L’Onu ha ammonito l’Italia per non avere fatto abbastanza per ridurre la violenza di genere. I dati sono impressionanti. Bene le leggi per contrastare il fenomeno, per prevenirlo ci vogliono investimenti, a partire dall’educazione di genere nelle scuole. E più uguaglianza nel mercato del lavoro.
Obiettivo 2030
Il 25 novembre è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza
contro le donne. Le Nazioni Unite hanno lanciato l’iniziativa Orange the
World – coloriamo il mondo di arancione – per sensibilizzare l’opinione
pubblica sul tema della prevenzione della violenza sulle donne e sulle ragazze.
Uno degli obiettivi per il 2030 dell’Agenda per uno sviluppo sostenibile è di
sradicarla completamente. La violenza di genere, che culmina nel femminicidio, è
stata definita dall’Onu un crimine di stato e una forma di violazione dei
diritti umani, ed è stata ribadita l’urgenza per i governi di prevenire,
proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di
discriminazioni e di violenza nel corso della loro esistenza.
Quanto
“arancione” è l’Italia? Ancora qualche mese fa, nel giugno 2015, l’Italia ha
ricevuto un richiamo dall’Onu per non avere fatto abbastanza per ridurre la
violenza di genere.
Quei numeri impressionanti
I recenti dati
Istat mostrano una realtà impressionante: in Italia 6 milioni 788mila donne
hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o
sessuale.
Significa più di una donna su tre di età compresa tra i 16 e i 70
anni, un dato in linea con quello medio dell’Europa a 28 secondo un rapporto del
Fra, l’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali. Sono
652mila le donne che hanno subìto stupri e 746mila le vittime di tentati stupri.
Se il dato medio delle donne che ha subito violenza non è diverso tra donne
straniere e italiane, una differenza notevole emerge per le donne separate o
divorziate, che hanno subìto violenze fisiche o sessuali in misura maggiore
rispetto alle altre (51,4 per cento contro 31,5 per cento), e per le donne in
condizione di disabilità.
I dati Istat riportano tuttavia un trend
decrescente rispetto ai numeri registrati nel quinquennio precedente: il
miglioramento è in parte frutto di nuove leggi e di nuove politiche, di una
maggiore informazione, del lavoro sul campo; in parte (o soprattutto) di una
migliore capacità delle donne di reagire a situazioni di rischio.
Come combattere la violenza sulle donne
La legge 119/2013 ha contribuito a contrastare la violenza, accelerando i
percorsi giudiziari, dando tempi più certi per procedimenti e processi e
sostenendo i centri anti-violenza e le case rifugio. Il Jobs Act ha introdotto
il congedo per le donne vittime di violenza di genere, riconoscendo
esplicitamente anche la perdita economica diretta che la donna subisce in caso
di violenza.
Ma per prevenire la violenza ci vogliono investimenti di lungo
periodo che passino attraverso l’educazione di genere nelle scuole,
l’eliminazione dai media di immagini offensive delle donne, nonché politiche che
promuovano l’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro e riequilibrino il
potere contrattuale dei partner all’interno della coppia. Non dimentichiamo
infatti che sono i partner, attuali o precedenti, a compiere le violenze più
gravi sulle donne.
Come discusso nell’articolo di Daniela Piazzalunga e Giuseppe
Sorrenti, c’è evidenza empirica che la riduzione della violenza sulle donne
passa anche attraverso meccanismi puramente economici: quando l’autonomia
femminile si rafforza e le disuguaglianze di genere si riducono, il rischio per
le donne di subire violenza diminuisce. Perché la disuguaglianza di genere è,
per dirla con l’Onu, la “root cause” della violenza e per eliminare
quest’ultima, dobbiamo anche ridurre la prima. (Info.lavoce)