L’importanza di discutere della mafia con i giovani
Come gli scorsi
anni, nel 2016 il Centro Pio La Torre ha reiterato la rilevazione della
percezione del fenomeno mafioso. Un'interessante novità è rappresentata dal
fatto che per la prima volta si è provato a somministrare il questionario anche
a studenti universitari. Ciò ha dovuto fare i conti, com'è intuibile, con
alcune difficoltà pratiche. A scuola gli studenti sono in classe e hanno
davanti a sé i loro docenti, i quali hanno aderito al progetto e chiedono loro
di effettuare la compilazione. All'università, invece, secondo la modalità che
è stata seguita quest'anno, si è avuta una qualche collaborazione da parte di
associazioni studentesche nel veicolare la richiesta a studenti che non si
trovavano in aula. Si sono così ottenuti 248 questionari completati nelle varie
università siciliane, 200 dei quali in quella di Palermo. È, in effetti, un
“campione” di ridotte dimensioni, costituito da soggetti che hanno mostrato -
nel momento in cui hanno ricevuto la richiesta - disponibilità a collaborare,
il che può essere dovuto a una pluralità di fattori, presumibilmente in
interazione reciproca tra loro: la disponibilità di tempo (magari in un momento
di buco tra una lezione e l'altra), anzitutto, ma anche un certo interesse per
l'argomento, e forse la conoscenza personale dei membri delle associazioni
studentesche che proponevano la cosa. Si tratta quindi di un “campione”, oltre
che ridotto, anche auto-selezionato.
Per altro verso
abbiamo 2267 questionari compilati a scuola. È, evidentemente, un numero ben
più cospicuo. Tuttavia, come abbiamo sempre sottolineato anche in sede di
commento delle precedenti rilevazioni, anche in questo caso siamo davanti a un
campione non casuale e non statisticamente rappresentativo, con la differenza
che la selezione, anziché essere compiuta dagli stessi rispondenti, si deve
sostanzialmente ai docenti o dirigenti scolastici che aderiscono al progetto.
Tale adesione non è essa stessa casuale, bensì dettata da una conoscenza del
progetto medesimo, nonché, spesso, dal fatto che anche negli anni precedenti ci
si era trovati ad aderire, e prima ancora da una certa sintonia con i principi
e i valori dell'impegno antimafia, che non è casualmente distribuita
all'interno della popolazione dei docenti. Inoltre, visto che - come dicono gli
stessi studenti scolastici che hanno risposto - è proprio con i loro professori
che il più delle volte essi parlano di mafia, è plausibile che nella loro
percezione del fenomeno giochi appunto il rapporto con tali docenti. Del resto,
che certe figure di docenti abbiano un'influenza tutt'altro che insignificante
nella formazione anche civile dei giovani è cosa nota. E che l'educazione
antimafia debba avere un suo impatto è non solo prevedibile, ma addirittura
richiesto, poiché diversamente non si capirebbe l'importanza delle ore e delle
energie dedicate a tale attività. In definitiva, quindi, avendo ribadito che
neppure il campione di 2267 studenti è statisticamente rappresentativo, ho così
fissato i limiti entro i quali si può procedere a un raffronto tra i due risultati,
appunto con l'avvertenza che nessuno dei due è generalizzabile ai
rispettivi universi (quello degli studenti universitari siciliani e quello
degli studenti scolastici italiani). Le considerazioni che svolgo di seguito
valgono quindi solo per i rispondenti. Esse suggeriscono, in chiave
esplorativa, delle piste da approfondire che, se lo si volesse e potesse fare,
richiederebbero ben altre risorse - nella rilevazione che qui commentiamo tutto
dipende dal volontariato - e un disegno della ricerca ben altrimenti
strutturato.
Tutto ciò premesso,
provo a confrontare alcune risposte. Alla domanda sulla diffusione della mafia
nella propria regione gli universitari, che si riferiscono sempre e solo alla
Sicilia, rispondono “molto” nel 63,56% dei casi, mentre gli studenti di scuola
lo fanno solo nel 32,59. Quanto agli strumenti di informazione che parlano
adeguatamente del fenomeno, i primi citano i libri nel 45, la tv nel 18,22, i
giornali nel 46,11% dei casi, i secondi i libri nel 28,68, la tv nel 50,52 e i
giornali nel 31,98% dei casi. I primi parlano dell'argomento in famiglia quasi
nel 70% dei casi, i secondi nel 52,45. I primi avvertono “molto” la presenza
mafiosa nella loro città nel 30% circa dei casi, i secondi nel 10, 45. A
proposito delle attività mafiose, i primi citano al primo posto la droga, ma un
po' meno dei secondi, e poi le estorsioni nel 21,86% dei casi, mentre solo 6,54
studenti di scuola su 100 vi fanno riferimento. Per il 58,7% dei primi la mafia
incide “molto” sull'economia della loro regione (qui è solo quella siciliana).
Tra gli scolari il “molto” è stato invece scelto dal 27,79%.
Fin qui vengono in
rilievo alcune differenze che erano proprio quelle che ci si aspettava di
trovare: gli universitari (siciliani) che hanno risposto hanno idee un po' più
calzanti sulla specificità mafiosa (il racket estorsivo), sulla pervasività di
certe presenze, sull'impatto economico, vengono da famiglie alquanto attente al
problema (il che in parte spiega perché hanno accettato di dedicare un po' del
loro tempo a compilare il questionario) e così via. Detto tutto questo, alla
domanda su chi sia più forte tra Stato e mafia, il 31,98% di loro ha detto “lo
Stato”, il 28,34% “la mafia”. Tra gli studenti di scuola, invece (che invece
non sono tutti siciliani), solo il 13,92% ha risposto “lo Stato”, e addirittura
il 48,04% “la mafia”. Ecco qualcosa che deve far molto riflettere. Qualora in
una successiva ricerca si confermasse un risultato del genere, come dovremmo
interpretarlo? Evidentemente il tipo di rappresentazione che delle mafie passa
nel sistema della comunicazione di massa è ancora quello che le dipinge come
entità invincibili, quindi più forti anche dello Stato (a sua volta spesso e
ossessivamente raffigurato come intimamente corrotto, anche nelle sue posizioni
più elevate). D'altro canto, che lo Stato vada assestando colpi sempre più
micidiali alle varie mafie, non solo a Cosa nostra, è una realtà che non si può
negare. Infatti, coloro che leggono qualche libro e qualche giornale in più,
vedono meno televisione e sono un po' meno influenzabili da certi opinion
leaders “cattivi maestri” sembrerebbero avere le idee un po' più chiare al
riguardo. Fermo restando che poco meno di un terzo dei rispondenti universitari
sembra anch'esso in sintonia con quel certo stereotipo scorretto.
Siamo di fronte - lo ripeto per l'ennesima volta - a dati che possono soltanto suggerire piste di analisi, non certo corroborare ipotesi o alcunché di altro. Però, entro tali limiti, la pista che emerge sembra promettente, meriterebbe un approfondimento. Le agenzie di socializzazione sono importanti, ed è fondamentale che del fenomeno si parli, si scriva, che su di esso si facciano circolare immagini e “narrative” (termine assai di moda, non di rado usato a sproposito). Ma si può anche fare un certo danno. Non dimentichiamolo, proprio quando si ha che fare con la formazione della pubblica opinione e del senso civico della popolazione, e ancor più quando si lavora con dei piccoli cittadini in via di formazione.
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