L'informazione al tempo del Coronavirus, cosa non ha funzionato

Società | 4 marzo 2020
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Lo IAI (Istituto Affari Internazionali) è uno dei più prestigiosi think tank italiani. Su “Affari internazionali”, il bollettino online dello IAI, lo scorso 27 febbraio è stato pubblicato un articolo a firma di Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto, dal titolo “Italia: la gestione dell’emergenza. Sul coronavirus impreparati, nonostante le esperienze”. Perché quel titolo così netto e a cosa si riferisce Nones a proposito di “esperienze”? Presto detto: “Tredici anni or sono lo IAI effettuava, assieme ad un gruppo di esperti, una ricerca per conto del Centro militare di studi strategici del Ministero della Difesa (CeMiSS) su “La minaccia Nbcr: potenziali rischi e risposte”. Fra le esperienze internazionali esaminate vi erano alcuni attentati terroristici, ma soprattutto, la Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome), l’influenza provocata da un coronavirus che dal novembre 2002 al luglio 2003 provocò 8098 contagi e 774 morti, soprattutto in Cina, sud-est asiatico e Canada. La ricerca avanzava numerose proposte per preparare meglio il nostro Paese di fronte a questo tipo di emergenza sul piano politico, istituzionale, operativo ma anche in merito all’informazione per l’opinione pubblica. Gli eventi di questi giorni dimostrano quanto sarebbe stato utile adottare alcune misure che in questa circostanza risulterebbero efficaci”.

Precisato per i non addetti ai lavori che per emergenze e/o minacce Nbcr si intende nel linguaggio militare un attacco portato con armi nucleari o batteriologiche o chimiche o radioattive (o combinato di più d’uno di questi strumenti tanto letali quanto criminali ed immorali) cerchiamo di capire come e perché quella ricerca di tredici anni fa – se si fosse tenuto conto in queste settimane delle sue indicazioni – avrebbe potuto aiutarci nel contrasto alla severa emergenza Covid-19.

Prosegue Nones: “Scrivevamo nel 2007: “Le lezioni apprese durante le numerose emergenze Nbcr sono molteplici, ma quella più importante è la necessità di pianificazione preventiva a tutti i livelli, secondo il motto del gestore del rischio: Aspetta il peggio, pianifica per il peggio, spera per il meglio. In particolare, si legge nel volume, occorre organizzare l’individuazione precisa dei responsabili della comunicazione e l’allestimento di appositi piani comunicativi (comunicare, comunicare, comunicare). Il rischio di panico generalizzato potrebbe, infatti, limitare l’efficacia di ogni intervento, aggiungendo ulteriori problemi e coinvolgendo potenzialmente anche gli addetti.

Un’emergenza Nbcr sarebbe caratterizzata sia dalla scarsa conoscenza delle caratteristiche tecniche del rischio da parte della popolazione, sia dalla paura intrinsecamente legata a una minaccia non visibile e dalla quale è obiettivamente più difficile difendersi. Molto dipenderebbe, quindi, da come verrebbe gestita la diffusione delle operazioni. Di particolare importanza sarebbe la ricerca di un punto di equilibrio fra un’informazione capillare, necessaria per limitare il contagio e individuare eventuali contagiati sfuggiti alla “cinturazione”, e un’informazione limitata e riduttiva per non generare allarmismo”.

Ecco il punto. Il disastro Covid-19 in Italia ha avuto due talloni di Achille: a) il solito caos e rimpallo di competenze tra i livelli amministrativi (in particolare tra Stato e Regioni) con approcci spesso divergenti se non conflittuali in particolare nei giorni iniziali della diffusione dell’epidemia; b) la gestione dell’informazione. Ogni trasmissione televisiva anche di intrattenimento, ogni talk show, ogni giornale, ogni blog, ogni social si è improvvisato supercompetente e superspecializzato in materia e nello sparare notizie che talvolta hanno finito per alimentare la psicosi che ha portato il paese in stallo. In una seconda fase siamo passati poi dall’allarmismo parossistico alla minimizzazione. Negli ultimi giorni dei deceduti non si sa più nulla più tranne la conta e (solo se sono molto avanti negli anni) l’indicazione dell’età. Ma in quanto persone non meriterebbero ben altra considerazione, ben altro rispetto di una fredda contabilizzazione statistica? Perché questo indirizzo informativo? Semplice. Per non allarmare ulteriormente una popolazione che si sta rivelando piuttosto vulnerabile quanto a psicosi di massa da coronavirus. E per non turbare i “mercati finanziari”, vera divinità del nostro tempo.

Sia chiaro. Non è una passeggiata di salute gestire in modo ottimale l’informazione quando il numero dei contagi e dei decessi si moltiplica esponenzialmente ogni ventiquattro ore come da diversi giorni a questa parte. Così come è indubbio che Covid-19 ha terremotato le nostre sicurezze al pari delle nostre abitudini facendoci piombare in una sospensione dell’agire singolo e collettivo, in una autosegregazione seguita dall’immancabile “non si sa mai…” anche in aree lontane dai focolai. Siamo passati dal “tutti casa e chiesa” di un tempo lontano a “tutti casa”. Non si sa mai… Le vie di città e paesi sono sempre più deserte.

Osserva Nones a proposito di informazione per affrontare una emergenza di questo genere, anche sulla base delle indicazioni della ricerca del 2007: “Già su questo piano è evidente che l’informazione andrebbe comunque gestita e controllata. In un paese democratico, questo è uno dei punti più delicati, sia perché potrebbe incidere sulla libertà di informazione che è uno dei cardini del nostro sistema politico e sociale, sia perché in una società “mediatica” come la nostra gli strumenti di informazione sono molteplici e variegati (televisioni, radio, sms, internet, social media).

In quest’ottica, la risposta dovrebbe probabilmente muoversi in più direzioni: i responsabili dovrebbero essere preparati a gestire con grande cautela la politica dell’informazione; a livello di rapporti con i mass-media, una soluzione potrebbe essere cercata nel coinvolgere direttori e giornalisti nella messa a punto di un codice di condotta volontario per la gestione delle informazioni nel caso di una emergenza Nbcr. La soluzione migliore sarebbe quella di far designare in ogni ente interessato un portavoce e farlo preparare adeguatamente, in modo che abbia un profilo tecnico ottimale e una riconosciuta autorevolezza, con un esplicito divieto di intervento a chiunque altro, compresi i suoi superiori” “.

Nella emergenza sanitaria in corso altri nodi critici si sono rivelati il coordinamento tra autorità centrali e locali, le attività sociali o sportive con presenza di centinaia o migliaia di persone, l’impatto sulle azienda, il ruolo dei medici, il ruolo degli ospedali.

“Sul piano interno sono stati adottati provvedimenti restrittivi da parte di autorità locali, in modo difforme rispetto alle indicazioni delle autorità centrali e differenziato a livello geografico, coinvolgendo servizi pubblici, attività scolastiche, iniziative sportive. In questo quadro caotico, molte imprese, anche se localizzate in aree non coinvolte, hanno sospeso riunioni e trasferte. La rete dei medici di base, non adeguatamente preparata e coinvolta, non ha potuto filtrare i pazienti, aumentando il rischio che gli ospedali, invece che presidio contro il diffondersi del virus, ne possano diventare essi stessi un potente motore.

Nel nostro studio, a proposito della Sars - ricorda il vicepresidente dello IAI – segnalavamo che “di tutti gli infettati, il 21 per cento lavorava nel campo della sanità. Basti pensare al caso della provincia canadese dell’Ontario, dove il 72 per cento delle persone contagiate dalla Sars contrassero il virus in una struttura sanitaria (il 45 per cento era rappresentato da medici e infermieri; il restante da pazienti e visitatori). Inoltre, un’ampia parte del personale sanitario dovette essere sottoposto a misure di quarantena, aggravando perciò le condizioni lavorative dei “superstiti” e peggiorando il servizio prestato alla cittadinanza (tre ospedali di Toronto furono costretti a sospendere temporaneamente il ricovero dei malati)””.

Se è vero che i nodi critici che abbiamo in precedenza elencato sono quelli che lo IAI definisce “effetti collaterali della attuale emergenza sanitaria”, è invece il ruolo dell’informazione che si è rivelato, per restare al linguaggio medico, una specie di “focolaio” che ha innescato mille altri vulnus. Con un effetto domino che dentro e fuori i confini nazionali ha comportato conseguenze sempre più catastrofiche e danni crescenti.

“La mancanza di un’efficace politica dell’informazione – conclude Nones – si è vista nell’ingiustificabile accaparramento di prodotti alimentari e di presidi sanitari, ma anche, ed è molto più grave, nel mercato borsistico e finanziario, sia da parte degli investitori italiani che stranieri. Altra disastrosa conseguenza si è avuta nel settore turistico, coinvolgendo anche aree lontane dai focolai come l’Italia centrale e meridionale.

Sul piano internazionale gli effetti negativi sono appena iniziati. Il respingimento di cittadini italiani da parte di altri Paesi è l’inevitabile conseguenza del nostro allarmismo interno e dell’applicazione di quella chiusura dei confini che alcuni vorrebbero mettere in atto in Italia, solo che in questo caso ne saremmo noi le vittime. A parte i turisti italiani, queste misure potrebbero colpire il personale delle reti commerciali e i tecnici che garantiscono supporto ed assistenza ai clienti delle imprese italiane o che sono impegnati nelle numerose commesse acquisite all’estero per la realizzazione di impianti e grandi opere, con un danno economico che è oggi impossibile quantificare.

Solo una parte di tutto ciò era inevitabile, ma la gestione della politica dell’informazione da parte delle autorità ha contribuito ad estenderne la dimensione. Quando ne verremo fuori sarebbe auspicabile che anche su questo aspetto si aprisse una approfondita riflessione e ci si preparasse meglio ad affrontare queste emergenze”.

Purtroppo però siamo lontani dal venirne fuori e l’Italia – sempre debole sul piano politico, istituzionale, finanziario più che sanitario - annaspa nella lotta contro il Covid-19 e contro le sue micidiali conseguenze sul sistema economico nazionale. Al momento fermo, deserto, “chiuso per epidemia”. Dai voli al turismo, dalla produzione alla ricettività, dalla ristorazione ai musei. La gente si è rintanata in casa perché a casa si sente più sicura e perché in questa direzione viene consigliata dalle autorità sanitarie. E’ preoccupata, frastornata, teme una diffusione incontrollabile ed inarrestabile, su larga scala, del contagio. E di conseguenza dei decessi. In particolare le fasce anziane della popolazione seguono il totalizzatore giornaliero del coronavirus con questo stato d’animo.

L’OCSE prevede per l’Italia crescita zero in questo 2020. Credeteci: crescita zero sarebbe già un successone, un mezzo miracolo con tutto quello che sta succedendo. Perché il rischio al 31 dicembre è un segno meno seguito non da decimali ma da qualche numero intero che non è detto possa essere “solo” un uno. Insomma una recessione seria. Pesantemente seria. “Io speriamo che me la cavo”: ricordate l’efficacissima espressione che lo scolaro campano Raffaele scrive nel suo tema nel libro omonimo di Marcello D’Orta portato sullo schermo nel 1992 dalla Wertmuller con Paolo Villaggio? Ebbene, dovremmo sottoscriverla tutti e riadattarla così: “Noi…speriamo che l’Italia se la cava”. Perché si torni a stringerci la mano, ad abbracciarci, allo struscio in centro, a messa, a produrre nelle imprese, a visitare musei, a seguire avvenimenti sportivi, ad andare in pizzeria, ad assistere a concerti e rappresentazioni teatrali, a divertirci. Perché ci mancano tanto i comportamenti che si definiscono “il nostro stile di vita”. I comportamenti di un essere sociale quale è l’uomo.

 di Pino Scorciapino

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