L’impegno di Juncker per lo sviluppo europeo

18 luglio 2014
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Il rinvio a fine agosto della trattativa per la nomina dei vertici del complesso edificio istituzionale che è l’Unione Europea fa da contrappasso alla soddisfazione per l’elezione a larga maggioranza (seppur con alcune decine di franchi tiratori) di Jean Claude Junker a presidente della Commissione.  I ventotto commissari andranno ognuno a un paese membro, perciò la rilevanza della scelta riguarda il “peso” delle deleghe e la qualità dei nomi indicati. Più complessa si presenta la scelta dell’alto Rappresentante per la politica estera (cosiddetto mister – o miss PESC) e del presidente del Consiglio che è chiamato a rappresentare l’intera Unione, dando risposta all’antica provocazione di Henry Kissinger (qual è il numero di telefono del signor Europa?).  Con l’elezione del navigato uomo politico lussemburghese, che era il candidato del partito popolare, il Parlamento afferma il suo ruolo perché la nomina del presidente della Commissione è stata demandata (anche se ancora in forma indiretta dato che è stato il Consiglio a designarlo formalmente) al giudizio degli elettori.  Anche la riconferma del socialdemocratico Schulz alla presidenza dell’Assemblea di Strasburgo ha il medesimo segno.  Junker è un federalista, qualcuno lo definisce “il più socialista dei democristiani”: l’opposizione di David Cameron e del primo ministro ungherese nasce proprio dall’essere quei paesi i capofila di una concezione che punta ad un progressivo ridimensionamento del ruolo dell’Unione.  I padri politici citati dall’ex primo ministro del piccolo Lussemburgo sono François Mitterand e Helmut  Kohl, assieme a Jacques Delors che da presidente della Commissione lanciò l’Agenda 2000 che resta il progetto più alto e coerente per una crescita solidale dell’Europa. Il discorso programmatico con cui il candidato si è presentato al giudizio dei deputati contiene affermazioni importanti, anche se inevitabilmente generali: l’esistenza di un 29° stato che è quello dei disoccupati, giovani e meno giovani,  la necessità di creare un governo economico dell’Eurozona, la constatazione che è aumentata la distanza tra le istituzioni europee e la percezione dei cittadini,  l’affermazione che le regole del mercato interno non devono valere più delle regole sociali, la proposta di un salario minimo europeo contro il dumping sociale.  Tuttavia la riproposizione, per non dispiacere a Germania e paesi nordici, del rigoroso rispetto del patto di stabilità, così come  l’insistenza sul fatto che le regole attuali su deficit e debito contengono già sufficienti margini di flessibilità  e quindi non vanno rinnegate né rinegoziate, appare in palese e gravissima contraddizione con le affermazioni precedenti.  La soluzione di quest’ antinomia sarà decisiva per il destino dell’Europa. E’ appena uscito un bel libro di Mariana Mazzucato (Lo stato innovatore, La terza) che dimostra con abbondanza di argomenti come pressoché tutti i grandi balzi tecnologici nei quali siamo immersi derivino da ricerche finanziate dalla mano pubblica, dall’Ipad agli smartphones, da Internet alla farmacologia, dalle biotecnologie alle energie alternative, fino all’”economia verde”che appare come il salto prossimo venturo. Ebbene, in quel testo l’Europa non esiste; ci sono gli Stati Uniti, la Cina, il Brasile, la Germania, ma la più vasta area sviluppata del mondo non ha una propria politica industriale né sembra aver compreso che le politiche di austerità conducono al fondo di un vicolo cieco. Per questo mi pare una novità, l’insistenza di Junker sulla reindustrializzazione del nostro continente; siamo però ancora alle premesse di carattere generale.  A fronte di previsioni economiche che segnalano un ulteriore rallentamento di molti paesi dell’Unione, l’impegno politico di maggior rilievo  assunto dal nuovo presidente della Commissione (che entrerà in carica il prossimo novembre) è quello relativo al piano di investimenti pubblici e privati da 300 miliardi di euro da presentare entro il prossimo febbraio. Dovrebbe trattarsi di un cospicuo pacchetto di finanziamenti per lavoro crescita, investimenti che utilizzi in modo mirato i fondi strutturali esistenti e tutti gli strumenti disponibili, per progetti infrastrutturali ed interventi capaci di rilanciare la languente economia comunitaria. Il progetto è interessante, ma molti restano i nodi da sciogliere.  Isabella Bufacchi (Il Sole 24 ore di mercoledì 1 6 luglio) ha fatto notare che il mix pubblico-privato dovrà passare per un potenziamento delle risorse e degli interventi del budget europeo e della BCE e che in tale contesto l’Europa potrebbe estendere la sua capacità di finanziare a fondo perduto, accollarsi le prime perdite dei progetti infrastrutturali per ridurne il rischio.  Gli stati già ultraindebitati chiederanno di essere coperti dai fondi comunitari.  Ciò in ogni caso non sarebbe sufficiente: Junker ha accennato anche a un aumento di capitale della banca europea degli investimenti (BEI) mirato soprattutto ad interventi per la banda larga, l’energia, i trasporti , la ricerca e lo sviluppo. Se son rose fioriranno, ma autunno ed inverno prossimi a Bruxelles saranno duri.  Nel frattempo, anche per Matteo Renzi il clima belga si mostra non particolarmente salubre.  La somma algebrica tra la debacle dei socialisti francesi, i risultati elettorali dei socialdemocratici tedeschi e dei laburisti in Gran Bretagna e lo sfondamento del 40% dei consensi da parte del PD italiano, fa del nostro giovane e volitivo presidente del Consiglio un referente decisivo nell’ambito del PSE e nel rapporto con i vertici politici dei paesi più grandi. Ovvio che egli punti a sfruttare il successo sia sul piano interno sia sullo scenario continentale. Delle vicende italiane avremo modo e tempo di parlare. Per quanto riguarda la scacchiera europea, puntare l’intera posta sulla nomina del ministro degli esteri Federica Mogherini al ruolo che è stato di lady Ashton potrebbe non rivelarsi un’operazione redditizia.  Vedremo, ma certamente lo scontro con la Polonia e gli altri paesi afflitti dalla sindrome post-sovietica non sarà di poco momento e il punto di equilibrio che si definirà peserà in maniera decisiva sugli assetti generali dell’Unione e sulla sua capacità di guidare l’Europa fuori dalla crisi troppo grande e troppo lunga che ha segnato il primo scorcio del secolo XXI. Una cosa mi appare certa: non ci sarà futuro per l’Italia fuori dell’Europa, non ci sarà futuro per l’Europa se l’Unione collasserà.  Per quanti difetti abbiano le istituzioni europee e per quanto forte sia l'urgenza di riformarle e democratizzarle, esse sono l’unica ancora che eviterà la deriva del vecchio continente.

 di Franco Garufi

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