L'incantamento emozionale di Cateno Salanitro a Bologna

Cultura | 16 ottobre 2016
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In mostra a Bologna le opere del pittore armerino Cateno Sanalitro. “Reliquie”, questo il titolo, è ospitata nello spazio Tatler di via Rialto. L’esposizione, curata da Patti Campani, si inquadra nel novero delle manifestazione della dodicesima Giornata del contemporaneo. Cateno Sanalitro è nato a Piazza Armerina ma vive a Bologna da oltre quaranta anni. Pittore e scultore tra i più apprezzati, ha al suo attivo numerose personali. La cura della mostra è affidata a Patti Campani, designer, architetto e critica d’arte che ha curato art installation in importanti gallerie e musei di arte contemporanea. La presentazione è di Concetto Prestifilippo, la pubblichiamo per gentile concessione.





RELIQUIE




«A quel tempo a Parigi c'erano almeno una dozzina di profumieri. Sei di loro vivevano sulla riva destra, sei sulla riva sinistra e uno proprio nel mezzo, e cioè sul Pont au Change, che collegava la riva destra con l'Ile de la Cité. (…)E qui c'erano anche il negozio e l'abitazione del profumiere e guantaio Giuseppe Baldini. Sopra la sua vetrina si stendeva un lussuoso baldacchino laccato di verde, e lì accanto era appeso lo stemma di Baldini, tutto in oro, un flacone d'oro dal quale usciva un mazzo di fiori d'oro, e davanti alla porta c'era un tappeto rosso, che ugualmente riportava lo stemma di Baldini sotto forma di ricamo in oro. Quando si apriva la porta, risuonava un carillon persiano, e due aironi d'argento cominciavano a sprizzare dai becchi acqua di viole in una coppa dorata, anch'essa con la forma a flacone dello stemma di Baldini».


La pittura è narrazione, evocazione. La mostra “Reliquie”, di Cateno Sanalitro è incantamento emozionale. Finanche il luogo dell’esposizione è puro rapimento. Lo spazio scelto sembra scivolato da una pagina di Patrick Süskind. Varcare la soglia di Tatler in via Rialto, è come entrare nell’atelier di Giuseppe Baldini in una Parigi di un vago Settecento.


«Baldini ne aveva a migliaia. (…)La sua ambizione consisteva nel radunare nel suo negozio tutto ciò che in genere emanava un profumo o che in qualche modo serviva al profumo. (…)Ceralacca odorosa, carta da lettera profumata, inchiostro per lettere d'amore all'olio di rose, cartelle da scrivania di pelle spagnola, portapenne in legno di sandalo bianco, cassettine e cassapanche in legno di cedro, pot-pourri e coppe per petali di fiori, incensieri d'ottone, flaconi e vasetti di cristallo con tappi d'ambra molata, guanti profumati, fazzoletti, cuscinetti per aghi da cucito imbottiti di fiori di macis e tappeti impregnati di aroma di muschio, che potevano riempire una stanza di profumo per più di cent'anni».

Patti Campani, curatrice dell’esposizione, ha impaginato una mostra essenziale e dominante.

Un camminamento impervio, iniziatico, conduce a una sorta di rifugio sotterraneo. Una cripta celata, la volta a botte. Uno spazio sconosciuto, celato.

Quattro le opere di Cateno Sanalitro esposte. Sono lavori gravidi di segni, intrisi di materie pittoriche antimoderniste. Un abisso di lacerti di sculture, frammenti di terracotta, volti smarriti, monconi, frantumi, brandelli, schegge, cocci. Sono reliquie, rovine, macerie, avanzi, disfacimenti. Due le installazioni popolate da un ineffabile esercito di argilla. Forme che, nel dettaglio, rivelano uno straordinario compenetrarsi di piani, linee che si intersecano. Uno spazio materico intabarrato sotto una spessa coltre di rimandi arcaici.

Il tema dominante è quello dello smarrimento, della perdita di identità, dell’evanescenza virtuale, dell’abusata omologazione.

Quella di Sanalitro è una pittura colta, irrituale, lontana dai dettami dozzinali e modernisti. I rimandi sono ai grandi maestri del Novecento. Cateno è un artista mosso da un’irrefrenabile coazione al gesto pittorico, roso da un continuo fervore sperimentale. Pittore irrituale, eccentrico, ha coniato una cifra stilistica inequivocabile. Sanalitro è un der suchende impegnato in una frenetica trasformazione di materiali. Anima object trouvè. Conferisce ai dettagli fascinazioni misteriche. Nella radice del suo stesso cognome, si annida la ricerca della rugiada filosofica che, per estrazione, sintesi, sottrazione, conduce al salnitro alchemico. Una sorta di Jean-Baptiste Grenouille che, con febbrile accanimento, distilla e introietta nelle sue opere odori, materie, segni, forme.

In questo incessante operare, Sanalitro ha deciso di esplorare il tema dell’addio, l’abbandono, la perdita della memoria, la rimozione della civiltà, il disfacimento dell’ambiente, l’alienazione delle merci.

Il suo personale paesaggio di rovine non è compiacenza untuosa, estetica delle macerie. Non è il sollazzo di certa pittura spagnoleggiante seicentesca alla Juan de Valdès Leal. Non è il Rovinismo dei romantici Hieronymus Cock, Alessandro Magnasco, Caspar David Friedrich.

Le opere esposte sono reliquie di una nostalgia angosciante. Un tentativo disperato di portare a riva detriti scampati a un naufragio. Sono corpi mutilati, addensati alla rinfusa. Resti di storie scampate a una sorta di cataclisma improvviso. Una mostra che è un raffinato “Ubi sunt qui ante nos fuerunt?”. È l’inascoltato monito pasoliniano. Quelle consegnate allo spettatore, sono le immagini dell’assenza insopprimibile, della mancanza insopportabile.

Domina il centro della sala un’opera che incarna una sorta di immaginario nostalgico: “Canto perduto”. Una fitta sequela di figure fratte, forme accennate, forse di animali. Proiettano ombre inquietanti sulle pareti della cripta. Una tela di ragno opalescente che cattura la dissolvenza di residui corposi.

Le reliquie esposte sono vittime del tempo distruttore ma, allo stesso tempo, animano la resistenza all’oblio, alla dimenticanza, alla rimozione forzata. Sono un grido disperante. Un rumore sordo, come un tamburo solitario.

E poi, il tempo sospeso, il silenzio, l’afasia, la ritrazione, lo smarrimento. Quello che sembra animare un groviglio balzachiano di personaggi aggrottati in un catino di zinco popolato di stracci dipinti. Volti smarriti. Pupazzi inanimati. Sguardi immobili. Paradigma fisiognomico. Scandaglio da casellario. Dettaglio di battaglia. Uomini sgomenti, sperduti, turbati. È questa l’unica opera che ha un rimando pittorico. Stracci dipinti che ospitano depositi materici, campiture possenti scandite anche da cromie soffuse, delicate. L’incarnato dei volti è fiabesco. Minuscole tele che incarnano pitture a tutto tondo, ritratti privi di piani di fondo. Una minutaglia umana muta. Gli smarriti, sono stati privati della linea di orizzonte necessaria, indispensabile. Attendono immobili, immersi in una sorta di presente dilatato. Vivono attimi sospesi, come quelli che precedono i sommovimenti, anticipano i cataclismi devastanti.

Nel silenzio irreale, essenziale, orientale, dell’apotèca di via Rialto, troneggiano le due installazioni popolate da sculture infinitesimali. Braccia che invocano soccorso. Naufraghi. Agognano un approdo di salvezza. Bramano soccorso. Superstiti di negligenze. Sono gli ammassati nel “Radeau de la Méduse” del buon Géricault. Sono i volti smunti dei bollettini televisivi. Membra aggrappate, prima del’inabissamento, della scomparsa. Queste reliquie sono le macerie di Aleppo, i detriti di Gaza, le rovine di Sarajevo, i lacerti del World Trade Center, i brandelli di Palermo. Queste reliquie sono quel che resta del tonfo spaventoso, del clangore metallico.

Le opere di Sanalitro sono ammonimento, grido di dolore.

Il torpore ipnotico della sala è interrotto da un tintinìo di porta. Svela il volto affilato, smagrito, tormentato di un poeta che a lungo ha animato questi luoghi. Consegna un dettato esplicito:



«Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale».

Pasolini, “Scritti Corsari”, 1975.


L’essenzialità del racconto di Cateno Sanalitro, la fascinazione dello spazio Tatler, l’elegante cura della mostra operata da Patti Campani, consegnano allo spettatore un’emozione unica. Una sensazione di ineffabile vaporosità degna del buon Giuseppe Baldini.



 di Concetto Prestifilippo

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