L'intreccio tra mafia e impresa che dilania la Sicilia

Economia | 25 febbraio 2016
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La più grande azienda di costruzioni  della Sicilia, fino  a qualche mese  additata ad esempio di trasparenza e legalità, coinvolta prima nell’inchiesta sulla corruzione all’ANAS ed ora accusata di essere a disposizione della famiglia mafiosa dominante a Catania. Si tratta di un’altra tessera dell’inquietante vicenda del rapporto tra mafia ed  e un certo tipo di autoproclamata “antimafia?  Si intravedono, risalendo lungo i rami delle  complicate storie di quelle imprese, i legami con il passato dei “cavalieri del lavoro”? In  ogni caso è il sintomo di quante contraddizioni celi la vicenda economica siciliana.  Saranno il tempo e i differenti gradi del processo a fornire le risposte sul terreno giudiziario, ma certamente siamo a confrontarci con una serie di domande riguardanti le caratteristiche dell’impresa nella nostra regione, gli intrecci non sempre trasparenti che alcune aziende mantengono con i grandi enti di spesa, il sistema di relazioni con la politica. Per quanto è dato capire dai media, una società che ha conosciuto un’espansione assai notevole nel corso degli ultimi anni- e che era nata dalla fusione di due diversi gruppi imprenditoriali- sarebbe passata dalla condizione di “estorta” a quella di complice dell’organizzazione mafiosa. Può esserci all’origine di tale involuzione la crisi finanziaria provocata dall’eccessiva espansione del perimetro di intervento di un’azienda cresciuta troppo in fretta? Se così fosse, si confermerebbe l’ipotesi di una “cosa nostra” indebolita sul piano militare, ma ormai lanciata sul terreno della conquista di un ruolo “economico” e perciò trasformata in una sorta di holding finanziaria. Se quest’abbozzo di analisi è fondato, occorrerà ragionare con attenzione su quanto è avvenuto in questi anni di crisi profonda sul terreno della trasformazione delle grandi organizzazioni criminali in una sorta di holding finanziarie e di quanto ciò abbia influito  nei rapporti con il sistema economico formalmente legale. Finora questi fenomeni erano emersi in settori come la grande distribuzione o in comparti innovativi in cui era decisivo il ruolo della pubblica amministrazione come soggetto autorizzativo, come nel caso dell’energia eolica. Il fatto che un’impresa di costruzioni di dimensione nazionale venga coinvolta in una simile inchiesta richiama comunque  alla memoria gli anni Novanta dello scorso millennio e, in particolare, l’esperienza criminale del “tavolino”.  Uno degli investigatori ha parlato di “demoni sotto le vesti di angeli”, definizione agghiacciante, se troverà riscontro nelle sentenze dei magistrati giudicanti. Essa ci obbliga ad ipotizzare una costante opera di depistaggio  da parte d imprenditori che avrebbero celato il peggio delle compromissioni sotto le mentite spoglie dell’impegno antimafioso. E’ davvero una triste stagione, questa, per chi in Sicilia ha creduto alla sincerità dell’impegno per la legalità di una serie di personalità assurte a ruoli di grande visibilità nella vita pubblica dell’isola.  Se si riflette su quanto è avvenuto, sarà facile accorgersi che il discrimine è costituito dalla concorrenza priva di regole per il controllo delle risorse pubbliche oppure dai tentativi di utilizzare in modo distorto i beni e le imprese sequestrate e confiscate alle famiglie mafiose: quasi tutte le vicende più inquietanti degli ultimi mesi si sono svolte  lungo uno o l’altro  crinale.  Se quest’analisi è giusta, stiamo di nuovo assistendo ad un tòpos del rapporto tra un certo tipo di economia, settori della politica  e la pressione criminale mafiosa, fondato sul tentativo di alcuni gruppi di potere di impadronirsi del controllo dei rubinetti erogatori la spesa pubblica (non più regionale per le condizioni di disastro in cui versa la finanza regionale, ma nazionale ed europea) utilizzando  il power syndicate (cioè il radicamento territoriale) della  mafia come “garanzia assicurativa”,  quando non come socio occulto. Aveva ragione “Alleanze nell’ombra” (2011) un libro che bisogna rileggere alla luce dei fatti recenti, quando affermava che “le reti mafiose rappresentano … una forma di capitale sociale che risulta preziosa per altri attori che occupano una qualche posizione di potere nell’ambito dell’organizzazione sociale ”. Quest’area grigia è ancor oggi la principale responsabile dello spreco di risorse che impedisce alla Sicilia di liberarsi dalle sue catene e di realizzare una svolta reale che la politica- sempre più chiusa nelle sue logiche - non appare in condizione di determinare. Valga come controprova che tutte le ricerche sull’economia siciliana mettono in rilievo come la pur debole crescita si stia verificando esclusivamente nei settori che non dipendono dall’erogazione di risorse pubbliche. Mi convinco sempre più dell’esistenza di due Sicilie: una coraggiosa che, nonostante tutto, si ingegna a trarsi fuori dalla profonda crisi dell’ultimo decennio, l’altra che si illude di continuare un andazzo che ha già prodotto troppi disastri. Scrivo mentre l’ARS discute confusamente la controversa legge di stabilità regionale. Non vedo segni di novità; ma avremo modo di riparlarne.

 di Franco Garufi

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