. Adesso alla memoria sono tornati pezzi iniziali di quella gioventù, attorno a un catuso. Non è verità, ma c’è una elementare filosofia di vita nata attorno a un tubo di ghisa.’
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