La sentenza del Consiglio di Stato sulla trascrizione dei matrimoni tra coppie delle stesso sesso straccia due principi giuridici: la competenza esclusiva del potere giudiziario nel settore dello stato civile e la piena dignità costituzionale delle coppie omosessuali. La lunga attesa di una legge.
La sentenza del Consiglio di Stato
Nello scrivere che “i giudici, per goder la fiducia del popolo, non basta che
siano giusti, ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali”,
Piero Calamandrei traduceva un principio che oggi possiamo considerare
consolidato e condiviso da tutti gli ordinamenti civili e dal diritto
internazionale. Che dire allora di quel giudice che, ammesso a giudicare una
controversia in materia di diritti fondamentali, abbia in precedenza,
notoriamente e a lungo, sostenuto pubblicamente l’inaccettabilità di quegli
stessi diritti, in virtù di pregiudizi e presunzioni che per secoli hanno tenuto
una minoranza all’ombra del diritto e della legge?
Il caso non può purtroppo
definirsi di scuola: è, invece, quello affrontato dal Consiglio di Stato nella
sentenza del 26 ottobre, riguardante la legittimità della circolare del ministro
dell’Interno Angelino Alfano del 7 ottobre 2014.
La circolare, previa
intimazione formale diretta ai sindaci interessati, ordinava ai prefetti di
cancellare le trascrizioni dei matrimoni celebrati all’estero tra coppie di
persone dello stesso sesso. Una brutale invasione di campo, dal momento che il
nostro sistema di stato civile prevede, a tutela delle persone di cui si tratta,
che solo l’autorità giudiziaria, su impulso del pubblico ministero e perciò in
contraddittorio con gli interessati, possa provvedere a eventuali correzioni e
cancellazioni.
Stato civile e diritti costituzionali
Quanto l’esclusiva competenza del potere giudiziario nel settore dello stato
civile sia importante lo sapeva bene Calamandrei, che ha vissuto parte della
propria vita in un’epoca in cui a una minoranza – questa volta religiosa, etnica
e razziale – veniva negato d’emblée il diritto al matrimonio. Mi
riferisco alle leggi razziali del 1938, rispetto alle quali neppure il regime
fascista si era mai sognato di scavalcare i giudici nelle loro funzioni di
controllo della correttezza dei registri dello stato civile, tant’è vero che con
una circolare del 22 dicembre 1938 il ministro dell’Interno dell’epoca aveva
stabilito che la nullità dei matrimoni “misti”, contratti dunque in violazione
delle leggi razziali e magari trascritti da qualche ufficiale dello stato civile
distratto o desideroso di farla in barba al regime, avrebbe dovuto essere fatta
valere, “anche d’ufficio, dal pubblico ministero”, dunque da un magistrato
destinato poi a confrontarsi con un altro magistrato: il giudice, appunto.
Ma
la controversia sulle trascrizioni matrimoniali porta con sé anche un secondo e
distinto tema, pure d’importanza essenziale. Le coppie omosessuali oggi non sono
– o, con buona pace di qualcuno, non sono più – fuori dal diritto. Hanno,
invece, piena dignità costituzionale.
Ce l’ha detto più volte la Corte
costituzionale: tali coppie esercitano “il diritto fondamentale di vivere
liberamente la loro condizione di coppia”. Ce l’ha ripetuto la Corte di
cassazione, affermando che i matrimoni contratti dalle coppie omosessuali
all’estero non sono “inesistenti”, cioè socialmente irriconoscibili, bensì, in
quanto espressione di una libertà costituzionale, solamente “inidonei a
produrre, quali atti di matrimonio appunto, qualsiasi effetto giuridico
nell’ordinamento italiano”. E ce l’ha ricordato da ultimo la Corte europea dei
diritti umani, che con la sentenza del 21 luglio 2015 (divenuta definitiva il 21
ottobre scorso) ha condannato l’Italia per violazione dei suoi obblighi
internazionali proprio per l’assenza di una disciplina che riconosca e protegga
le unioni omosessuali.
Il Consiglio di Stato fa scempio di entrambi questi
principi. Del primo, attribuendo ai prefetti il potere di cancellare le
trascrizioni disposte dai sindaci. E del secondo, ignorando completamente almeno
una generazione di giurisprudenza sovranazionale e una buona dozzina di sentenze
di giudici di merito e legittimità che hanno chiarito una volta per tutte che le
coppie gay e lesbiche, nell’attesa ormai spasmodica di un intervento del
parlamento, godono del diritto fondamentale al rispetto della loro vita privata
e familiare.
Peraltro, mai le coppie ricorrenti avevano chiesto ai sindaci di
tradurre in diritto positivo i loro matrimoni celebrati all’estero, come invece
sembra intendere il Consiglio di Stato. Tutto ciò che esigevano è la produzione
di un certificato di matrimonio valido in Italia, che fornisse la prova
dell’avvenuto matrimonio all’estero, non con effetti sostanziali ma di mera
certificazione. Tale documento è l’unico appiglio giuridico di queste coppie per
uscire da quella condizione di indifferenza e di incertezza giuridica ormai del
tutto incompatibile con i diritti fondamentali della persona.
Invece, per il
Consiglio di Stato il matrimonio tra persone dello stesso sesso è – di nuovo –
“inesistente”, in quanto contrario “all’ordine naturale costantemente inteso e
tradotto nel diritto positivo”. Affermazione curiosa e sorprendente, soprattutto
per la sua incompatibilità con i principi fondamentali del nostro ordinamento
(quale ordine naturale?) e con quelli genuinamente espressi dalla giurisprudenza
degli ultimi cinque anni. (info.lavoce)