L'ultima immagine di Sciascia riflessa nella torta a forma di libro
«Più che un’ultima frase di Leonardo, ricordo l’ultima immagine di
Sciascia». Il ricordo è quello consegnato alla memoria visiva del fotografo
Giuseppe Leone. «Il mio ultimo ritratto di Sciascia l’ho scattato a casa sua, a
Palermo. Avevo portato con me una torta confezionata da “Di Pasquale”, la sua
pasticceria ragusana prediletta. Era una magnifica torta a forma di libro.
Inquadrai Leonardo. Ho ancora vivida nella memoria la sua immagine. Era un
dettaglio del suo volto: i suoi occhi lucidi di lacrime. Non ci vedemmo più.
Cominciò il suo calvario. I problemi di salute si aggravarono. I continui viaggi
a Milano. Ogni volta che rivedo quella foto, sento un groppo in gola. Il dolore
per un amico che mi manca tremendamente. Manca soprattutto a questa nazione
disperata».
Come
ricorda il 20 novembre del 1989, quando Sciascia si spense nella sua casa di
Palermo?
«Squillò il telefono. Avevo un presentimento. Era Gesualdo
Bufalino, la voce rotta dal dolore, mi comunicava che Leonardo era morto.
Seguirono lunghi istanti di silenzio. Concordammo di raggiungere insieme
Palermo. Fu un viaggio lunghissimo, avvolto in un silenzio irreale. Il cortile
della sua casa a Villa Sperlinga era colmo di vetture, stentammo a trovare un
parcheggio. Guadagnata mestamente la rampa di scale, mi ritrovai al cospetto
del feretro. Ma a colpire la mia attenzione fu il volto triste e incanutito di
Marco Pannella».
Come conobbe l’autore delle “Parrocchie di
Regalpetra”?
«Una strana coincidenza. Una di quelle stranezze misteriose che
Sciascia amava tanto. La prima volta che incontrai Leonardo Sciascia, fu nella
sede della casa editrice Sellerio, in via Siracusa a Palermo. Stavo ultimando
l’impaginazione del mio primo libro “La pietra vissuta”. Enzo Sellerio, mi
chiese di seguirlo, voleva presentarmi una persona. Trovai Sciascia seduto su
un divano mentre fumava l’eterna sigaretta. Ma la cosa che mi colpì, fu la sua
immediata domanda. Mi chiese se conoscessi la prefettura di Ragusa. Risposi ingenuamente
di sì. Lui rincalzò, divertito, spiegando che il riferimento era alle tempere
di Duilio Cambellotti. Pitture che adornavano il palazzo della prefettura.
Aveva già in mente un lavoro su una pagina rimossa della storia italiana. Quella
sua prima domanda, dopo qualche anno, si trasformò nel nostro ultimo libro: “Invenzioni
di una prefettura” edito da Bompiani. A Ragusa, grazie al prefetto Siani,
potemmo visitare i saloni. Le pareti erano state foderate, per anni, da teloni
scuri che coprivano le pitture di Duilio Cambellotti. Fu dunque un autentico disvelamento.
Un libro autenticamente sciasciano. Contraddistinto dalla sua cifra stilistica:
la spasmodica ricerca della verità. Anche la verità scomoda, come quella del
regime fascista. A rileggerlo, il suo testo è ancora oggi straordinario. Misteriosamente,
la prima cosa che mi aveva chiesto, fu l’ultimo libro che abbiamo realizzato. Dopo
il primo incontro palermitano, entrammo subito in sintonia. Venne a trovarmi a Ragusa,
più volte. Abbiamo percorso la Sicilia in lungo e largo, mostre, convegni,
feste di piazza. Ma in tanti anni di amicizia, non sono mai riuscito a dargli
del tu. Me lo chiese più volte. Ma non riuscivo, intimidito dal grande rispetto
che nutrivo nei suoi confronti. Trovammo dunque un compromesso. Decidemmo che
lo avrei chiamato Leonardo, ma sempre dandogli del lei, lui, ogni volta
sorrideva divertito. É stato una persona determinante, per la mia carriera e per
la mia crescita culturale. Le sue parole, le sue indicazioni, mi hanno aperto
orizzonti inesplorati, conferendo metodo al mio lavoro di fotografo. Il nostro
primo libro fu “La Contea di Modica”. In quell’occasione, ho avuto modo di
conoscere il grande valore dell’uomo e dell’artista. Quando gli chiesi, intimidito, come
procedere, rispose che dovevamo agire in piena autonomia. Io dovevo sviluppare
il mio racconto per immagini, lui quello tratteggiato con le sue parole. Una
dichiarazione di autonomia che mi spiazzò. Una lezione di civiltà e di rispetto
che non dimenticherò mai. Quando Sciascia arrivava a Ragusa, non mancava
l’appuntamento a Scicli, nello studio del pittore Piero Guccione. Leonardo lo
stimava e lo apprezzava per la sua maestria e per il suo riserbo. Una taciturna
discrezione che sembrava accomunarli. La nostra frequentazione culminò in una
mostra a Palermo. Esposizione ospitata nei locali della galleria “La Tavolozza”
diretta da Vivi Caruso, la moglie del pittore Bruno Caruso. Piero Guccione con
i suoi dipinti e io con le mie fotografie, fummo accomunati da un testo in
catalogo di Sciascia a dir poco sublime».
Come era nella sua quotidianità Sciascia?
«Con Gesualdo Bufalino andavamo spesso a Racalmuto, in
contrada Noce, la residenza estiva di Leonardo. Il rito era sempre lo stesso: Bufalino
mi chiamava la sera prima, il mattino successivo mi attendeva in piazza a
Comiso. Giunti a Racalmuto era sempre una gran festa. Bufalino e Sciascia
avevano la stessa età, gli stessi interessi letterari, la stessa passione per
il cinema. Era un tripudio di citazioni, riferimenti, allusioni. Il mio libro “Storia
di un’amicizia” è proprio intessuto da queste straordinarie frequentazioni. Un
connubio che si è trasformato in uno dei miei libri fotografici più riusciti.
Alla Noce era sempre un continuo stupore. Vi si davano raduno personaggi
straordinari. É stato quello lo scenario della mia foto più famosa, divenuta
presto una sorta di icona. Quella che ritrae Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino
e Vincenzo Consolo. Ad organizzare l’incontro fu un altro grande amico di
Leonardo, Aldo Scimè, suo amico d’infanzia, grande giornalista, intellettuale
raffinatissimo. Eravamo seduti nella terrazza della casa di campagna e
attendevamo l’arrivo di Indro Montanelli. Il mitico giornalista del “Corriere della
Sera”, però saltò l’appuntamento. Nell’attesa, i tre giganti della letteratura
italiana, si produssero in una conversazione memorabile. Scattai, quasi per
caso, una sequenza di foto. I tre rimasero imprigionati nell’obiettivo con una
magnifica risata complice che li accomunava. Vicenda umana e artistica irripetibile.
Ma quella Racalmuto non l’ho più ritrovata. La magia, era quella che Leonardo
era riuscito a tessere: trasformare un luogo eccentrico, lontano da ogni dove,
in una sorta di capitale della cultura. Oggi non è più così. Racalmuto è
tornata a essere un luogo provinciale e marginale. Lo dimostrano le inutili
dispute sulle sorti della fondazione Sciascia. Questo trentennale così
frammentato, disorganico e sciatto, segna il tempo in cui viviamo. Testimonia
la pochezza della cultura siciliana. Un’Isola che era popolata da giganti della
cultura e grandi artisti, ha ormai relegato la cultura in un angolo. Sciascia è
una delle poche cose delle quali la Sicilia non deve vergognarsi e invece,
sembra quasi ci si vergogni a ricordarlo. Perché è ancora un personaggio
scomodo. Si vede che il suo ricordo, i suoi libri, scomodano ancora le
coscienze».
Il tratto caratteristico di Sciascia era
una nota di fondo malinconica e disincantata?
«Occorre sfatare questo mito, Sciascia non era affatto triste
e malinconico. Al contrario, era di un’estrema simpatia e giovialità, con un
grande senso dell’umorismo. Capace di gesti goliardici incredibili. Come quella
volta a Siracusa, quando a pranzo ci ritrovammo seduti in tredici. Ricordo il
volto smarrito della regista Lina Wertmüller e dello scrittore Sebastiano
Adamo. Sciascia pretese si aggiungesse un tavolo perché il numero tredici
portava sfortuna. In privato raccontava storie divertentissime, sugellandole
con la sua risata discreta. L’episodio più formidabile è quello di un convegno
palermitano. Prima dell’inizio finse un improvviso malore. Un escamotage per
evitare di sedere al fianco di una personalità politica che lo infastidiva. Era
però anche un uomo duro, inflessibile. Non perdonava. Si legava
indissolubilmente al dito una malefatta. Come la fine di una grande amicizia,
quella con il pittore Renato Guttuso. Un episodio che mi raccontò con grande amarezza.
Mi confidò quanto gli pesasse il grande dolore per la fine di quel grande
sodalizio artistico. Non accettò mai più di incontrarlo. Sciascia era un uomo
generosissimo. Ricordo una finta lite furibonda in una trattoria di Roma, nei
pressi del Parlamento. Al cospetto di un attonito Lino Jannuzzi. La disputa era
quella sul chi dovesse regolare il conto. Alla fine Sciascia sbottò battendo il
pugno sul tavolo: “Basta, con Peppino non si può”. E giù risate a crepapelle. Una
figura poco indagata della sua quotidianità è stata la moglie Maria. Era la sua
prima lettrice, stava sempre un passo indietro ma era sempre presente con
discrezione. Una volta le chiesi copia di un testo che Leonardo mi aveva
inviato. Lei rispose che non esistevano bozze del marito. Quando lui batteva su
tasti della sua Olivetti, procedeva senza appunti, aveva già tutto in mente. I
suoi testi, quando aprivo le buste che mi recapitava, presentavano solo un
grande lavorio, quello legato alla punteggiatura, la sua ossessione, il suo
rovello, la sua fissazione stilistica».
Nostalgia per questo carosello di ritratti che affollano le pareti del
suo studio?
«Osservo ormai rassegnato queste immagini. In tutti questi anni, sembrava di stare in
trincea. Ogni tanto giungeva notizia della scomparsa di persone care. A mano a
mano, questi ritratti hanno dato vita a una sorta di cimitero privato. Tutti i
miei più cari amici sono ormai scomparsi. E io continuo a chiedermi: quantu
pozzu campari?»
Giuseppe Leone, scoppia in una fragorosa risata sciasciana.
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