L'ultima immagine di Sciascia riflessa nella torta a forma di libro

Cultura | 19 novembre 2019
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«Più che un’ultima frase di Leonardo, ricordo l’ultima immagine di Sciascia». Il ricordo è quello consegnato alla memoria visiva del fotografo Giuseppe Leone. «Il mio ultimo ritratto di Sciascia l’ho scattato a casa sua, a Palermo. Avevo portato con me una torta confezionata da “Di Pasquale”, la sua pasticceria ragusana prediletta. Era una magnifica torta a forma di libro. Inquadrai Leonardo. Ho ancora vivida nella memoria la sua immagine. Era un dettaglio del suo volto: i suoi occhi lucidi di lacrime. Non ci vedemmo più. Cominciò il suo calvario. I problemi di salute si aggravarono. I continui viaggi a Milano. Ogni volta che rivedo quella foto, sento un groppo in gola. Il dolore per un amico che mi manca tremendamente. Manca soprattutto a questa nazione disperata».

Come ricorda il 20 novembre del 1989, quando Sciascia si spense nella sua casa di Palermo?

«Squillò il telefono. Avevo un presentimento. Era Gesualdo Bufalino, la voce rotta dal dolore, mi comunicava che Leonardo era morto. Seguirono lunghi istanti di silenzio. Concordammo di raggiungere insieme Palermo. Fu un viaggio lunghissimo, avvolto in un silenzio irreale. Il cortile della sua casa a Villa Sperlinga era colmo di vetture, stentammo a trovare un parcheggio. Guadagnata mestamente la rampa di scale, mi ritrovai al cospetto del feretro. Ma a colpire la mia attenzione fu il volto triste e incanutito di Marco Pannella».

                Come conobbe l’autore delle “Parrocchie di Regalpetra”?

«Una strana coincidenza. Una di quelle stranezze misteriose che Sciascia amava tanto. La prima volta che incontrai Leonardo Sciascia, fu nella sede della casa editrice Sellerio, in via Siracusa a Palermo. Stavo ultimando l’impaginazione del mio primo libro “La pietra vissuta”. Enzo Sellerio, mi chiese di seguirlo, voleva presentarmi una persona. Trovai Sciascia seduto su un divano mentre fumava l’eterna sigaretta. Ma la cosa che mi colpì, fu la sua immediata domanda. Mi chiese se conoscessi la prefettura di Ragusa. Risposi ingenuamente di sì. Lui rincalzò, divertito, spiegando che il riferimento era alle tempere di Duilio Cambellotti. Pitture che adornavano il palazzo della prefettura. Aveva già in mente un lavoro su una pagina rimossa della storia italiana. Quella sua prima domanda, dopo qualche anno, si trasformò nel nostro ultimo libro: “Invenzioni di una prefettura” edito da Bompiani. A Ragusa, grazie al prefetto Siani, potemmo visitare i saloni. Le pareti erano state foderate, per anni, da teloni scuri che coprivano le pitture di Duilio Cambellotti. Fu dunque un autentico disvelamento. Un libro autenticamente sciasciano. Contraddistinto dalla sua cifra stilistica: la spasmodica ricerca della verità. Anche la verità scomoda, come quella del regime fascista. A rileggerlo, il suo testo è ancora oggi straordinario. Misteriosamente, la prima cosa che mi aveva chiesto, fu l’ultimo libro che abbiamo realizzato. Dopo il primo incontro palermitano, entrammo subito in sintonia. Venne a trovarmi a Ragusa, più volte. Abbiamo percorso la Sicilia in lungo e largo, mostre, convegni, feste di piazza. Ma in tanti anni di amicizia, non sono mai riuscito a dargli del tu. Me lo chiese più volte. Ma non riuscivo, intimidito dal grande rispetto che nutrivo nei suoi confronti. Trovammo dunque un compromesso. Decidemmo che lo avrei chiamato Leonardo, ma sempre dandogli del lei, lui, ogni volta sorrideva divertito. É stato una persona determinante, per la mia carriera e per la mia crescita culturale. Le sue parole, le sue indicazioni, mi hanno aperto orizzonti inesplorati, conferendo metodo al mio lavoro di fotografo. Il nostro primo libro fu “La Contea di Modica”. In quell’occasione, ho avuto modo di conoscere il grande valore dell’uomo e dell’artista.  Quando gli chiesi, intimidito, come procedere, rispose che dovevamo agire in piena autonomia. Io dovevo sviluppare il mio racconto per immagini, lui quello tratteggiato con le sue parole. Una dichiarazione di autonomia che mi spiazzò. Una lezione di civiltà e di rispetto che non dimenticherò mai. Quando Sciascia arrivava a Ragusa, non mancava l’appuntamento a Scicli, nello studio del pittore Piero Guccione. Leonardo lo stimava e lo apprezzava per la sua maestria e per il suo riserbo. Una taciturna discrezione che sembrava accomunarli. La nostra frequentazione culminò in una mostra a Palermo. Esposizione ospitata nei locali della galleria “La Tavolozza” diretta da Vivi Caruso, la moglie del pittore Bruno Caruso. Piero Guccione con i suoi dipinti e io con le mie fotografie, fummo accomunati da un testo in catalogo di Sciascia a dir poco sublime».

Come era nella sua quotidianità Sciascia?

«Con Gesualdo Bufalino andavamo spesso a Racalmuto, in contrada Noce, la residenza estiva di Leonardo. Il rito era sempre lo stesso: Bufalino mi chiamava la sera prima, il mattino successivo mi attendeva in piazza a Comiso. Giunti a Racalmuto era sempre una gran festa. Bufalino e Sciascia avevano la stessa età, gli stessi interessi letterari, la stessa passione per il cinema. Era un tripudio di citazioni, riferimenti, allusioni. Il mio libro “Storia di un’amicizia” è proprio intessuto da queste straordinarie frequentazioni. Un connubio che si è trasformato in uno dei miei libri fotografici più riusciti. Alla Noce era sempre un continuo stupore. Vi si davano raduno personaggi straordinari. É stato quello lo scenario della mia foto più famosa, divenuta presto una sorta di icona. Quella che ritrae Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo. Ad organizzare l’incontro fu un altro grande amico di Leonardo, Aldo Scimè, suo amico d’infanzia, grande giornalista, intellettuale raffinatissimo. Eravamo seduti nella terrazza della casa di campagna e attendevamo l’arrivo di Indro Montanelli. Il mitico giornalista del “Corriere della Sera”, però saltò l’appuntamento. Nell’attesa, i tre giganti della letteratura italiana, si produssero in una conversazione memorabile. Scattai, quasi per caso, una sequenza di foto. I tre rimasero imprigionati nell’obiettivo con una magnifica risata complice che li accomunava. Vicenda umana e artistica irripetibile. Ma quella Racalmuto non l’ho più ritrovata. La magia, era quella che Leonardo era riuscito a tessere: trasformare un luogo eccentrico, lontano da ogni dove, in una sorta di capitale della cultura. Oggi non è più così. Racalmuto è tornata a essere un luogo provinciale e marginale. Lo dimostrano le inutili dispute sulle sorti della fondazione Sciascia. Questo trentennale così frammentato, disorganico e sciatto, segna il tempo in cui viviamo. Testimonia la pochezza della cultura siciliana. Un’Isola che era popolata da giganti della cultura e grandi artisti, ha ormai relegato la cultura in un angolo. Sciascia è una delle poche cose delle quali la Sicilia non deve vergognarsi e invece, sembra quasi ci si vergogni a ricordarlo. Perché è ancora un personaggio scomodo. Si vede che il suo ricordo, i suoi libri, scomodano ancora le coscienze».

                Il tratto caratteristico di Sciascia era una nota di fondo malinconica e disincantata?

«Occorre sfatare questo mito, Sciascia non era affatto triste e malinconico. Al contrario, era di un’estrema simpatia e giovialità, con un grande senso dell’umorismo. Capace di gesti goliardici incredibili. Come quella volta a Siracusa, quando a pranzo ci ritrovammo seduti in tredici. Ricordo il volto smarrito della regista Lina Wertmüller e dello scrittore Sebastiano Adamo. Sciascia pretese si aggiungesse un tavolo perché il numero tredici portava sfortuna. In privato raccontava storie divertentissime, sugellandole con la sua risata discreta. L’episodio più formidabile è quello di un convegno palermitano. Prima dell’inizio finse un improvviso malore. Un escamotage per evitare di sedere al fianco di una personalità politica che lo infastidiva. Era però anche un uomo duro, inflessibile. Non perdonava. Si legava indissolubilmente al dito una malefatta. Come la fine di una grande amicizia, quella con il pittore Renato Guttuso. Un episodio che mi raccontò con grande amarezza. Mi confidò quanto gli pesasse il grande dolore per la fine di quel grande sodalizio artistico. Non accettò mai più di incontrarlo. Sciascia era un uomo generosissimo. Ricordo una finta lite furibonda in una trattoria di Roma, nei pressi del Parlamento. Al cospetto di un attonito Lino Jannuzzi. La disputa era quella sul chi dovesse regolare il conto. Alla fine Sciascia sbottò battendo il pugno sul tavolo: “Basta, con Peppino non si può”. E giù risate a crepapelle. Una figura poco indagata della sua quotidianità è stata la moglie Maria. Era la sua prima lettrice, stava sempre un passo indietro ma era sempre presente con discrezione. Una volta le chiesi copia di un testo che Leonardo mi aveva inviato. Lei rispose che non esistevano bozze del marito. Quando lui batteva su tasti della sua Olivetti, procedeva senza appunti, aveva già tutto in mente. I suoi testi, quando aprivo le buste che mi recapitava, presentavano solo un grande lavorio, quello legato alla punteggiatura, la sua ossessione, il suo rovello, la sua fissazione stilistica».

Nostalgia per questo carosello di ritratti che affollano le pareti del suo studio?

«Osservo ormai rassegnato queste immagini.  In tutti questi anni, sembrava di stare in trincea. Ogni tanto giungeva notizia della scomparsa di persone care. A mano a mano, questi ritratti hanno dato vita a una sorta di cimitero privato. Tutti i miei più cari amici sono ormai scomparsi. E io continuo a chiedermi: quantu pozzu campari?»

 Giuseppe Leone, scoppia in una fragorosa risata sciasciana.

 di Concetto Prestifilippo

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