L'ultimo pezzo di Giovanni Ingoglia, giornalista d'inchiesta
Avrebbe o non avrebbe voluto? Non so rispondere, faccio correre veloci le dita sulla tastiera e scrivo, scrivo del mio carissimo amico Giovanni Ingoglia che se ne è andato a 75 anni quando era appena calata la notte dell’ultimo martedì di febbraio.
Voglio pensare che ovunque si trovi, nel mare dell’infinito, stia continuando a farsi domande, quell’infinità di interrogativi compagni della sua lucida intelligenza che aveva messo al servizio del mestiere di giornalista. Sono sicura che si sarebbe divertito a pensare che qualcuno prima o poi avrebbe scritto di lui, a come lo avrebbe fatto, cosa avrebbe raccontato in poche righe della sua prolifica vita professionale dalle infinite sfaccettature, come avrebbe descritto i suoi tanti giorni e le sue tante notti passate a lavorare - con una Marlboro in bocca o una cartina tra le mani nella quale avvolgere il tabacco Golden Virginia – nella redazione palermitana dell’Unità quando era poco più che ventenne e poi al giornale L’Ora. Di certo avrebbe avuto qualcosa da obiettare per una parola non adeguata, una virgola al posto sbagliato, un concetto poco chiaro, un contesto mancante o un ragionamento da approfondire.
Sono ancora limpidi esempi di giornalismo d’inchiesta i suoi pezzi sulla mafia che dilagava negli anni Settanta e Ottanta in Sicilia e nella provincia di Trapani, sulla corruzione che si insinuava nei Palazzi della politica, sulle lotte degli agricoltori per le terre e per i loro diritti calpestati. Pezzi senza fronzoli, epurati da “stucchevoli” aggettivi e “ridondanti” superlativi, chiari e leali, che hanno avuto l’effetto di portare lo scompiglio che un sano giornalismo deve portare, che hanno sparigliato affari e colpito il potere e sono rimasti, per il futuro, esempi per tanti timidi giovani che si sono affacciati alla professione in una provincia isolata e complessa come quella trapanese dove Giovanni ha scelto di restare. Ricordava spesso, perché gli aveva voluto bene e a loro era grato, i suoi mentori rimasti amici sinceri e primo tra tutti Giacomo Galante, caporedattore all’Ora e fratello di sua moglie Teresa, e poi i giornalisti e suoi direttori Giorgio Frasca Polara all’Unità e Bruno Carbone all’Ora che lo hanno accompagnato negli anni della sua professione sul campo.
Giovanni sapeva guardare lontano come quando era in navigazione sul suo elegante gozzo sorrentino con la poppa di tek lucidato a dovere e la battagliola splendente. Con una canna da pesca nella stiva andava felice per mare e allo stesso modo in giro per il mondo ma con dentro l’inquietudine di uomo sempre in viaggio. Quando, per varie circostanze della vita e a causa dell’incertezza del nostro lavoro, scelse la strada di capo ufficio stampa della Provincia regionale di Trapani non fece un passo indietro rispetto al giornalismo attivo ma continuò, con franchezza e puntiglio, a praticare la professione come si conviene a un giornalista che deve saper informare il cittadino di ciò che accade dentro i Palazzi, qualunque colore politico abbia l’amministrazione per la quale lavora.
Da quando era stata aperta - agli inizi degli anni Novanta - frequentava quasi ogni pomeriggio la redazione de La Sicilia di via Giardini 10, a Trapani, perché la stoffa del cronista gli era rimasta cucita addosso e a me, che ero la responsabile, e a tutti noi giovani ingenui e maldestri, insegnava a “fare un ragionamento”, a pensare con la nostra testa, a non farci incantare dalle parole di chi cercava notorietà o cinque righe in cronaca, ad analizzare e sapere distinguere. Ad avere memoria. Lo faceva con il garbo e l’eleganza che sono stati la sua cifra, il suo stile, a voce sommessa e senza il demone del “so tutto io” che trasforma la nostra meravigliosa professione nel più sciagurato dei mestieri.
Dopo il terremoto del Belìce aveva conosciuto il senatore Ludovico Corrao con il quale aveva stretto una forte ed ironica amicizia; quando Corrao lo aveva voluto alla Fondazione Orestiadi di Gibellina, con la quale ha collaborato per molti anni, ha messo in campo la sua vena creativa coniugata con il giornalismo facendo nascere “Labirinti”, una tra le più eleganti riviste di arte e cultura mai pubblicate, ancora oggi testimonianza di un impegno culturale attento che Giovanni ha praticato anche negli anni successivi quando ha collaborato con importanti società nazionali, leader del settore. Ha ideato mostre pittoriche al Palazzo della Vicarìa a Trapani e organizzato svariati eventi culturali con un occhio all’archeologia e a varie forme artistiche.
L’essere stato sempre comunista e l’essere profondamente laico erano impulsi del cuore, convincimenti radicati; aveva alle spalle una lunga militanza nella federazione giovanile del Pci, segretario della sezione “Gramsci” ospitata a Trapani dentro la libreria di Ciccio Avila, in corso Vittorio Emanuele nel cuore del centro storico cittadino. Con il tempo aveva perduto la fiducia nella nuova sinistra e aveva lasciato a malincuore il Pci, mantenendo i solidi insegnamenti del padre Olindo, segretario provinciale del partito molto apprezzato nel mondo politico ma che lo aveva lasciato solo troppo presto. Era rimasta intatta la stima e l’amicizia con Emanuele Macaluso e quella sparuta parte della sinistra nella quale ancora si riconosceva.
Della sua curiosità, alla ricerca delle ragioni dell’altro, ricordo con lieve sorriso le dispute felici che ingaggiava con taluni sacerdoti o con uomini della destra che stimava senza riserve o piaggerie ma che affrontava con uno spirito critico grazie al quale era riuscito a scardinare persino qualche radicato convincimento. Giovanni era un “osso duro” che poggiava il suo pensiero su una personalità decisa ma era magnanimo, generoso e caritatevole più di tanti cattolici sbandieratori di altruismo, coerente con le sue idee, autorevole. E l’autorevolezza del suo pensiero è stata pane per l’Associazione della Stampa regionale e provinciale di cui ha fatto parte per lunghi anni come segretario e poi come vicepresidente regionale, prendendo le parti di colleghi che non avevano tutele contrattuali, portatore degli interessi dei collaboratori dei giornali pagati miseramente e non dei comodi giornalisti (di una volta) saldamente ancorati alle redazioni. È stato tra i primi a sostenere e vincere battaglie importanti per l’applicazione del contratto di lavoro negli uffici stampa pubblici e per il riconoscimento della professione e della contribuzione adeguata nelle televisioni locali.
Cosa dire infine del suo coraggio nell’aver affrontato una battaglia contro il male con cui aveva convissuto lunghi anni come se non lo riguardasse, sicuro che sarebbe stato sempre il più forte. Mi diceva: “Non ci pensiamo. Guardiamo oltre”.
Nell’appassionato viaggio della sua vita, con le figlie Assia e Maria Emanuela sempre accanto, ha toccato tanti porti e tante mete ideali ma, come il poeta Kavafis, amava sentirsi uomo in viaggio animato dal dubbio. Un passo della Didone abbandonata di Metastasio credo che lo rappresenti. Me lo recitava a memoria.
“Se resto sul lido/se sciolgo le vele /infido crudele/mi sento chiamar. /E intanto confuso/nel dubbio funesto/non parto, non resto/ma provo il martire/che avrei nel partire/che avrei nel restare”.
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