L’espansionismo avventurista della Russia di Putin, contributi per una lettura tra storia ed attualità

L'analisi | 3 aprile 2022
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1.Introduzione
Superati sconcerto, sgomento, paura suscitati a livello planetario dall’invasione non provocata dell’Ucraina da parte delle truppe di Mosca il 24 febbraio, con il trascorrere delle settimane vengono a galla i “se”, i “ma”, i tentavi se non di giustificazione quanto meno di “comprensione” in tanti analisti, osservatori, giornalisti, politici. Povera Russia, stretta all’angolo per trenta anni dalla Triplice dei cattivi: Stati Uniti, Nato, Unione Europea. Sovranisti più o meno dichiarati, antiamericani cronici, antieuropei, antidemocratici, superato lo choc di fine febbraio, sembrano ora mostrare più attenzione per le ragioni di Mosca. Cioè per quella comoda quanto falsa costruzione strategico-politica del ricattatore Putin e dei suoi sgherri, a cominciare dal suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov, che non perde occasione per accreditare la Russia come una innocente fortezza assediata da tutte le forze del male del mondo. E dunque sempre eroicamente e disinteressatamente impegnata a rompere l’assedio.
Diciamolo chiaro. Se è vero, ed è vero, che gli Stati Uniti nel loro comportamento sullo scenario internazionale sono soliti muoversi con la delicatezza di un elefante in una cristalleria; se è vero, come è vero, che il presidente Biden meno parla e meglio è perché con le sue gaffe e le sue dichiarazioni all’impronta getta solo benzina sul fuoco (tutti pensiamo e sappiamo che Putin è “un macellaio” ma il Presidente degli Stati Uniti dovrebbe usare altri toni e linguaggi); se è vero, come è vero, che l’Occidente ha commesso negli ultimi trenta anni puerili errori di sottovalutazione, dichiarazioni e scelte discutibili in tema di allargamento della Nato nell’Europa dell’est, è ancora più vero che niente può giustificare la vile aggressione da parte della Russia di uno stato sovrano europeo. Peraltro profondamente affine sul piano culturale, religioso, storico alla Russia.
Se in queste settimane c’è uno stato che invade, assedia, uccide, bombarda, deporta, affama, saccheggia le case, stupra le donne è la Russia. Se c’è uno stato responsabile di aver riportato indietro l’orologio della storia procurando nel mondo per i prossimi anni crisi economica, inflazione, recessione, stagnazione, povertà, disoccupazione, persino carestia per centinaia di milioni di individui è la Russia. Risale a pochi giorni fa una dichiarazione ufficiale dell’Onu nella quale si mette nero su bianco che la Russia “scatenando una guerra contro l’Ucraina, considerata il granaio d’Europa” ha provocato una “crisi alimentare mondiale con il rischio di una carestia in vari paesi”. Ovviamente la carestia picchierà più forte nei paesi più poveri del Terzo Mondo.
Ma, soprattutto, è ormai incontrovertibile che l’espansionismo russo è frutto di una mentalità, di un “destino” storico, di una lunga preparazione. Ineliminabile. Sostenuto e motivato dall’ampiezza geografica stessa dell’immenso paese. In Vladimir Putin – che, non trascuriamolo, in questi giorni, secondo sondaggi definiti “indipendenti”, gode del gradimento dell’84 per cento dei suoi sudditi - questo spirito insito ai russi ha trovato il nuovo profeta, il nuovo tessitore, il nuovo stratega, il nuovo condottiero versione XXI secolo. Che l’intero paese si sia ridotto ad un immenso carcere, che l’imbavagliatore della stampa e della libertà dal Cremlino abbia messo a tacere - anche con la formula molto praticata degli assassini di stato - ogni forma di dissenso sembra inquietare solo una sparuta frangia di cittadini russi.
Da quando Putin è al potere la Federazione Russa non fa che annettersi territori, accaparrarsi basi militari e navali, pianificare a tavolino teste di ponte ai sui confini più o meno vicini che, grazie al cinismo della politica estera di Mosca, prima o poi tornano utili per accampare diritti, distribuire cittadinanze russe ai locali, supportare in solitaria improbabili autonomie, indipendenze, annessioni finali di staterelli ampi sì e no quanto il territorio di un comune dell’Italia medievale, accaparrarsi aree strategiche e risorse. Un campionario di spregiudicatezza senza fine.
Abbiamo lasciato fare. Abbiamo fatto finta di non capire. Abbiamo messo la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Ora il bubbone è scoppiato in Ucraina. E che bubbone!
Di espansionismo ed avventurismo russo targato Putin scriveremo nelle pagine che seguono. Con numerosi e ampi contributi che ci aiuteranno a tracciarlo. O meglio ancora a dimostrarlo, a testimoniarlo. Contributi ed anche semplici cronologie che lo prevedono, spiegano, raccontano, contestualizzano. In scenari già “acquisiti” da Mosca – nel Caucaso, in Donbass, in Transnistria (Moldavia), Siria, Libia, Africa sahariana – e che rischiano tra non molto di diventarlo (in Bosnia e Erzegovina, ad un tiro di schioppo dall’Italia). La via putiniana all’espansionismo è andata avanti come un rullo compressore, con metodo, con una architettura premeditata e dichiarata che non abbiamo voluto vedere.

2.Cornelius Castoriadias: “La Russia è condannata a preparare la guerra perché non può e non sa fare nient’altro”
C’è chi questo “destino” della Russia lo aveva anticipato quarantuno anni fa, nel 1981, quanto ancora esisteva una ormai declinante Unione Sovietica. Cornelius Castoriadis (Istanbul, 1922 – Parigi, 1997) è stato un filosofo, sociologo, economista, psicanalista e saggista greco naturalizzato francese. Teorico dell'«autonomia politica», intesa come forma di autodeterminazione giuridico-politica perseguita da ogni singolo costituente all'interno d'una determinata struttura sociale, sulla falsariga dell'ordinamento politico delle antiche polis di stampo ateniese e della prassi organizzativa della democrazia consiliare. Castoriadis fu tra i fondatori e principali animatori, tra la fine degli anni quaranta e la prima metà degli anni sessanta, del gruppo politico-filosofico marxista libertario Socialisme ou Barbarie (e anche editore dell'omonima rivista), ideologicamente vicino al comunismo consiliarista. Tra i grandi pensatori del XX secolo, Castoriadis diede corpo, nel corso della sua vita, a un ampissimo e sofisticato sistema di pensiero, articolato su una radicale analisi critica del pensiero marxista (che, dagli ultimi anni di Socialisme ou Barbarie in poi, abbandonò definitivamente), della filosofia e dell’economia. Teorizzò un sistema economico socialista libertario. Le sue teorizzazioni sul concetto di autonomia, così come i suoi studi sulla natura e sul conseguente sviluppo delle istituzioni sociali, hanno esercitato una considerevole influenza sulla successiva formazione dei movimenti socio-politici della sinistra extraparlamentare dagli anni sessanta in poi.
Il 25 febbraio scorso Raffaele Alberto Ventura sulla rivista “Il GC – Le Grand Continent” ha riletto il libro di Castoriadis “Devant la guerre”, edito da Fayard nel 1981in un articolo dal titolo “Il filosofo che aveva denunciato l’espansionismo russo”. Le attente pagine di Ventura rendono profetiche oltre che attualissime le intuizioni del pensatore greco-francese. Anche per le spiegazioni di natura sociale ed economica sulla realtà russa – per niente datate – che accompagnano e rendono logiche le analisi.
Scrive Ventura: “Il nome di Cornelius Castoriadis è indissolubilmente legato all’esperienza del gruppo Socialisme ou Barbarie, da lui fondato assieme a Claude Lefort nel 1949 in rottura contro la sinistra dell’epoca, accusata di essere troppo tiepida con l’Unione Sovietica. Secondo i membri del gruppo, che ebbe un’influenza fondatrice sull’ultrasinistra francese e non solo, il sedicente “socialismo” realizzato da Lenin e dai suoi successori non era altro che una forma di capitalismo più avanzata e brutale, caratterizzato dalla dimensione burocratica. Filosofo, economista e teorico politico, Castoriadis difese per decenni un altro tipo di socialismo, contaminato con la tradizione anarchica, sindacalista e consiliarista, che lo portò a teorizzare il concetto di autonomia: dalla sua riflessione e dalla sua militanza nacquero i semi del Sessantotto, ma oggi viene considerato anche come precursore dell’ecologia politica. Anche economista di primo piano all’OCSE, fu tra gli ispiratori di un approccio nuovo alle politiche di sviluppo, centrato sulla dimensione sociale.
Nel 1981, una vivace polemica accompagnò l’uscita del suo libro Devant la guerre, nel quale Castoriadis denunciava la minaccia militare dell’espansionismo russo ricorrendo ad ampia documentazione e a una teoria originale del capitalismo burocratico. All’epoca le sue previsioni parvero eccessive, se non addirittura russofobe. La caduta dell’Unione Sovietica, pochi anni dopo, sembrò confutare le sue paure. Ma il rischio non era stato cancellato: era solo stato rimandato. Quarant’anni dopo, nell’anno del centenario della nascita di Castoriadis, sembra essere giunto il momento di rileggere Devant la guerre per capire la crisi ucraina: la sua attualità appare sorprendente. E poi che cosa sono quarant’anni, visti dal promontorio della storia, se non un lieve ritardo?
Castoriadis non intendeva fare profezie, ma era convinto che una più nitida comprensione della situazione potesse aiutare a “sfuggire alla trappola in cui la storia sembra volerci rinchiudere”, ovvero l’escalation bellica. Se la terza guerra mondiale ci sarà o non ci sarà dipenderà da innumerevoli fattori, ma comunque vadano le cose (all’epoca come oggi) tutti agiscono tenendo in considerazione questa possibilità. Si vive non “prima della guerra”, appunto, ma “davanti alla guerra”. Si tratta per lui d’individuare delle tendenze e delle aspettative che strutturano il campo geopolitico, che “appare intelligibile soltanto nella prospettiva di un potenziale conflitto”.

Nella filosofia di Castoriadis è centrale l’idea che non esistono determinismi storici, sensi della storia o destini ineluttabili, perché tutto deve essere immaginato e istituito.
Si tratta quindi innanzitutto di capire quali siano le caratteristiche essenziali del capitalismo di stato sovietico: la Russia “persegue incessantemente l’espansione della propria potenza, processo che si incarna nell’aumento continuo del suo potenziale militare e si manifesta in varie forme di conquiste territoriali indirette.” Affermare che “ci troviamo, di nuovo, nell’ottica di una guerra mondiale” significa che quest’ottica è quella che motiva gli attori politici nelle loro scelte, nei loro investimenti, nelle loro paure, nelle loro decisioni: questa prospettiva “apre la possibilità effettiva di un conflitto aperto tra le due superpotenze”, USA e Russia.
Questo era vero quarant’anni fa, non ha cessato di essere vero da allora ed è tanto più vero oggi: rinunciando alla prospettiva della guerra come “fattore di formazione di sviluppi effettivi” sarebbe difficile spiegare alcunché di questa crisi. Putin non motiva forse la sua operazione militare accusando le basi americane troppo vicine al suo territorio? E queste basi non sono state disposte precisamente per contrastare una potenziale minaccia russa? Come nei più tragici dilemmi della teoria dei giochi, ampiamente citati nel libro, non si capisce bene se sia nato prima l’uovo o la gallina.
La tesi centrale di Devant la guerre era che l’Unione Sovietica aveva un’economia a due velocità: un’economia civile miserabile e un’economia militare fiorente, capace di sottomettere altre nazioni. Castoriadis illustra come secondo lui l’industria militare russa fosse, per le sue caratteristiche tecniche, chiaramente progettata per l’attacco e non per la difesa. Pagine e pagine del libro sono dedicate all’esame preciso delle forze in campo, dette “conti di chincaglieria militare”.
Ma il cuore del libro è l’esame del funzionamento di questa economia di guerra, attraverso il duplice sguardo di un teorico marxista e di un economista abituato a esaminare i conti nazionali. Secondo Castoriadis, l’economia sovietica “screma sistematicamente le migliori risorse, tra cui ovviamente quelle umane, per orientarle verso l’apparato militare”. Il che, inevitabilmente, lasciava scoperta l’economia civile: da una parte si accumulano armi, con risultati quantitativi e qualitativi sorprendenti, mentre dall’altra non si riescono a soddisfare i bisogni “elementari” della popolazione, a partire da quelli alimentari. La tesi centrale è che la Russia si stava compiutamente trasformando in una “stratocrazia”, dal greco “stratos” per esercito. Secondo Castoriadis, “l’esercito diventa il corpo sociale che assume la direzione e l’orientamento dell’intera società”. 
Questa militarizzazione avveniva all’epoca in un contesto di crisi: “crisi energetica, inflazione accelerata, sommovimento e rallentamento del corso apparentemente segnato del capitalismo moderno”. All’epoca come oggi, insomma, le tensioni internazionali appaiono direttamente collegate alle scosse sistemiche: “gli eventi e i loro effetti si accumulano e si influenzano a vicenda, si amplificano” nel contesto di una crisi dell’ordine mondiale che aveva retto tra il 1953 e il 1973. 
Il sistema sovietico viveva allora “una malattia cronica”, in quanto “incapace di riformarsi”. E di fronte a questa “paralisi della società burocratica russa”, conseguenza del fallimento del suo modello economico sedicente “socialista”, non restava altro che la “fuga in avanti nell’espansione imperialista”. Non poteva andare altrimenti, perché la scelta di dare priorità alla casta burocratica “parassitaria” sottraeva inevitabilmente risorse all’economia reale. Secondo Castoriadis, che a simili calcoli aveva dedicato vent’anni all’OCSE, una diversa allocazione delle risorse avrebbe garantito al paese un’economia più prospera, egualitaria e quindi pacifica. Ma questo non conviene alle classi dominanti, perché un’economia che cresce porta alla formazione di una società civile, e chi dice società civile annuncia il rischio che emerga una domanda di emancipazione che metterebbe in crisi il sistema: “lo sviluppo dell’economia civile non interessa” ai dirigenti russi, “perché questo sviluppo sarebbe anche, in una certa misura, sviluppo della società stessa”.

Al cuore della teoria di Castoriadis c’è l’idea che la Russia è condannata all’espansione dalla struttura stessa del suo regime politico-economico. Se i regimi occidentali “si trovano a uno stadio del loro sviluppo che non richiede un’estensione territoriale della dominazione, e ancor meno una dominazione territoriale diretta”, questo non vale per la Russia, dove “le forze e le inerzie spingono irresistibilmente a una politica di espansione”. Questo perché da una parte l’economia socialista non garantisce la crescita, mentre dall’altra la casta dominante pretende comunque di prelevare la sua quota di plusvalore, e quindi l’espansione è l’unico sbocco. La militarizzazione nasce da un fallimento: “La Russia è condannata a preparare la Guerra perché non sa e non può fare nient’altro”. 
Ma queste analisi possono applicarsi ancora alla Russia di Putin? Ci sono almeno due ragioni per ritenerlo. La prima è che Castoriadis ha molto insistito sul carattere irreversibile delle trasformazioni realizzate dai regimi socialisti: insomma non c’è ragione di ritenere che la società russa abbia preso un’altra strada. Il marxismo-leninismo, anzi, ha aiutato a far emergere un immaginario centrato sulla forza e sull’espansione, necessario per mobilitare la popolazione attorno ai fini imperialisti di una ridotta élite dirigente. La seconda ragione è che il tramonto dell’URSS finiva per operare lo smascheramento di qualcosa di più profondo:
La sola «ideologia» che in Russia resta viva, o che può restarlo, è lo sciovinismo della grande Russia. Il solo immaginario che conserva un’efficacia storia è l’immaginario nazionalista o imperiale. Questo immaginario non aveva bisogno del Partito se non come maschera.
Castoriadis non soltanto aveva inquadrato le cause del collasso dell’economia civile sovietica — “da sessant’anni il Partito cerca di modernizzare la società senza riuscirci” — ma inoltre aveva capito che in seguito a quello smascheramento sarebbe rimasto soltanto il potere dell’apparato burocratico-militare — quello stesso, aggiungiamo noi, da cui viene il funzionario del KGB che governa il paese da vent’anni. Nel 1981 era già scorretto, per Castoriadis, “parlare della Russia come di una società dominata dal Partito o di uno stato totalitario, creazione di Lenin perfezionata da Stalin”, perché bisognava prendere atto della sua trasformazione in società stratocratica, “nella quale il corpo sociale dell’Esercito è l’organo principale della dominazione effettiva e non soltanto il garante dell’ordine”. O per dirla altrimenti:
L’Esercito è il solo settore e corpo moderno in una società arretrata, il solo che funziona efficacemente, e inoltre il solo a essere efficace ideologicamente, sul piano dell’immaginario, in quanto incarnazione organica e naturale dell’ideologia e dell’immaginario nazionalista, della grande Russia, imperiale, mentre l’ideologia del Partito diventa sempre più insignificante.
Se l’Esercito russo è tanto più efficace del Partito comunista, se l’economia militare è tanto più efficiente della sua controparte civile, è proprio perché “si è svincolata dall’influenza del Partito, con le sue statistiche taroccate e le sue nomine clientelari”. L’ideologia marxista non era altro che uno strumento per fare carriera e garantire l’espansione della classe dei burocrati: il risultato era quel “nazional-comunismo che nascondeva dietro un lessico marxista dei significati immaginari – Nazione e Impero russo – funzionali al modo di dominazione e di sfruttamento tipicamente burocratico”.

Oggi che la liquidazione del marxismo da parte del potere putiniano è stata definitivamente realizzata, l’analisi di Castoriadis appare più attuale che mai:
La Russia è instradata, in modo costante, in un processo di espansione e di dominazione, diretta o indiretta, nel quale le fasi di distensione non sono altro che pause tattiche o imposte dall’esterno.
Ed ecco che gli ultimi decenni ci appaiono come nient’altro che una lunga pausa, il tempo necessario al sistema economico per riprendere le sue forze dopo il collasso della sua incarnazione precedente.
Secondo Castoriadis, non bisogna credere al “discorso ridicolo, e raramente innocente, sull’accerchiamento della Russia, l’insicurezza e l’angoscia dei poveri abitanti del Cremlino”. I russi parlano di accerchiamento, aggiunge ironicamente, “soltanto perché la terra è rotonda”. Eppure molti giornalisti, negli ultimi giorni, hanno preso per oro colato le parole di Putin.
Non stupisce che Castoriadis sia stato accusato all’epoca di mettersi al servizio di una retorica atlantista, parlando della necessità per l’Occidente di “opporsi efficacemente all’espansione militare e territoriale russa”, chiedendosi quando si riconoscerà il superamento di un limite… Ma il filosofo non promuove un’offensiva militare, bensì incoraggia i popoli e in particolare il popolo russo a opporsi a ogni escalation militare. Anche oggi, le speranze più incoraggianti ci vengono dalle manifestazioni per la pace nelle strade delle città russe.
Devant la guerre non è, appunto, un libro anti-russo, in quanto precisamente denuncia lo sfruttamento del popolo russo da parte della sua classe dirigente come causale principale della dinamica espansionista. Ma queste manifestazioni non potranno avere effetto senza liquidare definitivamente l’immaginario nazionalista, “finzione scialba, assemblaggio disordinato di pezzi”, che parla di “nazione” in assenza di un vero riferimento se non “la semplice giustapposizione di un gran numero d’individui tenuti assieme dalla violenza dello Stato e qualche vaga somiglianza”. Una reazione militare americana sarebbe, invece, catastrofica. 
Se Devant la guerre è stato considerato per anni come un libro datato, superato, forse anche sbagliato, ha ritrovato oggi la sua impressionante attualità. Le sue analisi sono convincenti, le domande che pone sono urgenti. Come questa:
Cosa succederà quando gli americani decideranno che l’accumulazione di vantaggi locali da parte dei russi costituisce un problema globale?
Ma una simile attualità non è certo una buona notizia”.

3.Le “gesta” di Putin
Quando Castoriadis pubblica il suo saggio di una lucidità e di una attualità che non possiamo che definire avvincenti Putin è un giovane ventinovenne. Sarà lui a confermare, attuandole, le tesi del filosofo e politologo greco-francese. Infatti non si può comprendere l’espansionismo russo del dopo Unione Sovietica se non si approfondiscono le “gesta” di Putin. Mettendo insieme date e avvenimenti emerge in tutta la sua carica di vera e propria “dottrina” la strategia dispiegata dall’uomo che con le buone e con le cattive è diventato il padrone della Russia. Calpestando ogni regola democratica, falsando elezioni, distorcendo e ribaltando ogni verità con un impressionante uso di bugie e travisamenti della realtà. Col trascorrere degli anni Putin diventa, con la sua cerchia, un mentitore seriale.
Per un (primo) ritratto dell’uomo forte del Cremlino ci aiuta Cristin Cappelletti con una scheda dal titolo “Vladimir Putin” pubblicata su www.open.online, il quotidiano fondato da Enrico Mentana: “Mentre il novembre del 1989 il mondo celebrava la caduta del muro di Berlino e la fine della cortina di ferro, un uomo, allora 37enne, vedeva l’inizio di una nuova era: la sua. Nell’anno in cui ricorrono i trent’anni dalla fine della Guerra Fredda, c’è un altro anniversario indissolubilmente legato a quella caduta: i vent’anni al potere di Vladimir Putin che dieci anni dopo, il 31 dicembre del 1999, sarebbe stato indicato da Boris Eltsin come suo successore a capo del Cremlino. Vent’anni in cui la politica russa è cambiata sulla scia delle ceneri lasciate dalla dissoluzione dell’Urss nel 1991 e l’impatto avuto su un ex agente del KGB fattosi politico e zar di una Russia che in poco più di dieci anni ha riacquistato una posizione di rilevanza strategica nel vuoto geopolitico lasciato dal suo rivale occidentale: gli Stati Uniti.
L’ascesa di Vladimir Putin fu segnata da una caduta, quella del muro, che lo vide, tenente colonnello a Dresda, dover fronteggiare un assedio alla stazione del KGB nella Germania dell’Est. Il silenzio di Mosca alla sua domanda di come avrebbe dovuto agire fu la risposta di un sistema politico ormai al collasso. Dagli eventi di Dresda Putin tornò a Mosca, svestendo i panni dell’agente del KGB e indossando quelli del politico. Prima l’incarico di vicesindaco di San Pietroburgo, sua città natale, poi un ritorno alle origini, nel 1998, con il comando del FSB, una delle agenzie che succedettero al KGB, affidatogli da Eltsin. Disilluso dal crollo dell’Unione Sovietica che Putin definì la «più grande tragedia della storia», e lasciatosi alle spalle l’ideologia marxista leninista della gioventù impartitagli a scuola, il motto zarista «Autorità, ortodossia e nazionalismo» diventò la guida di un leader che fin dai primi anni al potere volle ricostruire la Russia sulle fondamenta di ordine e stabilità. Un fascino per quel potere zarista che di recente Putin non ha nascosto, rivelando in un’intervista al Financial Times la sua ammirazione per Pietro il Grande, «il più grande leader al mondo».
I primi anni di Putin al Cremlino furono segnati dal pugno di ferro in Cecenia dove l’ex spia scatenò una guerra contro i separatisti in risposta a una serie di attacchi terroristici avvenuti nella regione caucasica. Un interventismo che avrà il suo culmine più drammatico nel sequestro della scuola di Beslan da parte di estremisti islamici ceceni nel 2004, nel sud della Russia, dove morirono 334 ostaggi, metà dei quali bambini. Per quella strage fu messo sulla graticola proprio il presidente russo, reo di aver gestito malamente l’affare e aver contribuito cosi all’alto numero di vittime. Dopo quel drammatico evento, Putin decise di eliminare le elezioni dirette dei governatori regionali che vennero così nominati dal Cremlino. Si apre la pax di Mosca, o meglio di Vladimir Putin, per la ricostruzione della Russia. Lo zar si assicura la fedeltà degli oligarchi russi a cui concede di poter accumulare ricchezze in cambio del loro disimpegno dalla politica. I media diventano di proprietà dello Stato, i rivali politici vengono eliminati e le istituzioni sono accentrate nelle mani dell’uomo a capo del Cremlino.
Putin, inoltre, si fa forte di un’America che per anni è stata distratta dalla credenza che nel mondo unipolare da lei dominato la democrazia avrebbe trionfato e non ci sarebbe stato bisogno di far avanzare “regine” sulla scacchiera mondiale per preservare un’egemonia, ormai costituita e consolidata. A un’America che dorme, Putin manda un segnale incontrovertibile nello storico discorso alla conferenza di Monaco del 2007 in cui critica l’approccio unilaterale di Washington alle questioni internazionali e lancia, indirettamente, una sfida al vecchio “nemico” dell’ovest. Mentre gli Stati Uniti sono impegnati nel pantano dell’Afghanistan e dell’Iraq, Putin si avvicina alla Cina e rafforza la sua presa su Paesi che nonostante la caduta dell’Urss continuano a essere legati al potere del Cremlino. Dall’Asia Centrale, al Caucaso, la politica di Mosca estende la sua influenza arrivando al Mediterraneo, e soprattutto al Medio Oriente.
Per una Russia pronta ad estendere la sua manu militari, in patria c’è un economia che arranca. Tanto che nel 2016 Putin sarà costretto alla vendita del 19% della proprietà del colosso petrolifero Rosneft alla compagnia svizzera Glencore e alla Qatar investment authority per un valore 12 miliardi di dollari. Con la più grande riserva di gas naturale al mondo, l’eccessiva dipendenza di Mosca dalle sue risorse naturali ha spinto Putin a cercare nuove vie, economiche e diplomatiche, per rafforzare gli investimenti russi sempre più in crisi a causa delle sanzioni europee per l’intervento nel Donbass. Nel 2014 una rivolta separatista nell’Est dell’Ucraina, nella regione del Donbass, sostenuta da Mosca (che però ha sempre negato ogni coinvolgimento), porta a un conflitto con l’esercito governativo, in cui finora sono morte oltre 13 mila persone.
Nel 2015 Putin fa la sua mossa arrivando fino in Siria, dove entra a gamba tesa nella guerra civile iniziata nel 2011. A settembre lancia il suo primo attacco aereo dalla base russa di Kheimim, a Latakia. Mosca giustifica l’intervento sia come una questione di sicurezza globale, sia di vitale importanza per la sicurezza interna: la battaglia contro il diffondersi del radicalismo islamico sunnita nella regione, e potenzialmente, alle porte della Russia. Da quel 2015 Putin è stato capace non solo di ribaltare la situazione sul terreno, mantenendo al potere l’alleato Assad, anche grazie al contributo dell’Iran, ma di mettere in moto una macchina diplomatica che lo presentasse come il partner affidabile e l’unico con cui mediare, per decidere le sorti del Paese. Un potere e un’influenza testimoniate dal modello Astana, che vede Putin sempre al centro dei colloqui per la ricostruzione del Paese. Una pax russa, su cui punta per investimenti economici e non solo.
Nel vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti, negli ultimi anni Putin ha trovato un nuovo partner strategico, più che un alleato, nel presidente cinese Xi Jinping. Una collaborazione segnata non solo da una rivitalizzata cooperazione economica, ma da accordi energetici che guardano alle infinite risorse dell’Asia, dell’Artico e che tagliano fuori l’Europa dalla crescita economica di Pechino, sbocco per le aspirazioni russe. Nel 2016 l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti scombina ancora le carte in tavola, ma a favore della Russia visto che il neo capo della Casa Bianca ha promesso di migliorare i rapporti con Mosca, che viene poi accusata di aver truccato le elezioni presidenziali Usa.
Nel 2018 Putin vince le presidenziali e apre il suo quarto e ultimo mandato. Ma la corruzione, il nepotismo e le elezioni messe sempre più in dubbio hanno indebolito la classe media e i giovani che sono sempre più disillusi da un Paese, quello forgiato da Putin, in cui non vedono opportunità per il futuro. Nella Russia dell’ordine sancito da Putin crescono le manifestazioni di piazza e l’opposizione, per quanto soffocata alla radice, continua a esistere, come dimostrano i continui arresti del maggior oppositore Alexei Navalny e le proteste del luglio scorso, che hanno visto giovani scendere in piazza contro la decisione delle autorità di vietare la candidatura a diversi esponenti dell’opposizione nelle elezioni municipali di settembre. Putin si appresta dunque a celebrare un impero durato 20 anni. Ma alla scadenza del suo mandato presidenziale del 2024 non è ancora chiaro cosa deciderà di fare il capo dello Stato, se modificare la costituzione in suo favore, allungando ulteriormente la sua permanenza al Cremlino, o passare il testimone e l’eredità a un successore, ovviamente fidato, che possa continuare a traghettare la Russia nella pax creata dall’ex agente del KGB”.
Se il ritratto precedente è recente, un secondo utile approfondimento che ora riportiamo risale al 2 dicembre 2016. Lo firma Francesco Cirillo su “NG – Notizie Geopolitiche”, titolo “Ripercorrendo Putin: la Terza espansione russa”. Importante perché, appunto, introduce il concetto di Terza espansione russa dopo la prima dell’epoca zarista e la seconda dell’epoca sovietica.
“Diversi analisti militari – scrive Cirillo - teorizzano che tra il 2015 e il 2016 la nuova politica estera del Cremlino punterà alla creazione di uno spazio di influenza russo e di azione diplomatica volti a togliere agli Stati Uniti il ruolo di unica superpotenza militare.
Il crollo del muro di Berlino nel 1989 e il successivo scioglimento dell’Unione Sovietica ha portato al totale smembramento di quello che era l’impero sovietico e del Patto di Varsavia. La Federazione Russa, nata dalle ceneri dell’URSS, ha tentato di stabilizzarsi durante la presidenza di Boris Eltsin, ma lo scoppio della prima guerra cecena, terminata con l’assedio e la successiva occupazione della città di Grozny, hanno consegnato al mondo un’immagine repressiva della Russia. Mentre il presidente era impegnato a risollevare un paese in forte recessione economica, i paesi ex sovietici si stavano avvicinando all’occidente. Inoltre nei Balcani, precisamente nella ex-Jugoslavia, la fine del blocco sovietico ha comportato lo smembramento della Federazione Jugoslavia di Milosevic, isolato dalla comunità internazionale. Milosevic sperava nell’aiuto del Cremlino, ma quest’ultimo era impantanato nel risolvere la stagnazione economica. Durante la presidenza di Eltsin si fece strada un “giovane” aspirante politico, Vladimir Putin.
Nel 1999 Putin, a quel tempo primo ministro, venne designato come successore di Eltsin alla presidenza Russa. La carriera di Putin va dai servizi segreti sovietici (Kgb) dove lavorava nella sede di Dresda e dove aveva assistito alla fine dell’era sovietica.
Tornato a Mosca due anni dopo venne nominato direttore del Fsb (servizi segreti russi) e nel 1999 Eltsin lo fece diventare prima premier e poi presidente.
Allora la Russia era un paese arretrato e governato di fatto dagli oligarchi.
L’invio dell’esercito russo per reprimere la ribellione cecena venne attuato dallo stesso Putin in veste di primo ministro, ma nel contempo vi fu un suo primo tentativo di contrastare il potere degli oligarchi, mettendo a segno un parziale riordino del sistema politico con lo scopo di riconsegnare alla Russia il ruolo di primo piano che aveva.
Dal 2004 al 2012 Putin ha potenziato l’apparato militare russo, migliorato l’economia del paese e cercato di modernizzare l’apparato statale russo, attuando in alcuni casi clamorose epurazioni dirette soprattutto verso gli oligarchi, prontamente allontanati dai ruoli di governo.
Nel 2000, con la sua elezione ha attuato una riforma radicale dell’apparato statale, suddividendo la Russia in 89 soggetti federali inglobati in 7 distretti federali, le cui nomine di governatori venivano e vengono ancora oggi stabilite direttamente dal Cremlino.
Nel 2008, impossibilitato a candidarsi per un terzo mandato consecutivo, ha favorito l’ascesa alla presidenza del premier Dmitri Medvedev, che a sua volta lo ha nominato primo ministro, garantendo così il prosieguo della sua strategia politica, fino ad essere rieletto, con il 60 per cento dei consensi, nuovamente presidente della Federazione.
Dal 2013 al 2016 Putin ha modificato radicalmente la propria politica estera ed interna. Mosca ha iniziato ad intensificare le esercitazioni militari e potenziato il proprio arsenale militare sia convenzionale sia nucleare. Il riarmo russo ha allarmato l’occidente e Washington. I primi segni di rottura tra il Cremlino e la Casa Bianca si sono avuti in occasione della crisi siriana, quando nel 2013 gli Usa hanno accusato il presidente Bashar al-Assad di aver utilizzato l’arsenale chimico contro obiettivi dei ribelli causando numerosi morti e feriti tra i civili. La minaccia di Barak Obama, con l’ultimatum ad al-Assad di abbandonare il paese per evitare l’attacco militare statunitense, ha portato all’entrata in scena della Russia, con Putin che si è fatto mediatore portando un accordo che prevedeva lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano.
Da lì a poco, era il 2014, le proteste filo-europee di piazza Maidan, in Ucraina, hanno costretto il premier Victor Yanukovich a fuggire dalla capitale e dal paese. Putin non ha riconosciuto il nuovo governo, affermando che il nuovo regime di Kiev sarebbe stato un “governo fascista finanziato dal Dipartimento di stato americano”. E così tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo truppe non identificate (in realtà russe) hanno occupato rapidamente i punti strategici e le città della Crimea, dove già Mosca aveva a Sebastopoli la base della Flotta del Mar Nero. La Crimea venne annessa in seguito ad un referendum preparato con una legge ad hoc, cosa che comportò le condanne degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. L’amministrazione Obama e Bruxelles decisero di attuare contro Mosca sanzioni economiche volte ad indebolire l’economia russa e tentare di bloccare le aspirazioni “imperiali” di Putin, ma questo non fermò il presidente russo, il quale, bloccato nei giochi ad occidente, iniziò a guardare a oriente, precisamente in Cina e in Asia Centrale. Mentre firmava importanti accordi commerciali (e militari) con Pechino, rafforzò la presenza militare russa nei paesi dell’Asia centrale quali il Tagikistan e il Kazakistan. Le sanzioni economiche indebolivano solo superficialmente l’apparato economico, il quale resse, seppur con difficoltà, anche al crollo del prezzo del petrolio.
Putin attuò un forte piano di riorganizzazione delle forze armate. Le esercitazioni militari vennero raddoppiate nei distretti occidentali e meridionali, e nel settembre del 2015 Putin decise di intervenire in Siria.
Il 30 settembre del 2015 Putin, con l’approvazione della Duma, inviò un’imponente forza militare aereo-navale per supportare le forze di Damasco, cosa che ha riportato l’ago della bilancia del conflitto in favore di Damasco. I raid russi hanno colpito sia le forze ribelli sia le milizie jihadiste di al-Qaeda e dello Stato Islamico, causando però l’acuirsi della tensione con la Turchia di Recep Tayyp Erdogan.
Nel novembre 2015 due caccia turchi abbatterono un jet russo che, per Ankara, aveva oltrepassato il confine aereo, per cui Mosca chiuse i rapporti diplomatici ed attuò sanzioni economiche nei confronti della Turchia.
Le operazioni militari russe supportarono le truppe di al-Assad che avanzarono verso la città di Aleppo e la Palmira, la quale venne riconquistata nel marzo 2016.
Putin, nel clima di successo, decise di ridurre l’impegno militare, ma nel contempo riscosse importanti successi diplomatici ricucendo i rapporti con la Turchia, la quale a seguito del fallito golpe del 15 luglio aveva rivisto le relazioni con gli Stati Uniti, accusati di essere dietro il tentato colpo di Stato e comunque di non aver estradato l’accusato numero uno, il ricco imam Fethullah Gulen.
Nell’agosto del 2016 Mosca ha intensificato i raid aerei contro le postazioni militari dei ribelli e di Jabat Fatah al-Sham, diramazione siriana di al-Qaeda, oltre che contro lo Stato Islamico, ed è stato proprio grazie all’appoggio russo se l’esercito regolare siriano ha potuto mettere sotto assedio la parte orientale di Aleppo, controllata dai ribelli e dai loro alleati jihadisti. Contestualmente Putin ha ordinato l’intensificazione delle esercitazioni militari in tutti i distretti della Federazione Russa, ha inviato reggimenti di forze speciali e unità meccanizzate in Crimea e rafforzato le truppe russe di stanza in Transnistria.
Queste azioni hanno allarmano i paesi dell’Europa e gli Usa, che hanno inviato nei paesi baltici reparti della Nato.
Nello stesso periodo Mosca è stata accusata, senza un evidente fondamento, di finanziare i partiti euroscettici.
In ottobre il Cremlino ha inviato un’ulteriore task force navale per supportare le truppe di Damasco: il naviglio russo comprendeva, oltre ad unità di supporto, la portaerei Admiral Kuznetsov e l’incrociatore a propulsione nucleare “Pietro il Grande”. Il viaggio da Semermorsk, nalla Russia nord-orientale, alla Siria è terminato nella seconda settimana di novembre e le operazioni aeree del gruppo aereo della Kuznetsov, contro le postazioni ribelli e dei miliziani jihadisti, sono iniziate il 15 novembre.
Le elezioni americane dell’8 novembre hanno segnato la vittoria del candidato repubblicano Donald Trump, il quale si è detto pronto a riaprire i rapporti diplomatici con Mosca e ad abolire le sanzioni economiche.
Negli ultimi mesi Mosca ha mantenuto forti rapporti con la Cina per quanto riguarda operazioni militari congiunte e accordi commerciali, ha firmato trattati commerciali con l’India, ha attuato esercitazioni militari anti-terrorismo con le truppe del Pakistan e ha firmato accordi per arginare la crisi petrolifera con l’Arabia Saudita.
Dove Washington non riusciva a mantenere i rapporti, Mosca si è infiltrata prepotentemente.
Il 2017, con presidenza Trump, potrebbe far assistere al disgelo tra Mosca e Washington e alla nascita di un mondo dove Russia e Usa dialoghino come potenze mondiali. Alla pari”.

Entriamo ora più nel dettaglio delle tappe e delle azioni delle varie presidenze Putin. Alla luce di una elementare considerazione: le dittature iniziano e le democrazie finiscono quando i mandati dei presidenti si moltiplicano e il potere non passa di mano in mano. O passa strumentalmente a prestanome, come succede tra Putin e Medvedev. Leggendo le pagine che seguono emergono due importanti direttrici: 1) come un presidente si trasforma in un autocrate e poi in un tiranno; 2) luoghi, vicende, operazioni, assassini politici, abolizione della libertà di stampa e dei diritti civili e democratici sostanziano in un crescendo rossiniano il nuovo corso di Putin ovvero “la Terza espansione russa”.
“Il 9 agosto 1999 Putin fu nominato primo deputato, carica che gli permise quello stesso giorno, dopo la caduta del precedente governo guidato da Sergej Stepašin, di essere designato come Primo ministro della Federazione Russa dal presidente Boris Eltsin. Eltsin dichiarò inoltre che avrebbe desiderato che Putin diventasse il proprio successore e poco dopo Putin manifestò l'intenzione di correre per la presidenza.
Il 16 agosto la Duma ratificò la sua nomina a Primo ministro con 233 voti a favore (contro 84 contrari e 17 astenuti), facendone il quinto capo di governo in meno di diciotto mesi. In questa posizione Putin, inizialmente pressoché sconosciuto all'opinione pubblica, sarebbe durato di più dei propri predecessori. I maggiori oppositori di Eltsin e aspiranti alla presidenza, il sindaco di Mosca Jurij Michajlovič Lužkov e l'ex Primo ministro Evgenij Primakov, stavano già cercando di rimpiazzare il presidente uscente e lo contrastarono duramente quale nuovo concorrente. L'immagine di Putin come uomo d'ordine e il suo deciso approccio alla seconda guerra cecena ne aumentarono la popolarità tra le masse e gli permisero di superare i suoi rivali.
La nomina di Putin coincise infatti con l'improvvisa recrudescenza del conflitto nel Caucaso settentrionale: i separatisti ceceni si erano riorganizzati e avevano invaso il vicino Daghestan. Sia in Russia sia all'estero l'immagine pubblica di Putin fu delineata dal suo deciso approccio al conflitto. Uno dei primi atti che compì diventando presidente ad interim, il 31 dicembre 1999, fu quello di fare visita alle truppe russe in Cecenia.
Nel 2003 in tale regione, dopo la riuscita repressione militare della rivolta, si tenne un referendum che sancì l'adozione di una nuova costituzione e l'appartenenza della repubblica alla Federazione Russa. La situazione è in seguito venuta a stabilizzarsi dopo le elezioni parlamentari e l'istituzione di un governo regionale. Pur non formalmente iscritto a nessun partito, Putin diede il proprio appoggio al neonato Partito di Unità russo, che ottenne nel voto popolare per la Duma, tenuto nel dicembre 1999, la seconda percentuale più alta di consensi (23,32%). Dopo tale successo, Putin apparve il favorito tra i candidati alla presidenza in vista delle elezioni che si sarebbero svolte l'estate successiva.
Primo mandato come presidente (2000-2004)
La sua ascesa alla più alta carica della Russia si dimostrò persino più rapida: il 31 dicembre 1999, inaspettatamente, Eltsin rassegnò le proprie dimissioni e, come previsto dalla Costituzione, Putin divenne presidente ad interim della Federazione Russa. Il primo decreto che Putin sottoscrisse quello stesso giorno fu quello titolato Sulle garanzie riguardanti il precedente presidente della Federazione Russa e per i membri della sua famiglia.
Mentre i suoi oppositori si stavano preparando a un'elezione da svolgersi nel giugno dell'anno successivo, le dimissioni di Eltsin fecero sì che le stesse dovessero essere effettuate entro tre mesi dalle dimissioni del precedente presidente.
Le elezioni presidenziali del 2000 si svolsero il 26 marzo: Putin vinse alla prima tornata e giurò come presidente il 7 maggio 2000. Dopo aver annunciato la propria intenzione di consolidare il potere presidenziale nel Paese, durante il maggio 2000 emanò un decreto che suddivideva gli 89 soggetti federali della Russia tra 7 circondari federali diretti da suoi rappresentanti allo scopo di facilitare l'amministrazione federale.
Nel luglio 2000, così come disponeva una legge proposta da lui e approvata dal Parlamento, Putin acquisì il diritto di revocare il mandato ai capi di tali soggetti federali. Rispetto alla presidenza Eltsin, dove si assistette a un turbinio di primi ministri succedutisi nell'incarico (5 nel biennio 1998-1999), il presidente Putin impresse una svolta di stabilità alla guida del governo, retto per quasi tutto il suo quadriennio da Michail Kas'janov, che già era stato il primo vicepremier dello stesso Putin nel 2000. Nel dicembre 2000 il presidente approvò la Legge modificativa dell'inno della Federazione Russa: il nuovo inno riproponeva (con piccole modifiche) la musica di quello sovietico successivo al 1944 di Aleksandrov.
Il 12 febbraio 2001 Putin sottoscrisse una Legge federale riguardante le garanzie per i precedenti presidenti e le loro famiglie che rimpiazzò il Decreto precedente. Dal 1999 Eltsin, con alcuni parenti, era sotto inchiesta per riciclaggio di denaro tra Russia e Svizzera.
All’inizio del luglio 2003 le autorità russe arrestarono Platon Lebedev, partner di Michail Borisovič Chodorkovskij e secondo più grande azionista della Jukos, sospettato di aver acquisito illegalmente nel 1994 una partecipazione in una società statale, la Apatit. In ottobre venne arrestato per frode fiscale lo stesso Chodorkovskij (scarcerato per amnistia nel 2013) come parte della lotta ingaggiata da Putin contro i potentati economici aggregatisi nell'epoca di Eltsin: la prima vittima era stato il finanziere Boris Abramovič Berezovskij, proprietario del complesso industriale AvtoVAZ e principale azionista dell'Aeroflot; inquisito sin dal 2000, fuggì a Londra, dove fu trovato morto nel marzo 2013.
Presto sarebbe venuto il turno di altri oligarchi, colpevoli di corruzione e di arricchimento illecito ai danni dello Stato ma anche scomodi per la loro influenza politica. Nel contempo Putin pose le premesse per una ripresa dell’economia russa dopo il crollo del rublo del 1998.
La tragedia del K-141 Kursk (12 agosto 2000), il sottomarino nucleare inabissatosi nel mare di Barents, all'interno del quale 118 membri dell'equipaggio trovarono la morte, non ha avuto ripercussioni durature sulla popolarità del presidente russo, nonostante le accuse di cui fu oggetto per l'intempestività e l'inadeguatezza dei soccorsi, come per la scarsa trasparenza nelle informazioni durante la vicenda.
Sul piano diplomatico Putin incrementò le relazioni con la Cina e con l'India, nel quadro di un generale rilancio del ruolo strategico del paese e di riequilibrio delle relazioni con i paesi europei ma soprattutto con gli Stati Uniti. Il presidente russo fu il primo leader straniero a telefonare a George W. Bush dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, offrendo la propria assistenza nella guerra al terrorismo di matrice islamica intrapresa dall'amministrazione statunitense.
La ripresa del dialogo culminò negli accordi siglati al vertice allargato NATO-Russia di Pratica di Mare (Roma) nel 2002 che prevedevano l'impegno di Russia e Stati Uniti alla riduzione degli arsenali nucleari.
Secondo mandato come presidente (2004-2008)
Il 14 marzo 2004 Putin è stato rieletto presidente per un secondo mandato con il 71 per cento dei voti.
Nel mese di settembre, a seguito degli attacchi terroristici ceceni in Russia (scuola di Beslan 1º settembre 2004) il presidente Putin ha lanciato un'iniziativa per sostituire l'elezione dei governatori regionali con un sistema per cui sarebbero direttamente nominati dal presidente e approvati dalle legislature regionali. Gorbačëv ha criticato tali provvedimenti, accusando Putin - favorevole a un recupero, sia pure critico, dei valori espressi dal precedente regime comunista - di allontanarsi dalla via democratica. Sul piano della politica internazionale, si è verificato un deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti allorché Putin si è opposto alla Guerra in Iraq del 2003, mostrandosi riluttante anche verso un'immediata abolizione delle sanzioni verso quel Paese una volta terminato il conflitto, condizionandolo al completamento del lavoro delle commissioni ispettive dell'ONU.
Anche nel secondo mandato presidenziale di Putin, la comunanza politica fra il Cremlino e la Duma favorisce il formarsi di governi più stabili e duraturi: dal 2004 al 2007 il primo ministro è Michail Fradkov, mentre nel 2007-2008 gli succede Viktor Zubkov. Il primo vicepremier nel governo Zubkov è Dimitrij Medvedev. Nell'aprile 2005 Putin effettua un viaggio in Medio Oriente, divenendo il primo leader russo in visita ufficiale a Gerusalemme. Nel novembre 2006 Putin è accusato dell'omicidio politico dell'ex colonnello del KGB Aleksandr Litvinenko in un video registrato dalla vittima stessa poco prima della sua morte, dovuta ad avvelenamento da radiazioni di Polonio 210.
Alcuni giornali parlano anche di coinvolgimenti del governo russo nella morte della giornalista moscovita Anna Politkovskaja. Prima di morire, Litvinenko ha accusato pubblicamente il presidente russo come responsabile del suo avvelenamento e come mandante dell'omicidio della giornalista Anna Politkovskaja. (…) Altri giornalisti sono stati uccisi e altri costretti a non occuparsi di politica (…).
Gli enormi proventi derivanti dalla vendita di materie prime, soprattutto petrolio e gas, i cui prezzi sono saliti ai massimi storici dal 2000 in poi, sono tornati a essere destinati prioritariamente come in epoca sovietica al complesso militar/industriale. Sono dell'estate 2007 ripetute entusiastiche dichiarazioni circa la realizzazione di un nuovo missile balistico intercontinentale a testate nucleari multiple e la costruzione di un nuovo caccia Sukhoi. Il 26 aprile 2007, durante il suo ultimo discorso alla nazione, ha annunciato l'intenzione di porre una moratoria sul trattato NATO contro la proliferazione di armi convenzionali in Europa, almeno fino a che tutti i Paesi non lo abbiano ratificato e abbiano cominciato a implementarlo. Ha poi aggiunto: «Se non ci saranno progressi propongo di esaminare la possibilità di uscire dall'accordo e chiedo di sostenere questa mia proposta». Nel dicembre 2007 la Duma ha ratificato l'uscita unilaterale dal trattato contro la proliferazione di armi convenzionali in Europa.
Inoltre, riguardo alla cosiddetta Strategic Defense Initiative ("scudo spaziale"), che gli Stati Uniti hanno intenzione di costruire in Europa (costituito da un sistema radar in Polonia e Repubblica Ceca) Putin ha proposto che l'OSCE discuta il dislocamento di elementi dello scudo nel continente: «Per la prima volta in Europa possono spuntare elementi dell'arma strategica americana e tali piani U.S.A. non sono esclusivamente un problema delle relazioni russo-americane, ma riguardano gli interessi di tutti i Paesi europei». La Russia ha ottenuto l'organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2014 che si sono svolte a Soči, e a capo del cui Comitato organizzatore è stato posto il premier Viktor Alekseevič Zubkov, anche grazie all'intervento dello stesso Putin come presentatore della candidatura della città russa nel corso della 119ª sessione del Comitato Olimpico Internazionale svoltasi nella Città del Guatemala il 4 luglio 2007.
La nuova carica di primo ministro (2008-2012)
Con l'insediamento al Cremlino del suo fedelissimo Dmitrij Medvedev il 7 maggio 2008, Putin è tornato alla carica di Primo ministro, da lui già detenuta prima del mandato presidenziale. Gli analisti internazionali hanno sostenuto che il nuovo ruolo gli abbia permesso di mantenere un ruolo centrale nella vita politica russa.
Nel periodo precedente al suo passaggio da presidente della Federazione a Primo ministro, Putin ha fatto approvare una serie di provvedimenti che hanno rafforzato notevolmente i poteri del Primo ministro, a scapito sia del presidente (in politica estera e nei rapporti con i governatori locali), sia dei ministri (ai quali sono state affidate competenze "tecniche" un tempo del primo ministro): in questo modo Vladimir Putin, pur cambiando ufficio di governo, ha mantenute intatte anche dal punto di vista formale molte sue competenze.
Nella nuova veste di capo del governo, Putin ha gestito personalmente la crisi con la Georgia, sfociata nella seconda guerra in Ossezia del Sud, vinta dalla Russia. Con il riconoscimento dell'indipendenza di Ossezia del Sud e Abcasia (26 agosto 2008), Putin ha utilizzato il caso del riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo come precedente del diritto internazionale e ha notevolmente rafforzato la posizione militare ed economica russa nel Caucaso e sul mar Nero.
Continuando, seppur dal governo e non dal Cremlino, a svolgere il ruolo di protagonista assoluto della politica russa, Putin ha gestito in particolare i dossier economici alla luce della crisi iniziatasi nel 2008. Ha inoltre inaugurato una nuova forma di incontri in seno al governo russo: il presidum del governo, che riunisce solo i ministri delegati delle principali responsabilità ed a cui mai ha partecipato il presidente Medvedev. Il suo predecessore alla guida del governo, Viktor Zubkov (che era stato ritenuto uno dei possibili candidati presidenziali al posto di Medvedev) rimane nella posizione di più stretto collaboratore di Putin andando a occupare l'ufficio di primo vicepremier.
Nella politica estera "putiniana" di questi anni sono stati particolarmente curati i rapporti con gli altri Paesi del gruppo dei "BRIC", con la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan (col quale, peraltro, non sono mancati momenti di conflittualità, anche aspri) e con il governo dell'Ucraina di Julija Tymošenko (2007-2010). In Europa sono stati mantenuti rapporti molto collaborativi con la Germania guidata dalla cancelliera Angela Merkel, mentre ancor più cordiali sono state le relazioni con l'ex premier italiano Silvio Berlusconi. Le relazioni con il presidente statunitense Barack Obama sono state invece tenute dal presidente federale Medvedev, anche se la guida della politica estera per tutto il mandato di quest'ultimo è rimasta nelle mani del ministro degli esteri Sergej Viktorovič Lavrov, un fedelissimo di Putin.
(…) In questo stesso periodo, la Russia ha ottenuto (per la prima volta) l'organizzazione del campionato mondiale di calcio 2018, mentre è proseguita l'organizzazione dei XXII Giochi olimpici invernali che si sono svolte a Soči nel 2014. Il 24 settembre 2011 Putin e Medvedev annunciano un nuovo scambio di ruoli alla guida della Russia: alle elezioni presidenziali del 2012 è stato candidato Putin, mentre l'allora presidente avrebbe occupato l'incarico di Primo ministro.
Dopo la riforma costituzionale che ha allungato a sei gli anni di mandato del presidente federale, per Putin si profilava così un nuovo ritorno al Cremlino per un periodo ancora più lungo, fino al 2018. L'11 ottobre 2011, alla notizia della condanna di Julija Tymošenko da parte di un tribunale ucraino per l'accusa di abuso di potere relativo al contratto decennale di fornitura di gas siglato proprio con Putin, il premier russo esplicita una protesta molto forte. Il 7 maggio 2012 è terminato il suo mandato da Primo ministro in quanto eletto presidente della Federazione Russa e il suo posto viene preso da Viktor Zubkov (facente funzioni, per un giorno) e poi da Dmitrij Anatol'evič Medvedev.

Terzo mandato come presidente (2012-2018)
Nell'agosto 2008, il presidente georgiano Mikheil Saakashvili tentò di ripristinare il controllo sulla separatista Ossezia del Sud, dichiarando che questa azione era in risposta ai continui attacchi oltre confine da parte dell'Ossezia sui georgiani e di raggruppamenti di forze non di pace russe. I peacekeepers russi di stanza nel Paese vennero attaccati durante l'invasione e combatterono al fianco degli Osseti del Sud quando le truppe georgiane entrarono nella provincia e catturarono gran parte della capitale Tskhinvali.
Tuttavia, i militari georgiani furono rapidamente sconfitti nella guerra in Ossezia dopo che le forze regolari russe vennero inviate in Ossezia del Sud aprendo un secondo fronte nell'altra provincia separatista georgiana dell'Abcasia insieme con le forze abcazie. Durante questo conflitto, secondo l'alto diplomatico francese Jean-David Levitte, Putin cercò di deporre il presidente georgiano Mikheil Saakashvili.
Alle elezioni parlamentari in Russia del 2011 il partito di governo Russia Unita ha nuovamente raggiunto la maggioranza, seppur con un netto calo dei consensi. Nei giorni successivi alla divulgazione dell'esito delle consultazioni hanno avuto luogo in varie località della Russia numerose proteste di piazza contro il governo, accusato di brogli elettorali, e contro l'annuncio del Primo ministro Putin di volersi ricandidare per le elezioni presidenziali in Russia del 2012. Il 10 dicembre le manifestazioni sono culminate nella più grande protesta a Mosca dai tempi della dissoluzione dell'Unione Sovietica. In quella circostanza, Putin giunse ad accusare l'allora Segretario di Stato USA Hillary Clinton di fomentare le proteste contro il suo governo, dopo che questa aveva espresso sostegno per i manifestanti e messo in dubbio la correttezza del processo elettorale.
Il 4 marzo 2012 Putin è stato eletto per la terza volta presidente della Federazione Russa con oltre il 60% dei consensi contro il 17% raccolto dal candidato comunista Gennadij Zjuganov; Putin succede a Dmitrij Medvedev, che era presidente dal 2008. I rapporti Russia-USA si sono deteriorati ulteriormente allorché Putin ha concesso asilo all'informatico statunitense Edward Snowden (2013), che aveva fatto trapelare informazioni classificate dalla NSA, tra i quali materiale segreto per programmi di sorveglianza del Web dell'intelligence USA e britannica.
Putin, contrario all'intervento militare della NATO in Libia del 2011, si è opposto a una soluzione militare alla guerra civile in Siria e la Russia si è schierata fin dal principio a difesa del governo siriano, minacciando in sede ONU di porre il veto a eventuali sanzioni internazionali contro di esso; nell'agosto 2013 la mediazione di Putin ha scongiurato l'intervento militare occidentale paventato dall'amministrazione Obama sulla scia degli attacchi di Ghūṭa; nel settembre 2015 il presidente russo ha autorizzato, dopo aver ottenuto il voto favorevole della Duma, le forze armate russe a intervenire nel paese a sostegno del presidente siriano Bashar al-Assad.
Dopo la rivoluzione ucraina del febbraio 2014, l'avvento di Euromaidan e la deposizione del presidente ucraino Viktor Janukovič, Vladimir Putin ha autorizzato il sostegno militare alle forze filorusse nella regione ucraina della Crimea, dichiarando poi l'annessione del territorio a seguito di un referendum popolare non riconosciuto dalla comunità internazionale. L'oppositore Boris Nemcov, che pare si apprestasse a pubblicare un rapporto riguardante il coinvolgimento del Governo russo nella guerra dell'Ucraina orientale deflagrata a seguito di questi fatti, è stato assassinato nel 2015 nei pressi del Cremlino. Tali provvedimenti, giudicati negativamente dai paesi del G8, hanno valso la sospensione della Russia dal suddetto forum politico.
Nel novembre 2014 ha firmato un accordo con l'autoproclamata repubblica dell'Abcasia che prevede uno spazio comune di difesa e sicurezza con la Russia a protezione del confine tra la regione georgiana dell'Abcasia e la Georgia. Secondo l'Unione europea, tuttavia, tale accordo violerebbe la sovranità della Georgia.
Nel maggio 2015 ha esteso il segreto di Stato alla perdita di uomini in tempo di pace o durante lo svolgimento di operazioni speciali. Il 23 maggio 2015 ha firmato una legge che consente al governo di vietare alle organizzazioni non governative internazionali o straniere di compiere attività "indesiderabili", congelandone gli attivi patrimoniali e incriminando i loro dirigenti. La legge è stata fortemente criticata dalle organizzazioni internazionali a tutela dei diritti umani, secondo le quali le autorità russe potranno decidere il divieto in base a motivazioni vaghe, come il fatto di costituire "una minaccia per l'ordine costituzionale del Paese, per le sue capacità di difesa e per la sicurezza dello Stato".
Nel gennaio 2017, dopo l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, l'intelligence statunitense ha pubblicato un rapporto secondo cui il Cremlino avrebbe ordinato una campagna per favorire la vittoria di Trump, screditando la democratica Hillary Clinton. Putin ha negato le accuse, chiedendo prove concrete. I rapporti tra i due Paesi, anche a causa del Russiagate, si sono fatti solo più tesi tra nuove sanzioni, espulsioni di diplomatici, chiusure di consolati e frizioni in Siria.
Quarto mandato come presidente (2018-oggi)
Il 7 maggio 2018, al termine delle elezioni presidenziali in Russia, Putin è stato rieletto per un quarto mandato con il 76,69% (per un totale di 56 430 712 voti), invitando Dmitrij Medvedev a formare un nuovo governo.
Intervistato dalla giornalista Megyn Kelly in merito alle accuse mosse dalle 17 agenzie di intelligence statunitensi di aver interferito con le elezioni politiche U.S.A., Putin ha risposto pubblicamente che la versione pubblica dei rapporti diffusi alla stampa non presenta nulla di concreto, essendo gli indirizzi IP una prova "falsificabile" a piacimento da parte di specialisti reperibili con relativa facilità nel mercato.
Nella prima mattinata del 24 febbraio 2022 Putin ha annunciato un'operazione militare nel Donbass, dando inizio ad un'invasione su larga scala dell'Ucraina”. (Dati, cifre e ricostruzioni degli avvenimenti sono tratti da Wikipedia).
4.La Transnistria: un residuato “sovietico” della Russia
Dedichiamo i prossimi cinque paragrafi a partire da questo ad altrettante aree nelle quali l’espansionismo russo ha messo o potrà mettere radici: Transnistria, Siria, Libia, Africa sahariana, Bosnia-Erzegovina.
La Transnistria, striscia stretta ed allungata di territorio situata nella parte orientale della Moldavia, al confine con l’Ucraina, si estende per appena 3.500 chilometri quadrati circa. Per avere un termine di confronto quanto la provincia di Catania. Capoluogo Tiraspol, dove vivono 160.000 dei 560.000 abitanti dell’intera Transnistria. La riconoscono come stato indipendente in tutto tre improbabili “stati” noti solo a Mosca: Abcasia, Ossezia del Sud, Artsakh.

“Stato indipendente de facto, non riconosciuto dai Paesi membri dell'ONU, essendo considerato de iure parte della Moldavia.
La regione, precedentemente parte della Repubblica Socialista Sovietica Moldava, una delle ex repubbliche dell'Unione Sovietica, dichiarò unilateralmente la propria indipendenza come Repubblica Moldava di Pridnestrov'e il 2 settembre 1990. Dal marzo al luglio 1992 è stata interessata da una guerra terminata con un cessate il fuoco garantito da una commissione congiunta tripartita tra Russia, Moldavia e Transnistria e dalla creazione di una zona demilitarizzata tra Moldavia e Transnistria comprendente 20 località a ridosso del fiume Dnestr.
Durante gli ultimi anni ’80, la perestrojka di Michail Gorbačëv permise la liberalizzazione politica a livello regionale. L'incompleta democratizzazione era preliminare per il nazionalismo, che diventava la dottrina politica più dinamica. Qualche minoranza si oppose a questi cambiamenti nella classe politica della Repubblica di Moldavia, dato che nell'epoca dei Soviet i politici locali erano stati spesso dominati dai non-moldavi, particolarmente dai russi.
Le leggi sulla lingua introdussero l'alfabeto latino per la scrittura moldava, sebbene una significativa porzione della popolazione non-moldava della Repubblica Socialista Sovietica di Moldavia non parlasse il moldavo. Il problema delle lingue ufficiali nella Repubblica di Moldavia divenne un nodo. L'abolizione del russo come lingua ufficiale portò a proteste, in particolare nella parte orientale del paese, nella Regione della Transnistria (Pridnestrovie di oggi), dove il russo era la lingua della maggioranza della popolazione. Le tensioni tra i gruppi etnici in Moldavia si inasprirono poi drammaticamente all'inizio del 1990, quando cittadini membri della comunità russa furono aggrediti da alcuni manifestanti.
Nella regione della Transnistria i gruppi di popolazione di lingua russa (russi, ucraini, moldavi e altri) erano in maggioranza e videro i propri diritti minacciati da parte della nuova politica nazionalista in Moldavia. La leadership locale nella regione della Transnistria organizzò un referendum popolare nel 1990, dal quale risultò una maggioranza di oltre il 90% degli elettori che votarono per la secessione dal resto della Moldavia. In seguito all'esito della votazione popolare la regione della Transnistria dichiarò il 2 settembre 1990 unilateralmente la secessione e la formazione della nuova Repubblica Sovietica Pridnestrova di Moldavia. Inizialmente si perseguì l'obiettivo di essere riconosciuti come una repubblica sovietica indipendente all'interno dell'Unione Sovietica. Con la disintegrazione dell'Unione Sovietica, il 24 agosto 1991 il parlamento della Repubblica Socialista Sovietica moldava votò la dichiarazione di indipendenza dall'Unione Sovietica e la costituzione della nuova Repubblica di Moldavia, il cui territorio includeva la regione della Transnistria.
Un giorno dopo, il 25 agosto 1991, anche nella regione della Transnistria divenuta Repubblica Sovietica Pridnestrova di Moldavia il Soviet Supremo adottò a sua volta una dichiarazione di piena indipendenza dalla neocostituita Repubblica di Moldavia. L'obiettivo anche qui era la costruzione di un proprio stato, e qualsiasi legame con la nuova Repubblica di Moldavia fu respinto.
Il parlamento moldavo chiese al Governo dell'URSS di "iniziare le negoziazioni con il Governo moldavo e porre fine all'occupazione illegale della Repubblica della Moldavia e ritirarsi dal territorio moldavo", ritirando la 14ª armata da Tiraspol.
La Moldavia tuttavia, continuò a considerare la regione dell'ex Transnistria come parte del proprio territorio, pur avendo sempre avuto, di fatto, poca influenza sulla stessa. La Moldavia iniziò a costruire un proprio esercito e ricevette sostegno dalla Romania. Il 1º marzo 1992 ebbe inizio una guerra su scala limitata tra la Repubblica della Moldavia e la Repubblica Moldava di Transnistria. Con la Repubblica di Moldavia combatterono anche numerosi volontari provenienti dalla Romania, mentre dall'altro lato la Guardia Repubblicana formata per lo più da civili e da volontari russi e della vicina Ucraina ebbe il successivo appoggio delle forze della 14ª armata russa che rimase agli ordini del generale Aleksandr Ivanovič Lebed. L'esercito moldavo, trovandosi così in posizione di inferiorità numerica e di armamenti, fu sconfitto. (…)
La Russia continuò a sostenere 'de facto' il governo della Repubblica Moldava di Transnistria. Fu istituita una zona di sicurezza tra la Repubblica di Moldavia e la Repubblica Moldava di Transnistria, controllata da una Forza di pace congiunta (335 militari russi, 453 militari della Repubblica di Moldavia e 490 miliziani della Repubblica Moldava di Transnistria), sotto la supervisione di una Commissione di controllo congiunta. Nel 1998 alla Commissione si aggiunsero 10 osservatori militari ucraini.
Nel febbraio 2003 gli Stati Uniti d'America e l'Unione europea hanno imposto misure restrittive contro la leadership della Repubblica Moldava di Transnistria.
Nel territorio della Transnistria sono stanziati 2.000 militari russi, equipaggiati con armi leggere, a difesa dei consistenti depositi di munizioni lasciati in loco dalla 14ª armata dell'URSS.
Nel 2009, dopo che fu ipotizzata l'installazione di uno scudo antimissile statunitense in Romania, il presidente della Repubblica della Transnistria Igor Smirnov dichiarò il benestare per lo schieramento di un sistema di difesa antimissile russo sul territorio da lui controllato.
Nel luglio 2002, l'OSCE, la Russia e i mediatori dell'Ucraina approvarono un documento di principio per il ritorno della Moldavia a un sistema federale. Fondamentali divisioni si sono però incontrate sulla forma dello Stato e i poteri della federazione.
A metà novembre 2003, la Russia preparò un memorandum contenente una dettagliata proposta per la costituzione di uno stato federale moldavo unito. Pubblicato dapprima in Russia sul sito web del Ministero degli Esteri della Transnistria, il testo era promosso da Dmitrij Kozak, uomo di spicco dello staff del presidente Putin. Il memorandum Kozak rappresentava una rottura con la leadership della Transnistria, in quanto prevedeva che la Transnistria avesse uno status comune al resto della Moldavia.
Grandi dimostrazioni contro il memorandum Kozak ebbero luogo a Chișinău, capitale della Moldavia, nei giorni seguenti la sua pubblicazione. La leadership moldava rifiutò di firmarlo senza la coordinazione delle organizzazioni europee. Una visita del presidente Putin in Moldavia fu cancellata. La Moldavia e il memorandum Kozak furono all'ordine del giorno nell'incontro dei ministri dell'OSCE a Maastricht nel dicembre 2003. A causa del disaccordo tra la Russia da una parte e l'Unione europea e gli Stati Uniti dall'altra, la questione moldava fu una delle principali ragioni per cui una dichiarazione finale non fu adottata dopo il meeting. (…)
Durante la crisi il governo moldavo decise di isolare la repubblica separatista dal resto del paese, ma il blocco era inefficiente causa la mancanza di cooperazione del governo ucraino filo-russo di Leonid Kučma. La Transnistria reagì con una serie di azioni miranti a destabilizzare la situazione economica nella Moldavia, tagliando la fornitura elettrica che, in Moldavia, è in gran parte garantita da centrali costruite nella Transnistria nel periodo sovietico.
A Vienna, sotto la guida dell'OSCE si sono ritrovati il 27 e 28 settembre nel formato “5+2” i negoziatori di Chișinău, Tiraspol, oltre che i diplomatici russi, ucraini, nordamericani ed europei. Senza risultati clamorosi, i colloqui si sono focalizzati su due argomenti: libertà di movimento e garanzie per la prosecuzione dei negoziati. Tra i risultati tangibili si annovera la riapertura della linea ferroviaria Chișinău-Odessa (Ucraina) attraverso la Transnistria e il riallaccio delle linee di telefonia fissa delle due parti del Dnestr.
Le notevoli variazioni rispetto al censimento precedente fanno supporre che vi siano stati scambi di popolazione con la Moldavia a ovest del fiume Nistro. In sostanza i moldavo-romeni abbandonerebbero la Transnistria per trasferirsi ad abitare in territori controllati dal governo di Chișinău mentre gli slavi (ucraini e russi) migrerebbero verso il territorio controllato dalle autorità di Tiraspol. A lungo andare, se queste tendenze continueranno, si potrebbe avere una differenziazione etnica fra i territori che si affacciano sulle opposte sponde del Nistro: nella parte occidentale dominata dall'etnia moldavo-romena potrebbe scomparire l'etnia russa e ridursi a una piccola percentuale quella ucraina mentre nella parte orientale i moldavo-romeni potrebbero diventare minoranza.
Il gruppo etnico moldavo-romeno si presenta diviso tra fautori della Moldavia, fautori della grande Romania e sostenitori del governo in carica. Il gruppo etnico russo sostiene l'indipendenza della Transnistria o, in alternativa, l'annessione alla Russia. Gli ucraini infine sono divisi tra i sostenitori della Transnistria indipendente e i fautori dell'annessione all'Ucraina. (Chissà ora con l’aggressione russa all’Ucraina come saranno profondamente mutate queste posizioni…, n.d.r.).
Dal 1992 è dispiegato sul territorio della Transnistria un contingente di forze di pace sotto la gestione OSCE. Tale contingente è formato da truppe della Federazione Russa, della Moldavia e della Transnistria.
Nella Transnistria c'è un contingente di forze russe di pace, un battaglione con circa 412 persone, e una unità militare N. 13962 (o OGRF), due battaglioni che contano circa 1.000 persone. OGRF e il battaglione "peacekeeping" sono legati ai russi della Transnistria (in totale i 'russi' sono 150-160.000).
Il 18 marzo 2014 la Transnistria ha chiesto l'adesione alla Russia in seguito alla secessione della Crimea dall'Ucraina e alla sua integrazione nella Federazione Russa”. (Dati, cifre e ricostruzione degli avvenimenti sono tratti da Wikipedia).

La Transinistria ora teme la sua dipendenza di fatto da Mosca che la sostiene in tutto e per tutto sul piano esistenziale come sul piano economico. Uno staterello/non stato. Povero, ancora zeppo di simboli sovietici, molto indietro in tutto, a cominciare dai diritti civili. Scriveva Greta Cristini il 17 marzo 2022 su “Limesonline” (“Rapporto dal segmento meridionale del mondo russo. Tiraspol assiste alla guerra d’Ucraina, con il timore di esservi trascinata”): “Nella capitale della Repubblica Moldava di Pridniestrov (il termine Transnistria infastidisce i locali perché di matrice romena), il ristorante “Снова в СССР” (Ritorno all’Urss), fino a poche settimane fa meta preferita dei soldati russi, ora accoglie e sfama i profughi ucraini. È diventato raro difatti incontrare colbacchi lungo la Strada 25 ottobre, il corso principale che raccoglie fra gli altri i monumenti al generalissimo Aleksandr Suvorov, al carro armato T-34, il Consiglio supremo (parlamento), la Casa dei soviet e il parco intitolato a Caterina II, grande imperatrice di Russia”.

Incertezza e attesa che vengono confermate da un altro contributo, un interessante reportage dalla Transnistria, luogo in definitiva ignoto ai più. Lo firma su “il Post” il 20 marzo scorso Luca Misculin (“Per la Transnistria è difficile decidere da che parte stare”): “Nella piccola e autoproclamata repubblica della Transnistria, una regione della Moldavia la cui indipendenza non è riconosciuta da nessun paese al mondo, ci sono pochi segnali che a qualche chilometro di distanza sia in corso una guerra.
Mykolaiv, una delle città ucraine più bombardate dalle forze russe, dista appena 150 chilometri dall’autoproclamata capitale della regione, Tiraspol. La Transnistria (come la Moldavia) faceva parte dell’Unione Sovietica e oggi deve la sua stessa esistenza agli aiuti economici e militari che riceve dalla Russia. Da settimane circolano timori che l’esercito russo possa usare il territorio transnistriano come base per attaccare l’Ucraina da sud.
A Tiraspol però non ci sono segnali di una situazione eccezionale e la vita dei transnistriani sembra andare avanti in maniera ordinaria: come sempre, i ragazzi giocano a calcio nel parco dedicato a Caterina II, l’imperatrice russa considerata la rifondatrice della città, e persone di ogni età spendono nei bar e ristoranti i loro rubli locali, che hanno valore solo in questa sottile striscia di terra lunga circa 400 chilometri schiacciata fra il resto della Moldavia e l’Ucraina.
I legami tra i 500mila abitanti della Transnistria e la Russia sono stretti, ma lo sono anche quelli con l’Ucraina.
La Russia paga una pensione supplementare agli anziani transnistriani, fornisce loro gas a prezzi calmierati per riscaldare le case. Tiraspol è piena di statue dedicate a generali sovietici e bandiere russe. Eppure circa un quinto delle persone che abitano nella piccola repubblica autoproclamata ha la cittadinanza ucraina, e conosce parenti e amici costretti a scappare dalle proprie case a causa dell’invasione russa. Tenere insieme le due cose non è semplice: è per questo, forse, che il governo transnistriano non ha condannato né appoggiato l’invasione dell’Ucraina. È come se tutto il territorio vivesse un momento di sospensione.
Qualche traccia lasciata dalle guerra in corso però si vede. A pochi passi dal centro della città un’associazione di volontari, My ryadom (мы рядом, “Vi siamo vicini”), sta aiutando il governo autoproclamato a coordinare l’accoglienza delle persone che arrivano in Transnistria dopo essere scappate dall’Ucraina.
Secondo i dati a disposizione dell’associazione, al momento si trovano in Transnistria circa 9.500 profughi arrivati dall’Ucraina. Dmitri Voroniuc, responsabile dei volontari di My ryadom, racconta che molti di loro scelgono di venire in Transnistria «perché qui il costo della vita è inferiore a quello di Chișinău», la capitale della Moldavia, o perché hanno già una rete di famigliari e amici su cui possono contare. (…)
Sergei ha lavorato come direttore d’orchestra e parla un discreto italiano, ma sembra più interessato a parlare del suo vecchio lavoro che del momento che sta vivendo questo pezzo di mondo.
«Siamo assolutamente sicuri che le forze di peacekeeping che lavorano qui sapranno valutare la situazione», spiega sua moglie Natalia riferendosi alle centinaia di soldati russi stazionati in Transnistria dalla fine della guerra civile che le forze filorusse combatterono contro quelle filomoldave, nel 1992.
L’argomento della guerra viene trattato da tutti con grandissima circospezione. Alla domanda se sia semplice, per chi vive in Transnistria, tenere separato il fatto che le persone che stanno scappando dall’Ucraina lo fanno per via dell’invasione di un paese alleato come la Russia, Voroniuc risponde che i transnistriani empatizzano con gli ucraini perché a loro volta scapparono dalle proprie case durante la guerra civile, e che la «politica» e l’obbligo «morale» di aiutare persone in difficoltà rimangono su due piani diversi.
È singolare che Voroniuc definisca come una questione «politica» una guerra che in poche settimane ha causato migliaia di morti e milioni di profughi. Ma verosimilmente non ha molta scelta: My ryadom è ospite negli spazi di Obnovlenie, un partito politico moderato, per gli standard locali, ma allineato alla causa indipendentista e filorussa.
Anche l’autoproclamato governo della Transnistria è stato molto attento con le parole quando si è trattato di commentare l’invasione della Russia in Ucraina. L’autoproclamato presidente della Transnistria Vadim Krasnoselsky, che fra l’altro ha origini ucraine, ha definito «spiacevole» e «tragica» la guerra in Ucraina, ma non ha mai indicato la Russia come responsabile dell’invasione. La presenza delle forze di sicurezza transnistriane per le strade della capitale, Tiraspol, è assai limitata. «I media transnistriani parlano di quanti profughi arrivano e di come vengano assistiti dal governo, ma non danno aggiornamenti sullo sviluppo della guerra», racconta al Post Luiza Dorohsenco, giornalista e direttrice di un centro sull’informazione indipendente a Tiraspol.
Alcuni osservatori hanno ipotizzato che l’equidistanza che sta provando a tenere la Transnistria sia anche dovuta agli interessi commerciali di Sheriff, un gruppo di aziende che fanno capo a una specie di oligarca filorusso e che comprende una catena di negozi, stazioni di benzina e persino una squadra di calcio che qualche mese fa ha battuto il Real Madrid nella fase a gironi della Champions League. Un intervento a fianco della Russia destabilizzerebbe un’economia già fragile e poverissima: in estrema sintesi, farebbe perdere allo Sheriff una montagna di soldi.
«Non abbiamo segnali che facciano sospettare che la Transnistria, le sue forze di sicurezza o i soldati russi lì presenti si stiano preparando per attaccare l’Ucraina», ha detto di recente il ministro degli Esteri moldavo, Nicu Popescu. «Certo, se i russi si presentassero dai transnistriani dicendo che gli devono un favore, sarebbe difficile dire di no», ha detto a Defense News l’analista Thomas de Waal, esperto di Europa orientale del Carnegie Europe.
Girando per le strade di Tiraspol e leggendo gli ultimi sviluppi sui media locali nessuno sembra pensare a un pericolo imminente. Sotto la superficie, però, qualcosa forse si sta muovendo. Anja (nome di fantasia) racconta che i suoi genitori, proprietari di due negozi di elettronica, sono spaventati all’idea che il conflitto possa estendersi alla Transnistria, «e che qui possa succedere quello che è successo a Odessa o a Kharkiv, in Ucraina: è una cosa che li rende molto ansiosi. Nel caso, scapperemo nel sud della Moldavia, da dove viene la mia famiglia».”
Ma il 2 aprile una notizia di fonte ucraina riguardante la Transnistria – comunque da verificare, così come è da capire se e quale evoluzione avrà nei prossimi giorni - aumenta l’apprensione. Potrebbe trattarsi solo di consuete manovre ed esercitazioni militari. Se fosse invece vera, rischia di provocare il primo temuto allargamento della guerra oltre i confini occidentali dell’Ucraina. Così ne scrive Silvana Palazzo su “IlSussidiario.net” (“Transnistria, Ucraina: “Russia mobilita soldati”/Moldavia nega: “Attività al minimo”):
“La guerra scatenata in Ucraina dalla Russia rischia di allargarsi in Transnistria? La domanda sorge alla luce dell’allarme fatto scattare da Kiev, secondo cui i russi stanno riorganizzando le loro forze militari concentrate nell’entità separatista della Moldavia che confina con l’Ucraina. In particolare, è lo Stato maggiore ucraino in un comunicato a lanciare l’avvertimento. “Abbiamo notato un ridispiegamento delle truppe russe e le divisioni della autoproclamata repubblica di Transnistria per portare a termine azioni di provocazione, dimostrare la preparazione per un’offensiva e possibili azioni militari contro l’Ucraina”.
Questa mossa potrebbe preannunciare un forte attacco a Odessa, la città portuale più importante del Mar Nero. Del resto, ieri la Russia ha indirizzato i missili proprio su Odessa. Dunque, la Transnistria ha una importanza strategica di non poco conto. Si tratta di una zona che fa da “cuscinetto” tra Moldavia e Ucraina, il cui confine a Sud dista pochi chilometri a ovest da Odessa.
Anche se ufficialmente fa parte della Moldavia, la Transnistria è uno stato non riconosciuto, dichiaratosi fedele alla Russia dopo lo scioglimento dell’Urss. Ha una popolazione di appena 500mila abitanti e una forza militare di circa 1.500 persone. Non ospita solo le truppe di Vladimir Putin, ma è anche un deposito armi per la Russia. Sin dall’inizio della guerra in Ucraina gli analisti hanno monitorato la situazione, in quanto la Transnistria è il “trampolino” ideale per arrivare Odessa, che i soldati russi non riescono ad attaccare.
La Moldavia però ha smentito quanto dichiarato dall’Ucraina. In particolare, il ministero degli Esteri moldavo, come riportato da Forbes, in un tweet ha spiegato che non c’è “nessuna informazione per confermare la mobilitazione delle truppe nella regione della Transnistria”. Oltre a definire “assolutamente falsa” l’affermazione del dispiegamento di forze, ha spiegato che le unità militari nella regione sono “in luoghi di schieramento permanente” e che “anche le attività pianificate” sono state ridotte al minimo per attenuare le tensioni”.
Non rimane che sperare che abbia ragione la versione minimizzatrice del ministero degli esteri della Moldavia.

5.Siria degli Assad e Russia di Putin: qualcuno direbbe che tra “macellai” i patti sono saldi e durano decenni
Il legame tra Siria e Russia risale a ben più di mezzo secolo fa. Solido. Una certezza. Arrivato al potere nel 1966 manco a farlo apposta con un classico colpo di stato, lo spietato padre dell’attuale presidente sancì questo legame, lo siglò, lo coltivò, lo lasciò in eredità al figlio, sanguinario protagonista a sua volta di una feroce guerra civile che ha ridotto il paese in macerie. Una dinastia. Dittatore il padre, dittatore il figlio. Di quelli che, incollati al potere, non lo lascerebbero per nessuna ragione al mondo se non per morte naturale o violenta. Anche a costo di massacrare mezza popolazione. Anche a costo di distruggere nella guerra civile la nazione. Forti entrambi del sostegno del padrino di turno al Cremlino.

In questo paragrafo proveremo a ripercorrere, storicizzandolo, il saldissimo rapporto tra chi è sanguinario padrone a Damasco e chi lo foraggia e lo arma a Mosca.
Iniziamo da una disamina della strategia sovietica e post-sovietica nel Mediterraneo che nella Siria trova una sponda essenziale. O meglio un pilastro. Con punti di appoggio locati a lunga scadenza in comodato d’uso gratuito alle forze armate di Mosca e dai quali la Russia, come la storia insegna, non sloggerà mai. Scrive con efficacia Denise Morenghi il 10 novembre 2020 su “www.cesi.italia.org”, organo del Ce.S.I., Centro Studi Internazionali: “Secondo la celebre teoria del ‘Sea Power’ sviluppata dall’Ammiraglio Alfred Thayer Mahan nel 1890, il potere di una nazione è strettamente legato al dominio dei mari che la circondano, ottenuto attraverso il controllo dei principali stretti, la costruzione di basi navali e la capillare presenza della propria Marina. Tale paradigma risulta ancora oggi particolarmente utile per leggere la politica russa nel Mar Mediterraneo, alla luce dei recenti sviluppi. La Russia, potenza primariamente continentale, dagli albori dell’Impero ad oggi, passando per l’epoca sovietica, ha sempre cercato di garantirsi un accesso diretto al Mare Nostrum. Tale obiettivo è rimasto una costante nella politica estera del Paese, nonostante i numerosi rivolgimenti politici e l’evolversi delle motivazioni a sostegno di questa aspirazione.
A livello geografico, la Russia non gode di sbocchi diretti sul Mar Mediterraneo, da sempre attraversato da importanti tensioni geopolitiche, che si riverberano tanto in Europa, quanto in Medio Oriente. Stabilire una presenza nel Mare Nostrum consentirebbe a Mosca di inserirsi all’interno delle dinamiche europee e mediorientali e di giocare un ruolo di primo piano nella loro definizione. Per Mosca, inoltre, il Mediterraneo rappresenta un confine naturale della NATO: navigare liberamente nelle sue acque significa ampliare le opportunità di deterrenza nei confronti degli Stati Uniti e dei loro alleati, vantaggio particolarmente importante nel periodo della Guerra Fredda, che tuttavia gode di assoluto rilievo anche oggi. Negli ultimi anni la Russia ha perseguito una politica volta ad allargare la propria cintura di sicurezza, ponendola sempre più lontano dai propri confini territoriali, per scopi difensivi e preventivi. In tale ottica, Mosca considera il Mediterraneo Orientale come un’estensione del proprio confine meridionale sul Mar Nero. Ciò va interpretato soprattutto in relazione alla NATO, ma anche ai fattori di instabilità presenti all’interno del bacino del Mediterraneo, tra cui le diverse minacce statuali e non-statuali, nonché l’espansionismo dei nuovi player geopolitici che vi si affacciano. Infine, l’accesso al Mediterraneo attraverso il mar Nero è, per Mosca, condizione necessaria al transito del canale di Suez e, di conseguenza, all’Oceano Indiano, crocevia di importantissimi traffici commerciali.
La perdurante instabilità del Mediterraneo e i principali mutamenti geopolitici che si sono verificati nell’ultimo decennio, se da un lato hanno rappresentato un’importante sfida securitaria per tutti i Paesi dell’area, dall’altra sono stati sfruttati a proprio vantaggio da Mosca, che ha colto tale opportunità per muoversi più velocemente verso il conseguimento dei propri obiettivi strategici. In particolare, il ridimensionamento della presenza statunitense nel contesto mediterraneo ha lasciato un vuoto di potere che ad oggi non è ancora stato riempito, dando vita ad una complessa contesa, che vede parimenti coinvolti attori regionali, potenze emergenti e potenze globali. Correlatamente, in Russia il progressivo disimpegno statunitense ha innescato un netto cambio di postura nella politica estera, convenzionalmente inaugurato nel 2008 dalla guerra in Ossezia del Sud, caratterizzato da un maggior avventurismo e da un sostanziale ritorno alla politica di forza.
Questo, in relazione al bacino mediterraneo, si è reso osservabile già a partire dal 2014, con l’istituzione delle basi navali di Novorossiysk e Sevastopol in Crimea, sul Mar Nero. In assenza di basi stabili nel Mediterraneo, infatti, la Russia ha cercato di consolidare in primis la propria presenza nel Mar Nero, per proiettare tangenzialmente il proprio potere marittimo anche nel Mediterraneo. Le basi russe sul Mar Nero sono state dedicate al supporto logistico e al comando e controllo della Formazione Operativa Permanente della Marina Russa nel Mediterraneo, sin dalla sua creazione nel 2013, sotto il comando operativo della Flotta del Mar Nero. Peraltro, i mezzi di quest’ultima, pur essendo basati nel mar Nero, grazie al lungo raggio degli armamenti di cui sono dotati, godono di una sostanziale capacità di proiezione nel Mar Mediterraneo. Esempio primario è quello delle corvette di classe Buyan, dotate di sistemi di lancio verticale 3S-14 per i missili da crociera antinave Kalibr e Oniks, con raggio massimo di 1500 km che consente colpire con precisione obiettivi nel Mediterraneo. Già durante l’intervento in Siria, Mosca ha usato le corvette Buyan armate di missili Kalibr stanziate nel mar Caspio per colpire obiettivi sensibili a Raqqa ed Aleppo. Risulta dunque evidente il diretto collegamento tra Mediterraneo e Mar Nero nelle policies di sicurezza russe, peraltro reso esplicito anche nella dottrina navale russa del 2015, la quale evidenzia il legame tra i due bacini e la proiezione di influenza sulle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa.
Proprio il Medio Oriente, e in modo particolare la Siria, ha offerto alla Russia l’occasione di allungare la propria mano fino a lambire le coste mediterranee, segnalando l’inizio di una stagione di rinnovato impegno nell’area. Infatti, in cambio dell’intervento nel conflitto siriano a supporto del Presidente Bashar al-Assad, avvenuto nel 2015, Vladimir Putin ha ottenuto la trasformazione della base navale di Tartus da scalo commerciale e hub logistico a vero e proprio porto militare russo sul Mediterraneo. Tra il 2017 e il 2019 Putin e Assad hanno finalizzato un accordo per la concessione della base navale, a cui si è aggiunta la base aerea di Khmeimim, nelle vicinanze di Latakia, sempre sulla costa mediterranea, per un periodo di 49 anni, rinnovabili alla scadenza per successivi periodi di 25 anni, senza corrispondere alcun pagamento. Attualmente nella base di Khmeimim viene rischierata una media di venti velivoli, ma la capacità massima è ben maggiore, come osservato nel periodo di massima intensità dei combattimenti in Siria, nel 2016, quando Khmeimim ospitava circa quaranta mezzi. Per quanto riguarda Tartus, a partire dalla firma del patto, Mosca ha investito oltre 500 milioni di dollari per ampliare la base, ad oggi l’unica fuori dal territorio nazionale russo. Il porto di Tartus oggi può ospitare fino ad un massimo di undici navi militari di piccola-media taglia, principalmente corvette, pattugliatori e navi ausiliarie. Non è adatto, invece, ad ospitare le principali navi della Marina Russa, di lunghezza superiore ai 100 metri. Inoltre, la base di Tartus ospita una forza stabile di sottomarini, in numero variabile tra le due e le quattro unità. Si tratta principalmente di sottomarini classe Kilo, in grado anch’essi di lanciare missili classe Kalibr. A livello strategico, la presenza di una base russa con sottomarini d’attacco direttamente nel bacino mediterraneo permette a Mosca di mantenere una notevole power projection, nonché capacità di deterrenza, garantita dal firepower dei suoi sommergibili lanciamissili e delle sue corvette. Tale capacità, inoltre, può essere esercitata senza il necessario passaggio per gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che in precedenza obbligava la Russia a contravvenire alla Convenzione di Montreux, secondo la quale, sebbene il controllo degli stretti sia appannaggio della Turchia, in tempo di pace i Paesi stranieri possono far transitare le proprie navi commerciali e militari dal mar Nero al Mediterraneo. La convenzione, tuttavia, prevede che i sottomarini possano transitare solo per effettuare la manutenzione tecnica, pretesto usato dalla Russia prima della conversione di Tartus a base militare per il passaggio dei propri sottomarini.
Oltre ai mezzi dispiegati nelle basi siriane, la Russia ha installato radar di scoperta a lungo raggio e sistemi di difesa antiaerea sia a Tartus che a Khmeimim, per una difesa multilivello, strutturata su tre strati: il livello più esterno è costituito dal sistema S-400 Triumf e dall’S-300V4. Nello strato più esterno sono inoltre integrati alcuni sistemi S-200VE in forze all’esercito siriano. Il livello intermedio, invece, si basa sui sistemi installati a bordo degli incrociatori classe Slava, principalmente S-300FM e Buk-M2E, entrambi a medio raggio. Infine, il livello più interno è costituito dai classici sistemi missilistici terra-aria a corto raggio Osa-AKM, S-125 Pechora e Pantsir-S2. Tale complessa architettura di difesa aerea costruita in Siria dalla Russia risulta un vero e proprio game changer per gli equilibri geostrategici della regione: in precedenza, Mosca poteva contare solo sui sistemi installati a bordo delle sue unità navali dispiegate nelle vicinanze, mentre ora gode di un ombrello difensivo sofisticato e completo. Questo, non solo permette la difesa dei contingenti militari russi dispiegati nella regione, i quali possono operare in sicurezza in un ambiente poco permissivo e molto conteso, ma soprattutto impediscono e regolano l’accesso allo spazio aereo circostante, neutralizzando la minaccia balistica degli avversari e aumentando conseguentemente il peso militare russo nelle dinamiche regionali. La base di Tartus fornisce dunque un ampio spettro di vantaggi strategici a Mosca, tra cui figurano una più ampia proiezione di forza in tutto il bacino del Mediterraneo, in Europa e nel Medio Oriente, nonché la possibilità di fornire supporto logistico alla Marina russa, senza più dover transitare attraverso il Bosforo. Tale nuovo posizionamento è stato salutato, tra il novembre 2016 e il gennaio 2017, dalla campagna navale del gruppo Admiral Kuznetsov nel Mediterraneo, formato dall’omonima portaerei, dall’incrociatore lanciamissili Pietro Il Grande, da due fregate di classe Udaloy con missili guidati e alcune unità ausiliarie, che ha segnato l’inizio di una fase ascendente per la presenza russa nel Mare Nostrum”.
Ma facciamo un passo indietro e ripercorriamo dagli inizi la storia della stretta connessione tra Damasco e Mosca.
“La Russia ha sostenuto l'amministrazione del presidente della Siria in carica Bashar al-Assad sin dall'inizio del conflitto siriano nel 2011: politicamente, con aiuti militari e (dal settembre 2015) attraverso la missione in Siria (in russo: Миссия в Сирии Missiya v Sirii) con intervento militare diretto. Il dispiegamento del 2015 in Siria segnò il primo caso, dopo la fine della Guerra Fredda nel 1991, in cui la Russia entrò in un conflitto armato fuori dei confini appartenuti all'Unione sovietica.
Dall'ottobre 2011 la Russia, come membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha posto ripetutamente il veto alle proposte di risoluzione, sostenute dal mondo occidentale, al Consiglio stesso, che chiedevano le dimissioni del presidente siriano Bashar al-Assad e che aprivano la possibilità di sanzioni delle Nazioni Unite contro il suo governo. I vertici politici russi respingono le richieste delle potenze occidentali e dei loro alleati arabi intese ad escludere Bashar-al-Assad dalla partecipazione alla composizione del conflitto siriano. Tra gennaio e febbraio 2012 il consiglio nazionale siriano di opposizione e le potenze occidentali rigettarono le iniziative di pace russe.
Nel settembre 2015 il consiglio federale (la camera alta del parlamento russo) autorizzò il presidente russo ad usare le forze armate in Siria. I russi iniziarono a colpire con attacchi aerei e missilistici l'ISIS, l'Esercito di conquista, il Fronte al-Nusra, e l'Esercito siriano libero. La Russia fornì anche armamenti e supporto aereo alla Turchia e alle Forze Democratiche Siriane nelle rispettive operazioni contro l'ISIS in Siria.
Nel corso dell'intervento, gli attacchi aerei russi sono risultati controversi, per aver apparentemente preso di mira di proposito ospedali e strutture sanitarie ed anche per aver ucciso parecchie migliaia di civili. Per questo motivo la Russia perse il suo seggio nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Uno studio di Airwars rilevò un aumento del 34% negli incidenti con danni a civili causati dalla Russia nei primi sei mei del 2018 rispetto al 2017.
Durante la Guerra fredda (1947—1991), la Siria fu alleata dell'Unione Sovietica contro le potenze occidentali, e si formò un forte legame politico. Tra il 1955 e il 1958 ricevette 294 milioni di dollari dall'Unione Sovietica in assistenza militare ed economica. La crisi di Suez nel 1956 accelerò un'intensificazione dei legami tra Siria e Unione Sovietica, parallelamente alla crescita, in termini di potere e di influenza, del Partito Ba'ath siriano.
La rivoluzione siriana (leggi: colpo di stato, n.d.r.) del febbraio 1966 diede all'Unione Sovietica l'opportunità di fornire ulteriore appoggio alla Siria. Nel 1971, grazie ad un accordo con il presidente del governo ba'athista siriano, Hafiz al-Asad, fu concesso all'Unione Sovietica di aprire la sua base navale di Tartus, il che costituì una presenza stabile sovietica in Medio Oriente. Migliaia di ufficiali delle forze armate siriane e di professionisti siriani con formazione accademica studiarono in Russia durante il trentennio presidenziale di Hafiz al-Asad (1971—2000).
Nell'ottobre 1980, Siria e Unione Sovietica siglarono un trattato ventennale di amicizia e cooperazione. All'inizio della Guerra civile siriana (2011), la Siria era una dei più stretti alleati della Russia in Medio Oriente.
La base navale russa di Tartus in Siria è la sola struttura militare navale russa nella zona del Mediterraneo e la sola struttura militare rimanente al di fuori di quella che era l'URSS. È stato sostenuto che l'ubicazione della base a Tartus possa aver orientato l'atteggiamento della Russia, favorevole a conservare il governo di Assad per la stabilità della zona.
Almeno fino alla metà del 2013 volontari ceceni e altri russi ciscaucasici hanno combattuto nella guerra civile siriana contro il governo di Bashar al-Assad. The Washington Post nel 2014 riferì che Mosca era preoccupata che questi combattenti rientrassero in Russia dopo aver stabilito contatti con militanti in Siria.
Con riferimento al settembre 2015 si stimò che fossero 2.500 i cittadini russi che militavano nell'ISIS e il presidente Putin dichiarò che il loro ritorno in Russia sarebbe stato una minaccia per la stessa, e che sarebbe stato meglio combatterli sul territorio siriano.
Gli interessi economici russi in Siria, tra cui il commercio di armi, sono proposti come una delle ragioni per il suo sostegno al governo. Tuttavia, secondo Foreign Affairs, le considerazioni economiche pesano meno di quelle geopolitiche.
A fine maggio 2011 il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov dichiarò che la Russia si opponeva al coinvolgimento delle Nazioni Unite in Siria perché "la situazione non presenta una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali … la Siria è un Paese molto importante in Medio Oriente e destabilizzare la Siria avrebbe ripercussioni oltre i suoi confini".
Il 4 ottobre Russia e Cina opposero un doppio veto contro una risoluzione proposta dall'Occidente al Consiglio di sicurezza. La risoluzione chiedeva che terminasse ogni violenza e che i responsabili fossero puniti, condannava le "gravi e sistematiche" violazioni dei diritti umani, auspicava un processo politico, incoraggiava l'opposizione a parteciparvi, e diceva che il Consiglio di sicurezza avrebbe verificato l'ottemperanza della Siria alla risoluzione per 30 giorni dopo di che il Consiglio avrebbe "considerato opzioni", tra cui imprecisate "misure" ai sensi della Carta delle Nazioni Unite. Il New York Times lo definì "un blando riferimento alla possibilità di sanzioni contro Damasco", mentre la Russia disse che non avrebbe accettato una risoluzione che prevedesse anche solo un'allusione alle sanzioni.
Dalla fine di gennaio 2012 era stata presentata dalle potenze occidentali e arabe una proposta di risoluzione — alternativa alla bozza russa del 15 dicembre — che, al contrario, non condannava la violenza da entrambe le parti del conflitto e non escludeva l'intervento militare. La Russia indicò che non sarebbe stata d'accordo con la bozza occidentale-araba nella sua forma di quel momento, e che avrebbe continuato a sostenere la propria risoluzione al Consiglio di sicurezza. Il 4 febbraio 2012 Russia e Cina opposero il veto alla risoluzione al Consiglio di sicurezza caldeggiata da occidentali e arabi, che spingeva Bashar al-Assad ad aderire al piano di pace delineato dalla Lega araba.
Il 9 settembre 2013, reagendo alle minacce USA di incursioni sulla Siria in risposta all'uso di armi chimiche in Siria, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov rese nota una proposta intesa ad evitare un attacco USA, disponendo che la Siria ponesse le proprie armi chimiche sotto controllo internazionale per la successiva distruzione”. (Dati, cifre, ricostruzione degli avvenimenti sono tratti da Wikipedia).
Del ruolo della Russia in Siria in termini di analisi costi/benefici traccia un primo bilancio, molto lucido, intitolato “L’intervento russo in Siria: interessi e criticità”, Elia Preto Martini sulle pagine di “OSMED-Osservatorio sul Mediterraneo” del 21 gennaio 2022: “Sebbene solo recentemente si sia tornato a parlare dell’interesse di Mosca per il Mediterraneo, esso è in realtà un caposaldo più che secolare della politica estera russa. Da una prospettiva di lungo periodo, infatti, l’impero russo, prima, e l’Unione Sovietica poi, hanno avuto un forte interesse verso quest’area strategica. Il ventennio che separa il crollo dell’Urss dal coinvolgimento militare di Mosca a fianco del regime di Bashar al-Assad può essere quindi interpretato più come un’eccezione storica che come una tendenza geopolitica strutturale della regione euromediterranea. Questo “ritorno” della Russia è stato sicuramente favorito dall’ascesa al potere di Vladimir Putin, il quale ha adottato una politica estera molto aggressiva, combinata ad alti investimenti nel settore militare. Lo scoppio della guerra civile siriana si è rivelata quindi l’opportunità perfetta per permettere a Mosca di tornare a proiettare la propria forza militare in Medio Oriente.
La scelta di adottare questo approccio interventista da parte dei policymaker russi si basa su una molteplicità di motivazioni politiche e militari. In primo luogo, la decisione della Russia di prendere parte alla guerra civile è stata giustificata dalla paura che il terrorismo islamico, rappresentato in particolar modo dall’Isis, potesse proliferare fino ai suoi confini meridionali. A seguito dello scoppio della guerra civile, infatti, il regime di Assad è collassato, permettendo la nascita di una serie di centri di potere in diretta competizione per assicurarsi il controllo del paese. Tra questi vanno menzionati certamente i gruppi ribelli attivi contro il presidente, le forze leali al governo di Damasco e, soprattutto, le milizie dello Stato islamico che hanno posto una minaccia vitale alla stabilità dell’area.
In secondo luogo, l’intervento russo in Siria va interpretato alla luce delle attuali rivalità con alcuni paesi occidentali, tra tutti gli Stati Uniti. In anni recenti, le principali personalità operanti nell’ambito della difesa russa hanno percepito la sponda meridionale del proprio paese come una zona debole nel caso di un confronto diretto con le truppe occidentali. Per questo motivo, la decisione di scendere in campo al fianco delle forze di Assad andrebbe anche interpretata non come una scelta offensiva, quanto piuttosto come il tentativo – per ora riuscito – di evitare che le forze occidentali possano dominare in maniera esclusiva il Mar Mediterraneo. Ciò è molto importante se si considerano i limiti geografici che influenzano le ambizioni di Mosca nella regione. La Russia, infatti, non possiede uno sbocco diretto in quest’area ed è pertanto costretta a fare affidamento sul duplice passaggio attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Questa situazione è stata mitigata dalla presenza stabile di flotte russe nel porto siriano di Tartus, in particolar modo a partire dal 2015.
In terzo luogo, l’intervento russo nella guerra civile è stato giustificato dal timore che, in caso di un mancato coinvolgimento militare, Mosca non avrebbe potuto esercitare una solida influenza sulla ricostruzione politica ed economica del paese. Si è già fatto riferimento alla frammentazione della Siria in diversi centri di potere, spesso influenzati direttamente da alcune potenze straniere. Tra tutti, va menzionata la presenza delle forze di Hezbollah, stanziate principalmente nella zona di confine con il Libano e guidate informalmente dall’Iran. Sebbene la Russia sia entrata nel conflitto a fianco di Assad – e quindi anche della Repubblica Islamica e delle sue milizie proxy – in futuro potranno sorgere notevoli complicazioni nel rapporto tra Mosca e Teheran, soprattutto a causa del tentativo di entrambi i paesi di garantirsi i numerosi contratti riguardanti la ricostruzione delle infrastrutture siriane. In questo quadro, il ruolo della Turchia e degli Stati Uniti risulta essere ancora più critico. Nel primo caso, Ankara ha supportato una fazione opposta a quella di Mosca e i rapporti bilaterali tra questi due paesi si sono incrinati in anni recenti per via delle posizioni opposte su alcuni dossier chiave della regione, tra cui la guerra civile libica e il conflitto del Nagorno Karabakh. (Andrebbe poi aggiunto lo scacchiere libico. Comunque negli ultimi periodi le relazioni tra Ankara e Mosca sono migliorate, n.d.r.). Nel secondo caso, la questione va inquadrata all’interno della più ampia rivalità globale tra Russia e Stati Uniti che non si esaurisce solamente nel teatro siriano, al quale, peraltro, Washington ha partecipato supportando le Forze Democratiche Siriane ostili al regime di Assad, ma anche in una serie di dossier legati alla politica interna di entrambi i paesi, come testimoniato dal caso Russiagate emerso durante la presidenza Trump. È comunque certo che gli Stati Uniti in anni recenti hanno alleggerito la loro presenza navale nelle acque del Mediterraneo Orientale e ciò ha permesso un aumento dell’influenza russa nella medesima area.
Ad ogni modo, dopo un decennio dallo scoppio delle Primavere arabe è possibile formulare una prima valutazione riguardo all’intervento russo in Siria. Innanzitutto, Mosca ha ottenuto una serie di vantaggi economici che hanno in parte bilanciato le spese sostenute per entrare in guerra – che nel 2016 ammontavano a 483 milioni di dollari. Nel periodo 2011-2014 la vendita di armi al regime di Assad ha raggiunto la cifra di 1,4 miliardi di dollari. Un dato, questo, calato drasticamente a partire dal 2015 con l’entrata della Russia nel conflitto. Inoltre, nel 2019 il parlamento siriano ha conferito a due compagnie russe, la Mercury LLC e la Velada LLC, il diritto esclusivo di esplorare ed estrarre gas nella zona economica esclusiva del paese. Questa scelta permetterà a Mosca di aumentare il proprio peso nella competizione energetica globale con un nuovo ruolo nel Mediterraneo orientale. Altrettanto importanti sono i contratti siglati dalla Siria con alcune compagnie russe per la ricostruzione delle sue principali infrastrutture andate distrutte durante il conflitto.
È opportuno, però, sottolineare che, in una valutazione di ampio respiro, i vantaggi economici ottenuti giochino un ruolo solamente parziale. Essi devono, infatti, essere bilanciati con i numerosi obiettivi strategici, raggiunti o meno, che la Russia ha cercato di perseguire in Siria. Da un lato, l’intervento russo ha avuto successo nel garantire la sopravvivenza al regime di Assad, cambiando l’inerzia della guerra civile. Ciò ha inoltre contribuito a sconfiggere, almeno nel teatro siriano, lo Stato islamico, recentemente riorganizzatosi nel Sahel e in Africa Orientale. Infine, la Russia ha incrementato notevolmente il suo ruolo di prestigio in Medio Oriente e nel Mediterraneo, soprattutto in virtù dei rapporti bilaterali rafforzati con Israele, Egitto e alcuni Stati arabi del Golfo.
Dall’altro lato, è necessario menzionare gli obiettivi russi che non sono stati propriamente raggiunti. Innanzitutto, nonostante il prestigio ritrovato, Mosca non ha per ora eguagliato il primato statunitense nella regione, come testimoniato dal ruolo rivestito da Washington nella firma degli Accordi di Abramo. Inoltre, i policymaker russi sembrano non essere stati in grado di capitalizzare l’influenza raggiunta in Medio Oriente. In questi anni, infatti, il dialogo con l’Europa non è progredito in maniera significativa e le sanzioni stabilite a seguito dall’invasione della Crimea nel 2014 continuano a danneggiare l’economia russa. Infine, la già citata questione delle influenze esterne in Siria continuerà a proiettare molte incertezze nelle scelte diplomatiche russe, almeno finché lo scenario politico post-guerra civile non sarà delineato con maggior chiarezza.
In conclusione, bilanciando benefici ottenuti e costi sostenuti, si può considerare l’intervento russo in Siria un successo strategico nazionale. Rispetto ad un decennio fa, il paese può infatti contare su una presenza navale più stabile nel Mediterraneo, una posizione diplomatica più prestigiosa e un crescente ruolo economico nella regione, anche se quest’ultimo non sembra fare affidamento sugli strumenti tradizionali, come commercio e investimenti bilaterali, quanto piuttosto sulla vendita di armi, sul riciclaggio di denaro e sull’export di gas e petrolio. In ultima istanza, però, l’influenza di Mosca sul paese levantino sarà indissolubilmente legata al futuro politico di Assad. Se il presidente siriano manterrà la sua attuale posizione anche dopo la fine della guerra civile, la scommessa russa si rivelerà probabilmente vincente. In caso contrario, esiste il rischio che i numerosi vantaggi ottenuti possano andare perduti a causa del nuovo sistema di alleanza che i futuri governi di Damasco decideranno di instaurare nella regione, magari spostando il baricentro diplomatico del paese verso Occidente”.

6.I russi sono diventati padroni di mezza Libia
L’indagine sulla presenza russa in Libia riprende la lettura dell’analisi di Denise Morenghi “Dalla Crimea alla Libia, passando per la Siria, la Russia si espande nel Mediterraneo” pubblicata il 10 novembre 2020 dal Ce.S.I., il Centro Studi Internazionali che ha sede a Roma. Nota la Morenghi: “Sfruttando le possibilità offerte dalla sua presenza in Siria, Mosca ha in seguito cercato di ritagliarsi una sempre maggiore libertà di movimento all’interno del Mediterraneo, intervenendo in vari scenari di instabilità con l’obiettivo di allargare la propria area di intervento e di influenza. Primo tra questi è stata la guerra civile in Libia. Già nel 2008 Putin aveva discusso con Gheddafi della costruzione di una base militare russa a Bengasi, finalizzata a controbilanciare l’influenza statunitense in Africa. Lo scoppio della guerra civile e il ritiro degli Stati Uniti dalla regione sono stati sfruttati abilmente da Mosca la quale, sostenendo le forze del Generale Khalifa Haftar attraverso il gruppo paramilitare privato Wagner Group, si è configurata come un interlocutore fondamentale per la determinazione del futuro del Paese. In questo modo, la Russia ha ampliato il proprio raggio d’azione, allargando la propria strategia mediterranea oltre la Siria e fino alle coste del Nord Africa. Oltre a Bengasi, diverse fonti indicano Tobruk, nella parte orientale della Libia, controllata dalle forze di Haftar, come punto ideale per l’eventuale costruzione di una base navale russa. Questo consentirebbe al Cremlino da un lato di avvicinarsi militarmente ancor di più ai territori dell’Alleanza Atlantica, mentre dall’altro di supportare il processo di espansione della propria presenza, peraltro già strutturata, nel continente africano.
Il ruolo della Russia in Libia ha permesso a Mosca di rafforzare anche le relazioni con gli altri attori allineati con Haftar: innanzitutto l’Egitto, ormai importante variabile della strategia regionale russa. Negli ultimi cinque anni, infatti, Mosca e il Cairo hanno intensificato considerevolmente le proprie relazioni, specialmente dal punto di vista militare. Nel 2016 Russia ed Egitto hanno svolto una grande esercitazione congiunta nel deserto di Alam Al-Khadem, e nell’ottobre 2019 si è svolta la più grande esercitazione aerea tra i due Paesi, chiamata Arrows of Friendship seguita, nel dicembre 2019, dall’esercitazione navale Friends Bridge 2019 e dall’edizione 2020, che si svolgerà nel mar Nero. Apice delle buone relazioni è stato l’accordo, firmato nel 2017, che permette alla Russia di accedere alle basi di Alessandria e Mersa Matruh, entrambe situate sulla costa mediterranea, utili sia allo sforzo bellico in Libia, sia ad un’ulteriore proiezione di forza nell’area. Inoltre, dal 2013, in coincidenza con la riduzione delle vendite da parte statunitense, Mosca è uno dei maggiori fornitori di armi all’Egitto: recentemente, ad esempio, è stato annunciato che a partire dal 2020 è iniziata la consegna dei 24 Sukhoi Su-35 venduti dalla Russia all’Egitto, per un totale di 2 miliardi di dollari.
Peraltro, la proliferazione di tecnologie militari russe negli ultimi anni si è resa osservabile in tutto il perimetro mediterraneo, a sottolineare un trend legato non solo ai ritorni economici, ma anche all’avanzamento degli obiettivi di sicurezza nazionale e difesa del Paese, secondo i principi della weapon diplomacy: innanzitutto, va segnalata la vendita degli S-400 alla Turchia, fortemente condannata dagli Stati Uniti e dalla NATO. Altro Paese che gode di forti relazioni con Mosca nel campo del commercio di equipaggiamenti e mezzi militari è l’Algeria, specialmente dopo che nel 2006 la Russia ha cancellato il debito dovutole del Paese. Negli ultimi anni la vendita di armi russe all’Algeria ha subito un aumento del 129% rispetto alla decade successiva, per un totale di 26 miliardi di dollari: tra le ultime consegne, si registrano 14 Sukhoi S-30, 2 corvette Tirg armate con missili da crociera e due sottomarini di tipo Black Hole. Il trend ascendente sottolinea la consolidazione dei rapporti russo-algerini nel dominio della difesa, che potrebbe fornire il presupposto per una maggiore cooperazione nell’ambito. Infatti, la vendita di armi, per la Russia, è uno strumento per creare consenso e legami duraturi di co-dipendenza, specialmente in materia di sicurezza. Questo soprattutto dove gli Stati Uniti, per ragioni differenti, non godono di un ruolo importante nel settore della vendita di equipaggiamenti militari, lasciando un vuoto che Mosca può sfruttare per espandere la propria influenza.
La postura adottata dalla Russia nel Mediterraneo trova le sue radici nella visione che Mosca ha del contesto internazionale: negli ultimi anni il Cremlino ha sperimentato un crescente accerchiamento da parte occidentale, testimoniato tra le altre cose dal dispiegamento dei sistemi di difesa missilistica NATO THAAD in Polonia, l’imposizione di sanzioni alla Russia in relazione alla crisi in Ucraina nel 2014, e dall’Esercitazione statunitense Europe Defender 2020. In questo contesto, la postura di Mosca nel Mediterraneo dimostra la volontà primaria di reagire al percepito accerchiamento, rispondendo in modo provocatorio per bilanciare il potere euro-atlantico nella regione. Mosca mira inoltre ad indebolire la posizione di Stati Uniti, UE e NATO, ma anche della Turchia, nel cosiddetto near abroad, dove persegue da sempre l’aspirazione di porsi come ago della bilancia all’interno degli equilibri politici e militari e di pilotare le diffuse instabilità a suo favore.
Ad oggi Mosca sembra essere riuscita a presentare un fait accompli, imponendo la propria presenza nel nuovo status quo mediterraneo e nelle sue dinamiche. Con tutta probabilità, nel breve e medio termine il ruolo della Marina russa nel Mediterraneo rimarrà duplice: quello della difesa avanzata contro le minacce dirette verso il territorio russo attraverso il mar Nero e quello della deterrenza, finalizzato a limitare le operazioni degli Stati Uniti e della NATO, specialmente nell’area del Mediterraneo Orientale. A questi si aggiunge poi la proiezione di forza, specialmente garantita dalla flotta corvette e di sottomarini lanciamissili basati a Tartus, i quali probabilmente diverranno mezzi privilegiati per dispiegamenti anche più lontani dalle coste siriane. La rinnovata presenza russa, infine, contribuisce tanto direttamente quanto indirettamente alla crescente militarizzazione dello spazio mediterraneo, con il rischio concreto di esacerbare le tensioni già presenti in quest’ultimo, soprattutto in un periodo caratterizzato da forti conflittualità che vedono coinvolti tanto attori regionali quanto medie potenze in ascesa”.

In realtà quello che vige in Libia è un duopolio russo-turco. I primi hanno istituito ad Oriente un protettorato di fatto nella Cirenaica e nell’area sottostante ricca di giacimenti di idrocarburi. I turchi sono tornati ad occidente, a Tripoli e in Tripolitania, dove, sconfitti, erano stati cacciati via dagli italiani nel 1911 ai tempi coloniali della conquista della Libia. Ci vuole poco a capire che con questi chiari di luna la Libia non tornerà più ad essere uno stato unitario. Tutti i tentativi operati in questa direzione negli ultimi anni sono miseramente falliti. Di fatto esistono ora due stati: la Cirenaica e la Tripolitania. Con due “protettori” che faranno di tutto per mantenere lo status quo e controllare le ricche riserve energetiche di cui il deserto libico è custode. Tutto questo ai confini meridionali dell’Italia.

Scrive “Limes” l’8 marzo 2021 in un articolo intitolato non a caso “La spartizione turco-russa delle Libie”: “Tra l’aprile 2019 e il luglio 2020 Mosca ha sostenuto (in)direttamente la marcia del feldmaresciallo Khalifa Haftar (comandante dell’Esercito nazionale libico, Enl) verso Tripoli, mentre Ankara ha contribuito attivamente alla difesa della capitale e delle posizioni del Governo di accordo nazionale (Gna), riconosciuto dall’Onu. (Il Governo di accordo nazionale è anche definito con l’acronimo Gnu: Governo di unità nazionale, n.d.r.).
Al termine del conflitto, il confine tra la Libia turca e quella russa è stato posto lungo la linea Sirte-Ğufra, frontiera potenzialmente estendibile sino al Fezzan. Negli ultimi mesi Turchia e Russia hanno discretamente consolidato la propria presenza militare rispettivamente in Tripolitania e Cirenaica.
Ankara dispone di numerosi avamposti sulla costa mediterranea: da Zuwāra a Misurata, passando naturalmente per Tripoli. (…)
Dal canto suo Mosca – soprattutto mediante il Gruppo Wagner – ha stabilito postazioni militari volte a proteggere la “mezzaluna petrolifera”, tra le massime poste in gioco del conflitto libico. Fortificando inoltre le installazioni militari dell’Esercito nazionale libico del generale Haftar funzionali alla protezione dei terminal petroliferi”.

E sono proprio le troppe basi straniere presenti nel colabrodo libico, oltre alle troppe milizie armate locali, a vanificare ogni tentativo di portare la pace e la riunificazione nel paese. Lo dimostra chiaramente Ferruccio Michelin in un articolo dal titolo “Libia, ecco le basi straniere che complicano il processo di pace” pubblicato il 10 dicembre 2020 sulla testata quotidiana online “www.Formiche.net” nel quale si scrive ovviamente anche delle immancabili basi russe: “La vicenda della nave turca messa sotto sequestro dalle forze ribelli della Cirenaica con l’accusa di aver trasportato in Libia armi verso la Tripolitania ruota — anche per spinta propagandistica haftariana — attorno a uno dei temi enormi sullo sfondo dell’instabile situazione nel Paese. Gli attori esterni hanno prima rinforzato i propri proxy, aiutandoli nei mesi di conflitto, e adesso – nonostante l’Onu sia impegnato in un processo di contatto molto sponsorizzato ma molto poco fruttuoso – puntano a consolidare le proprie postazioni. Ankara per esempio ha già individuato nella base aerea di al Watiyah, verso il confine tunisino, e in quella navale di Misurata due dei propri punti di aggancio a misura permanente.
Ma chiaramente la Turchia non è sola in queste mire. Secondo le informazioni in possesso di Formiche.net, quelle due a Ovest sono soltanto alcune delle postazioni in cui gli attori esterni al conflitto vorrebbero stabilizzarsi. Proviamo a fare una veloce carrellate sulle altre, forse incompleta. Ad Al-Jufra, nell’entroterra di contatto tra Tripolitania e Cirenaica, ci sono i russi, che hanno schierato nella base anche assetti aerei più volte tracciati dal Pentagono; i russi si trovano anche ad Al-Qordabiya a Sirte, città costiera sulla verticale che separa le due macro-regioni libiche e per lungo tempo oggetto del contendere tra le due parti dopo che nel 2015 era stata occupata dallo Stato islamico; la Russia è presente anche in due installazioni nel sud-sudovest, Brak al Shati (non lontano dal campo Eni di El Feel) e Tamanhent, entrambe condivise con gli Emirati Arabi. Gli emiratini ospitano i russi anche ad Al-Khadim, una base aerea in piena Cirenaica, non distante dalla roccaforte haftariana di Bengasi, usata dalle forze aeree Uae come appoggio per i droni di fabbricazione cinese Wing Loong che hanno bombardato più volte Tripoli nei mesi passati. Gli emiratini sono anche a Benina, un aeroporto internazionale dual-use in cui potrebbero ancora esserci unità speciali francesi; le stesse potrebbero anche essere ad Al-Wigh, nel sud dove il Fezzan si perde nel deserto. Gli Emirati infine condividono con l’Egitto la base aerea Gamal Abdel Nasser che si trova a Tobruk, mentre gli egiziani hanno una postazione propria nei pressi del confine cirenaico a Martuba.
A fianco di questi dispiegamenti, che potremmo definire più formali, ce ne sono diversi altri clandestini. Piccole unità piazzate anche in ambienti civili, oppure in accampamenti nelle aree rurali. È del tutto possibile che ci siano forze occidentali – oltre a quelle che l’Italia schiera a Misurata, dove all’aeroporto c’è un ospedale militare da campo delle Forze Armate – così come svariate tipologie di contractor (o mercenari). È certo che i turchi abbiano spostato in Libia un contingente di miliziani siriani fedeli, così come lo stesso hanno fatto i russi. Altrettanto chiaro – ne sono uscite diverse immagini nei mesi passati – è che i russi gestiscano la presenza libica attraverso i contractor del Wagner Group, una società militare privata usata dal Cremlino per operazioni ibride (o meglio dire per far fare il lavoro sporco militare senza insegne). A proposito di questo, recentemente l’AfriCom, il comando del Pentagono che segue l’Africa, ha reso pubblica un’analisi secondo cui gli emiratini stanno pagando l’uso in Libia degli uomini della Wagner. Altrettanto recentemente l’ispettorato generale del Pentagono ha rilasciato un altro studio in cui ha individuato le attività di diversi Paesi sulla Libia: si parla di supporto diplomatico alle due parti, ma anche militare, economico, di intelligence e nel settore della disinformazione (dove Turchia e Russia guidano le attività di infowar per entrambi i lati)”.

Stando così le cose è legittima non solo la preoccupazione per quanto succede ad est del nostro paese ma anche per i posizionamenti che non da uno o due mesi si sono radicati a sud dell’Italia e, in particolare, della Sicilia. Come nota correttamente Alessandro Scipione il 2 marzo 2022 su “InsideOver” in un articolo intitolato “La Russia alle porte della Sicilia”: “Molti sono preoccupati per le possibili ripercussioni della guerra tra Russia e Ucraina in Italia: bollette elettriche e prodotti della filiera agroalimentare come la pasta e il vino potrebbero subire nuovi vertiginosi rincari; il settore del turismo rischia di perdere oltre un milione di clienti e un miliardo di euro di indotto; migliaia di profughi potrebbero unirsi ai 230 mila ucraini che vivono oggi nel nostro Paese. Tutto vero, ma c’è anche dell’altro. Per gentile concessione del presidente francese Emmanuel Macron, del capo dello Stato egiziano Abdel Fatah al Sisi e del generale libico Khalifa Haftar, a meno di un’ora di volo dalla Sicilia migliaia di mercenari russi armati fino ai denti occupano le sabbie del deserto della Libia.
Non bisogna arrivare fino in Ucraina per trovare una concreta presenza militare russa alle porte dell’Unione Europea. Da tempo l’ex Quarta sponda dell’Italia è infestata dai mercenari del Gruppo Wagner alleati di Haftar, l’uomo forte della Cirenaica noto in Italia per aver sequestrato i pescatori di Mazara del Vallo e umiliato l’ex premier italiano Giuseppe Conte. Secondo l’ultimo rapporto del Panel di esperti delle Nazioni Unite, in Libia vi sarebbero almeno 2.000 uomini della Wagner dotati di sistemi di difesa anti-aerei Pantsir S-1, caccia MiG-29 e soprattutto di bombardieri tattici Su-24, impiegati principalmente per l’attacco al suolo. Una vera e propria spina nel fianco sud dell’Alleanza atlantica, oltre che una testa di ponte sul quale Mosca può appoggiarsi per penetrare in Africa.
Nonostante i ripetuti (e finora vani) appelli per il ritiro, la Russia non sembra avere alcuna intenzione di andarsene dalla Libia. La “Linea Maginot” del deserto scavata dai proxy di Mosca, ben visibile perfino da immagini satellitari open source, sembra progettata da chi intende rimanere a lungo. Si tratta di almeno 30 posizioni difensive scavate nel deserto e sui pendii che si estendono per 70 chilometri circa. “Penso che chi scava una trincea e tali fortificazioni non se ne andrà tanto presto”, aveva commentato alla Cnn l’allora ministro della Difesa dei Tripoli, Salah al Din al Namroush, a inizio 2021. E se un anno dopo i russi sono ancora lì, la colpa è anche della Francia che è stata colta in Libia con le mani nella marmellata a sostenere i fallimentari piani di conquista di Haftar.
Una cosa va detta chiaramente: le forze schierate da Mosca in Libia, peraltro in modo ufficioso, NON sono in grado di colpire direttamente l’Italia. Secondo i dati di Africom, il Comando Usa che si occupa di Africa, la Russia avrebbe portato di nascosto almeno 14 MiG-29 e “diversi” Su-24 nella base aerea di Jufrah, che si trova nella Libia centrale a oltre 800 chilometri dalla Sicilia. Ci vuole molto di più di una squadriglia di piloti mercenari inesperti per impensierire le difese anti-aeree della quarta potenza Nato. Ma a Tripoli è in atto una lotta per il potere in stile Trono spade e la divisione del Paese è sempre più dietro l’angolo. Il vero rischio, almeno per il momento, è quello di azioni “di disturbo” in questioni strategiche per l’Italia come il contenimento dei flussi migratori, la lotta al terrorismo, la stabilità politica e l’unità della Libia, il flusso di gas libico che arriva a Gela, in Sicilia, tramite il metanodotto Greenstream”.

Le differenti posizioni tra i governi della Cirenaica, che ospita i russi, e della Tripolitania (governo riconosciuto dall’Onu e “protetto” da Ankara) emergono nelle rispettive prese di posizione sul conflitto scoppiato in Ucraina per l’intervento russo. Ne scrive il 27 marzo Sofia Cecinini su “Sicurezza Internazionale”, il quotidiano dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale dell’Università LUISS. L’articolo approfondisce il tema del ruolo non solo militare ma anche politico in Libia nei confronti delle due entità, chiamiamole così, semi-statuali di Bengasi e di Tripoli. Da una parte si combattono e dall’altra hanno tutto l’interesse a mantenere lo status quo. Titolo: “Libia: il governo Dbeibeh condanna le mosse della Russia in Ucraina”: “Il Governo di Unità Nazionale (GNU) (quello riconosciuto dall’Onu e dall’Occidente, n.d.r.) si è unito alla comunità internazionale nel condannare le mosse della Russia in Ucraina, invitando Mosca a calmarsi e a ritirare le forze schierate al confine ucraino.
Nella dichiarazione emessa dal Ministero degli Esteri del GNU il 22 febbraio, si legge che la Libia “rifiuta di riconoscere l’indipendenza della cosiddetta Repubblica popolare di Donetsk e della Repubblica popolare di Lugansk”, aggiungendo che Tripoli si appella alla Russia affinché si astenga dal lanciare qualsiasi operazione militare contro la Repubblica ucraina. “Riaffermiamo il nostro impegno per la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina”, continua la dichiarazione, condannando altresì la “presenza illegale” dei mercenari del Wagner Group russo sia in Ucraina sia Libia. “Chiediamo alla Russia di usare il linguaggio della diplomazia e del dialogo invece della violenza e della guerra”, conclude il comunicato.
La Russia è stato uno dei primi Paesi a esprimere il proprio sostegno al premier designato dalla Camera dei Rappresentanti il 10 febbraio, Fathi Bashagha. (Le elezioni politiche generali in Libia erano già state annullate a dicembre a seguito di una rottura della fragile tregua tra milizie e fazioni che si era registrata nel 2021, n.d.r.). Quattro giorni dopo la sua nomina, la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha commentato gli sviluppi politici in Libia, riferendo che Mosca sta seguendo da vicino lo sviluppo della situazione in Libia, presumendo che la formazione di un nuovo governo sia una prerogativa degli stessi libici. “In questo caso, la maggioranza dei membri della Camera dei Rappresentanti, che è un organo di rappresentanza creato sulla base di un voto popolare, ha votato a favore della candidatura di Bashagha”, dunque, ad avviso di Zakharova, la scelta parlamentari libici dovrebbe essere rispettata.
Il 21 febbraio, il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, in occasione di un discorso prima dell’undicesima conferenza in Medio Oriente del Valdai International Discussion Club, che è stato letto dal suo vice Mikhail Bogdanov, ha dichiarato che il suo Paese intrattiene relazioni con tutte le principali forze politiche in Libia. “Manteniamo legami sostenibili ed equilibrati con tutte le principali forze politiche a Ovest, Est e Sud della Libia”, ha affermato nel discorso, aggiungendo di sperare che il rinvio delle elezioni generali previste per il 24 dicembre 2021 non provochi un’escalation delle tensioni militari e politiche o non rallenti il processo politico. Lavrov ha riferito altresì che la Russia sta cercando di spingere i politici libici verso un dialogo costruttivo per raggiungere una soluzione di compromesso. A suo avviso, il fatto che non ci siano state operazioni di combattimento ad alta intensità in Libia, per più di un anno, sia un cambiamento positivo significativo.
Come nota al-Monitor, nel complesso, la posizione della Russia sembra coerente. Il leader militare Khalifa Haftar, il presidente della Camera dei Rappresentanti, Aguila Saleh, e l’ex vice primo ministro, Ahmed Maiteeq – che in precedenza erano considerati i favoriti di Mosca in Libia – hanno tutti partecipato al processo di nomina e approvazione della candidatura di Bashagha a nuovo capo del governo. Occorre notare che, tuttavia, anche le relazioni tra la Russia e il GNU sono state piuttosto redditizie. Le due parti hanno lavorato insieme all’attuazione di progetti economici nel campo della produzione petrolifera, alla creazione di strutture intergovernative permanenti e all’instaurazione di contatti in ambito militare. Non a caso, la Russia ha espresso il proprio sostegno a Bashagha senza fare commenti negativi su Dbeibeh.
In passato, Mosca ha cercato di prendere le distanze dal premier designato dalla Camera dei Rappresentanti, evitando ogni contatto con lui nonostante lo stesso Bashagha stesse cercando occasioni per instaurare legami. Il fatto è che Bashagha, secondo quanto riportato dai media russi, sarebbe stato responsabile del rapimento e della detenzione dei sociologi russi Maksim Shugalei e Samer Seifan, che hanno trascorso molti mesi in una prigione libica, controllata dai gruppi armati legati a Bashagha.
La posizione della Russia nei confronti di quest’ultimo, tuttavia, ha iniziata a cambiare alla fine del 2021, con Mosca che ha accettato l’associazione di Bashagha al blocco di Haftar e Saleh. Se adesso il Cremlino e Bashagha fossero davvero pronti a lavorare insieme, si tratterebbe di un grande un grande successo per la Russia in Libia. Mosca è stata in grado non solo di mantenere l’influenza sui suoi ex favoriti, Saleh e Haftar, ma anche di assicurarsi che i principali politici della Libia occidentale, come Bashagha, siano pronti ad agire nel suo interesse. In questo modo, l’influenza russa in Libia crescerà sempre di più.
L’esperto di Libia Jalel Harchaoui, ha spiegato che, nel giugno 2020, Bashagha aveva promesso che la base aerea di “Qardabiyah avrebbe cessato di essere una struttura russa”, riferendosi alla struttura a Sud di Sirte. Adesso, invece, a seguito delle nuove alleanze strette da Bashagha, è improbabile che quest’ultimo ostacoli la presenza russa presso le basi di Qardabiyah, al-Khadim, al-Jufrah. Ciò contribuisce a spiegare perché Mosca ha da subito sostenuto Bashagha.
Detto questo, è troppo presto per affermare che la Russia ritirerà il proprio riconoscimento del governo Dbeibeh, in quanto le principali fonti di finanziamento della Libia sono ancora concentrate nelle mani del capo della GNU, con la leadership della Banca centrale che lo sostiene ancora.  Inoltre, molte fazioni di Misurata, Tripoli, Zawiya e altre regioni sono pronte a schierarsi dalla sua parte. Pertanto, sottolinea al-Monitor, molto probabilmente, la Russia adotterà un approccio attendista e lascerà aperta una possibilità per tornare al dialogo con il GNU, nel caso in cui il progetto del nuovo esecutivo guidato da Bashagha dovesse fallire.
Nel frattempo, il 22 febbraio, l’ufficio media del di Bashagha ha annunciato che le consultazioni sulla formazione del suo governo si stanno svolgendo in modo regolare ed efficace, senza alcun ostacolo, sottolineando che “la formazione dell’esecutivo terrà conto degli standard di competenza, capacità e ampia partecipazione nazionale”. L’ufficio ha confermato che la formazione ministeriale sarà presentata alla Camera dei Rappresentanti per acquisire fiducia nella data prevista, ovvero il 24 febbraio”.
Emerge da questa analisi dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale della LUISS – peraltro piuttosto “comprensiva” nei riguardi della Russia – tutta l’abilità di Mosca di destreggiarsi con la sua consueta dose di distinguo, bugie di stato e cinismo nel complicatissimo scenario libico. Rimane il dato di fatto che la presunta “coerenza” russa si afferma più che altro nel “fare le scarpe” all’attuale premier Dbeibeh e nell’appoggiare un nuovo premier designato: Bashagha. Ovviamente gradito all’amico di Mosca generale Haftar.

7.L’Africa Nera, la nuova frontiera dell’espansionismo russo
Veniamo adesso alla recente, repentina avanzata dell’espansionismo russo in altre aree del continente africano oltre alla Libia. Nell’Africa centrale subsahariana, territorio da sempre di influenza francese, i militari di Parigi – non graditi a parte delle oligarchie locali al potere – se ne vanno e i russi prendono il loro posto secondo una costante che vede gli uomini di Mosca - come quelli di Pechino, del resto - riempiere il vuoto lasciato dai paesi occidentali, sia Stati Uniti che paesi europei.
Scrive “Settimana News” in un articolo intitolato “Espansionismo russo in Africa” l’1 marzo 2022: “In Africa la Russia suona la musica di Wagner e l’uscita della Francia dal Mali è una vittoria della Russia di Putin. La presenza di mercenari di Mosca rappresenta per Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa”.
Così si argomenta nella circostanziata analisi: “Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa.
Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte.
Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filo russo. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.
L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale. Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.
Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”.
I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Luhansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso.
Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi Paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan.
In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci Paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.
L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese.
Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime. Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.
La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.
Dal punto di vista economico, non è da trascurare, la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale.
Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese”. (L’articolo è stato pubblicato anche sulla rivista “Africa”).
A proposito di Africa e Russia i due importanti contributi che seguono recano la firma di Jean Léonard Touadi - funzionario della Fao e docente di geografia dello sviluppo in Africa nell’Università “La Sapienza” di Roma - che per “Radio radicale” cura la rassegna stampa settimanale sull’Africa. Sono stati pubblicati da “AffarInternazionali.it”.
Il primo - titolo “Rassegna stampa africana: le divisioni nel continente sulla guerra in Ucraina” – pubblicato il 17 marzo scorso: “La notizia della prima settimana di marzo è il voto dell’Assemblea generale ONU, risoluzione contro la guerra in Ucraina, dove il continente africano si è dimostrato molto diviso.
Attraverso il voto all’Assemblea generale del 2 marzo le scelte africane si sono particolarmente differenziate e un lungo articolo di Le Point Afrique ne offre un’analisi. “È importante ricordare che le risoluzioni dell’Assemblea generale, contrariamente a quelle del Consiglio di sicurezza, non hanno carattere vincolante, ma un importante valore simbolico sul piano della politica internazionale. Se fino ad adesso sembrava difficile sondare gli umori dell’Africa, dopo il voto in sede ONU le divisioni sono evidenti per quanto concerne le strategie dei paesi africani nei confronti di Mosca”.
Soltanto 28 paesi africani hanno votato a favore della risoluzione e tra i 35 astenuti figurano Sudafrica, Mali, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Angola, Algeria, Burundi, Madagascar, Namibia, Senegal, Sudan del Sud, Sudan, Uganda, Tanzania e Zimbabwe. Si sono astenuti paesi con importanti rapporti politici ed economici con Mosca e che, come il Mali e la Repubblica Centrafricana, sono interessati dalla presenza della compagnia russa di mercenari Wagner, a seguito del ritiro delle forze francesi. L’Angola, come il Mozambico, si è astenuta per lo storico supporto ottenuto durante le lotte contro la colonizzazione portoghese.
“In regola generale, più i legami con la Russia sono stretti sul piano economico, militare e politico e più le risposte africane sono suscettibili di essere moderate, spiegano gli esperti”, riporta Le Point Afrique. “In altri casi l’attualità bruciante della guerra in Ucraina e soprattutto il ruolo della Nato ricorda ad alcuni le divisioni che hanno attraversato l’Unione africana per quanto riguarda la risoluzione del Consiglio di sicurezza del 2011 contro il regime di Gheddafi. Per molti Stati africani quella risoluzione del Consiglio di sicurezza aveva come scopo la protezione dei civili e invece è giunta al rovesciamento di Gheddafi, per cui il dibattito è ancora di attualità”. Per un’altra categoria di paesi africani ancora, “l’avvicinamento alla Russia è recente. Questi hanno quindi interesse a non rovinare i rapporti appena creati con la Russia e conseguentemente hanno optato per l’astensione dal voto”.
Per alcuni paesi, come il Senegal, la scelta di astenersi è giustificata dalla vecchia tradizione del non-allineamento. “Il Presidente della Repubblica del Senegal, esprimendo la sua grave preoccupazione di fronte alla situazione in Ucraina, ha anche riaffermato l’adesione del Paese al principio di non-allineamento e di regolamento pacifico dei conflitti”.
Una nota dell’articolo di Le Point viene dedicata all’assenza del Marocco dal voto, “che in un comunicato chiarisce di aver preso una decisione sovrana che non deve fare oggetto di alcuna interpretazione rispetto alla posizione del Regno sulla guerra tra Russia e Ucraina. Esprimendo la sua inquietudine e preoccupazione sull’evoluzione della situazione il Regno del Marocco fa uso del termine ‘escalation militare’ anziché ‘invasione’”. Inoltre, continua Le Point, “il Regno del Marocco ricorda che nonostante la sua assenza, è forte il suo attaccamento al rispetto dell’integrità territoriale, della sovranità e dell’immunità nazionale di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, e al regolamento dei conflitti attraverso mezzi pacifici, secondo i principi del diritto internazionale”.
Sempre attinente alle dinamiche che ruotano attorno alla guerra e invasione russa in Ucraina, un reportage di The Guardian firmato da Lorenzo Tondo, riporta e racconta le discriminazioni di quanto sono stati oggetto i rifugiati non ucraini, con origini africane o mediorientali, che fuggivano dall’Ucraina e che cercavano di superare il confine con la Polonia. “Oltre a subire respingimenti al confine per le loro origini non ucraine, una volta entrati in Polonia alcuni rifugiati sono stati aggrediti da gruppi polacchi di estrema destra che hanno giustificato gli atti con notizie false che riferivano che questi rifugiati avrebbero aggredito delle donne, e derubato case”. (…)”

Il secondo contributo dello stesso autore che riportiamo, dal titolo “Rassegna stampa africana: l’Africa tra insicurezza alimentare, inflazione e gas”, è stato pubblicato, sempre su “AffarInternazionali.it”, il 22 marzo 2022: “Malgrado la sua distanza geografica dall’Ucraina e dalla Russia, il continente africano è il primo a risentire del conflitto in corso. Insicurezza alimentare, inflazione ed esportazione di gas sono alcuni degli aspetti principali che questa rassegna affronta nel dettaglio.
Andando oltre le conseguenze più evidenti del conflitto russo-ucraino, l’articolo scritto da Giuseppe Cavallini per Nigrizia ci permette di tener conto anche delle ripercussioni della guerra e delle conseguenti sanzioni occidentali alla Russia sulle economie e sulla sicurezza alimentare in Africa. Gli ultimi eventi legati al conflitto “hanno fatto impennare i prezzi dei cereali e dell’olio, cosa che potrebbe portare a condizioni di fame in gran parte dell’Africa e in vari casi portare in strada la popolazione esasperata”. Citando l’analista del South African Institute of International Affairs (SAIIA), Steven Gruzd, l’articolo di Nigrizia continua ritenendo “che l’insicurezza alimentare avrà conseguenze molto gravi a causa del conflitto in corso, considerato che la Russia è il maggiore esportatore di grano in Africa e l’Ucraina è al quinto posto. I paesi del Nordafrica, tra cui l’Egitto, il maggior partner commerciale della Russia, risentiranno maggiormente l’impatto delle sanzioni imposte a Mosca”. A causa delle sanzioni dell’Unione europea “Mosca ha già pianificato un’espansione delle operazioni commerciali in Africa, in cambio di prodotti quali frutta, tè e caffè”, è quanto dichiarato dal vicepresidente della Camera di commercio e dell’industria della Russia.
Tuttavia, Mosca non è l’unico attore con interessi economici, finanziari e politici in Africa. L’articolo di Nigrizia prosegue infatti offrendo un’analisi del ruolo della Cina, “la quale, dal canto suo, è ormai operativa in tutto il continente per mezzo di investimenti in infrastrutture di vario genere, prestiti e contratti commerciali. Secondo il già citato Steven Gruzd, l’ammontare del commercio cinese con l’Africa è già oltre dieci volte superiore a quello russo e in caso di ulteriore riduzione dei rifornimenti dalla Russia, la Cina sarebbe la nazione favorita nel rimpiazzare Mosca. C’è però tra gli economisti sudafricani chi sostiene che, più che la Cina, saranno l’Unione europea, gli Stati uniti e il Canada i meglio piazzati per soddisfare la necessità di grano e olio, in quanto la potenza asiatica non produce cereali e olio a sufficienza per coprire il fabbisogno dell’Africa, dato che – pur essendo tra i maggiori produttori di cereali – gran parte di quanto raccolto va a coprire il fabbisogno interno”. (…)
La Direttrice del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Kristalina Georgieva, è tornata sulle conseguenze dell’invasione russa in Ucraina sulle economie africane. Un altro articolo di Jeune Afrique riporta le sue parole, secondo cui “l’Africa è particolarmente vulnerabile agli impatti della guerra in Ucraina attraverso quattro canali principali: prezzi alimentari e prezzi del carburante più alti, minori entrate dal turismo e potenziali maggiori difficoltà di accesso ai mercati internazionali dei capitali”. L’articolo di Joël Té-Léssia Assoko riferisce inoltre che “il FMI è pronto ad aiutare i paesi africani a far fronte alle conseguenze della guerra e a progettare e attuare le riforme attraverso consulenze politiche, sviluppo delle capacità e prestiti”.
Mentre insicurezza alimentare e instabilità politica in Africa sono identificate come i principali risultati e conseguenze dell’invasione russa in Ucraina, molti analisti vedono in questa crisi un’opportunità per i paesi africani ricchi di petrolio e gas per rappresentare un’alternativa alle forniture russe. Secondo un articolo di Al Jazeera, scritto da Festus Iyorah, “i paesi europei faranno di tutto per trovare una rete alternativa di rifornimento”. Considerata l’impossibilità di Qatar e dei paesi esportatori di gas (GEFC) di fornire una quantità considerevole di gas all’Europa in sostituzione di quello russo, “si è così acceso un dibattuto sulla possibilità per i paesi africani, che detengono alcuni tra i più importanti giacimenti di gas del mondo, di potersi fare avanti per riempire il vacuum, rispondendo a una domanda annua di 150-190 miliardi di metri cubi forniti abitualmente dalla Russia all’Europa”.
Festus Iyorah aggiunge che “la Tanzania – al sesto posto in Africa per le sue riserve di gas, per un volume stimato di 1,6 miliardi di metri cubi – afferma di essere al lavoro con la Shell per usare le sue enormi riserve di gas offshore ed esportarle in Europa e altrove, e la Nigeria dichiara di voler costruire un gasdotto trans-sahariano che porti il gas del paese in Algeria e da lì in Europa”.
Nell’articolo di Al Jazeera vengono però sollevate alcune incertezze circa la possibilità che i paesi africani possano offrire un’alternativa temporanea adeguata, data la mancanza di infrastrutture. Difatti, “secondo gli esperti, una mancanza storica di investimenti nelle infrastrutture per il gas ha ostacolato il settore energetico nell’Africa subsahariana, a differenza di quanto accaduto in Nordafrica”. Secondo l’analisi offerta da Festus Iyorah, molti paesi africani con grandi riserve di gas hanno avuto difficoltà ad attrarre investimenti per realizzare progetti di infrastrutture per il gas a causa di problemi tecnici e operativi, come in Angola, o per i rischi posti da guerriglie e insicurezza, come in Mozambico”.
8.I serbi della Bosnia-Erzegovina guardano a Putin
Banja Luka, il capoluogo dei serbo-bosniaci della Bosnia-Erzegovina, dista 419 chilometri da Trieste, 394 da Ancona, 497 da Roma. Per descrivere cosa potrebbe bollire in pentola da quelle parti è necessario tornare alle sanguinose pagine della guerra etnica che dilaniò la ex Jugoslavia dal 1991 al 1995:
“La storia della Bosnia fino alla morte di Tito, alla successiva lenta disgregazione del regime comunista jugoslavo, alla caduta del Muro di Berlino e alla fine della Guerra fredda, coincide con quella della Jugoslavia. Alla morte di Josip Broz Tito nel 1980 vi fu una turnazione di presidenti che detenevano il potere per un anno. Le Olimpiadi invernali del 1984 diedero una visibilità internazionale alla Bosnia ed Erzegovina.
In seguito ad un periodo di instabilità politica, sociale ed economica, la Jugoslavia venne scossa dall'emergere di movimenti nazionalisti, che il dirigente della Lega dei Comunisti di Serbia Slobodan Milošević seppe manovrare facendo leva sull'idea di Grande Serbia.
Sovvertendo lo stato di diritto, che all'epoca era già piuttosto instabile, utilizzando le frange violente delle tifoserie da stadio organizzate in milizie paramilitari, l'Esercito regolare della Jugoslavia socialista (l'Esercito Popolare Jugoslavo, JNA) e i dirigenti serbi dell'Alleanza Socialista di Jugoslavia (comunisti jugoslavi), Milosevic in Bosnia ed Erzegovina usò la tattica già sperimentata in precedenza in Croazia. In tale contesto, sostenne lo psichiatra e poeta Radovan Karadžić, criminale di guerra arrestato dopo lunga latitanza e condannato per crimini di guerra e di genocidio dal TPIY, il Tribunale ONU a L'Aia, e il lungamente latitante (16 anni di latitanza conclusasi con l'arresto il 26 maggio 2011) Ratko Mladić, anch'egli condannato per crimini di guerra e di genocidio. Nel frattempo, Milošević nel giugno 1991 promosse prima la guerra in Slovenia (conclusasi dopo pochi giorni con il ritiro serbo-jugoslavo) e poi la guerra in Croazia, cercando di fare in tutti i modi e in tutti i sensi "terra bruciata", come pure fu denominata l'operazione. La Bosnia ed Erzegovina fu coinvolta involontariamente in tale furia bellica per vari motivi e a vari titoli.
Quando poi la Bosnia ed Erzegovina, in seguito al referendum sull'indipendenza dalla Federazione jugoslava creata da Tito (la consultazione popolare si svolse in conformità alla Costituzione jugoslava dell'epoca), il 3 marzo 1992 proclamò la propria indipendenza, la guerra si abbatté con inaudita furia su Sarajevo e sulle altre parti del Paese. Cominciò l'assedio di Sarajevo e un'estenuante lotta per la sopravvivenza della popolazione inerme. Dopo quattro anni di assedio della capitale, dopo il Massacro di Srebrenica e gli errori commessi in quella circostanza e in altre occasioni da parte dell'UNPROFOR, la forza di protezione ONU, la Comunità Internazionale decise di intervenire militarmente in modo concreto, ponendo così fine ad uno dei più atroci conflitti europei del Novecento e imponendo al contempo i contestatissimi Accordi di Dayton.
Alla fine delle guerre balcaniche la Bosnia ed Erzegovina è stata posta sotto tutela internazionale, divisa in unità amministrative e ha richiesto di poter essere riconosciuta nel processo di allargamento dell'Unione europea. Essendo stata la regione jugoslava più colpita dalla guerra, la comunità internazionale lavora per ristabilire un sistema giudiziario, politico, amministrativo ed economico nella nazione, combattere la corruzione e la criminalità, ristabilire un sistema economico sano e conforme al mercato europeo.
La riforma costituzionale del sistema di Dayton è stata all'ordine del giorno per tutto lo scorso decennio, senza esito. La Bosnia vi è arrivata più vicino nel 2006, con le riforme del "pacchetto di aprile" (Aprilski Paket), che tuttavia sono state battute per due voti in Parlamento. Successivi incontri nel 2009 (processo di Prud) e 2012 non hanno avuto esito. A partire dal 2006, inoltre, con l'arrivo al potere nella Republika Srpska del partito SNSD di Milorad Dodik, ha avuto avvio una relazione più conflittuale tra il livello statale e il livello sub-statale, con ripetute minacce secessioniste da parte della Republika Srpska dei serbo-bosniaci.
Nel dicembre 2007 la Bosnia ed Erzegovina ha sottoscritto con l'Unione europea l'accordo di Stabilizzazione e Associazione, primo passo per l'integrazione europea. Nell'aprile 2008 il Parlamento bosniaco ha adottato la riforma della polizia, condizione che da tempo l'Unione europea ha posto alla Bosnia ed Erzegovina per firmare l'accordo di pre-adesione. L'accordo di Stabilizzazione e Associazione è stato firmato il 16 giugno 2008. A seguito del fallimento nel 2014 della riforma costituzionale per allineare la Costituzione bosniaca alla Convenzione europea sui diritti dell'uomo, per quanto riguarda l'elettorato passivo delle minoranze alla Presidenza e alla Camera alta (caso Sejdic-Finci), l'UE ha modificato la propria condizionalità, indicando l'adozione di una agenda di riforme socioeconomiche come condizione per l'entrata in vigore dell'Accordo di Stabilizzazione e Associazione. Tale accordo è quindi entrato in vigore il 1º giugno 2015.
A fine 2010 sono stati inoltre rimossi i requisiti di visto Schengen per i cittadini bosniaci.
Il 7 ottobre 2018 si sono svolte le elezioni parlamentari e presidenziali, le ottave dal Dopoguerra, per eleggere la Presidenza e la Camera dei rappresentanti a livello statale, la Camera dei rappresentanti della Federazione, l’Assemblea nazionale e il Presidente e i vicepresidenti della Republika Srpska, le assemblee parlamentari a livello locale, per un totale di 518 cariche elettive.” (Fonte: Wikipedia)
Decisamente complicato l’ordinamento statuale:
“La Bosnia ed Erzegovina è composta da due entità territoriali e un distretto che appartiene a entrambe le entità:
Federazione di Bosnia ed Erzegovina
Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina
Distretto di Brčko, territorialmente composto da territori di entrambe le entità avendo autonomie amministrative proprie.
L'ex repubblica iugoslava della Bosnia ed Erzegovina è stata di fatto spartita in due zone, la Federazione croato-musulmana (51% del territorio) e la Repubblica serba (il restante 49%).
Ciascuna delle due zone ha un proprio ordinamento che, nel caso della prima, prevede una complessa gerarchia di ruoli e responsabilità volta a garantire il mantenimento di buoni rapporti di convivenza tra le etnie musulmana (bosgnacca) e croata cattolica.
Tale architettura amministrativa e politica si ripete per la Presidenza centrale della repubblica, al cui vertice stanno tre membri eletti a suffragio universale in rappresentanza delle tre etnie.
Secondo gli Accordi di Dayton, è stata istituita la figura dell'Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, la più alta autorità civile del paese, a cui spettano compiti di controllo, di monitoraggio e supervisione relativi all'Annesso X dell'Accordo di Dayton (Aspetti civili), nonché potere di imposizione di provvedimenti legislativi e di rimozione di pubblici funzionari che ostacolino l'attuazione della pace.
La nomina dell'Alto Rappresentante è effettuata dallo Steering Board del Peace Implementation Council (PIC), un organo di 55 Stati ed organizzazioni internazionali (di cui l'Italia è membro permanente) ed è approvata ufficialmente dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
La Presidenza della Bosnia ed Erzegovina è un organo collegiale composto da tre membri che costituisce l'autorità massima della federazione. I tre membri sono eletti direttamente dal corpo elettorale e in modo contestuale ogni quattro anni; ognuno dei tre membri rappresenta uno dei tre popoli costitutivi: i bosgnacchi, i serbi e i croati. Ciascun membro assume a rotazione la carica di presidente della presidenza per un periodo di otto mesi. In caso di decesso o impossibilità di uno dei membri della Presidenza, la Camera dei rappresentanti nomina il sostituto.
Alla Presidenza fa capo la politica estera; essa nomina inoltre gli Ambasciatori e il Presidente del Consiglio dei ministri centrale”. (Tutte le informazioni sull’assetto istituzionale della Bosnia-Erzegovina sono state tratte dalla voce omonima in Wikipedia).

Dunque un equilibrio artificioso e precario. Per la verità più “libanese” che “svizzero” anche se si parla di cantoni. Nel quale stanno facendo breccia tendenze secessioniste che vedono protagonista interessata la componente nazionale serbo-bosniaca. Molto legata a Belgrado cioè alla “madrepatria” Serbia. E a Mosca.
Scrive Linda Caglioni su “Il Fatto Quotidiano” il 27 marzo 2022 (“La guerra ucraina scuote la Bosnia. Tensione alta con i serbi: tra crisi economica, elezioni vicine si rischia l’escalation”):
“Da qualche tempo camminando per le strade di Sarajevo può capitare di cogliere un rumore cupo e lontano, una specie di traccia sonora che a intermittenza fa da sfondo al traffico della città. È il suono prodotto dalle esercitazioni compiute nel cielo della Bosnia-Erzegovina dall’Eufor, la forza di pace dell’Unione europea che, dopo l’esplosione della crisi ucraina, si è affrettata a predisporre l’invio di nuovi contingenti per tutelare il piccolo Paese balcanico. Con l’instabilità politica determinata soprattutto dal leader serbo bosniaco Milorad Dodik che aspira alla secessione della Republika Srpska (una delle due entità che compone il Paese insieme alla Federazione croata-musulmana), la Bosnia rappresenta infatti uno tra i contesti che rischia maggiormente di risentire della guerra in Ucraina. Timori che sono stati messi in luce dal presidente del Consiglio Mario Draghi, secondo cui occorre “far rientrare la crisi politica e istituzionale che paralizza il Paese dallo scorso luglio” e riprendere la strada delle riforme per avvicinarsi all’Unione europea. Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha citato da Bruxelles il caso bosniaco come uno degli scenari “a rischio a causa delle pressioni russe”.
La dimensione di percepita minaccia che si respira nelle sedi istituzionali è la declinazione in chiave internazionale di una preoccupazione fortemente sentita anche sul piano locale. Molti cittadini, nelle ultime settimane, sono corsi nei supermercati per svuotare gli scaffali di olio, farina e altri generi alimentari di prima necessità. “L’insicurezza economica, l’aumento dei prezzi e l’inflazione sono effetti della guerra che ci sono ovunque, ma che in particolare in Bosnia-Erzegovina non vanno sottovalutati – spiega Rodolfo Toè, analista politico ed esperto dell’area balcanica – Qui i cittadini arrivano da una crisi economica che va avanti da dieci anni e con i nuovi aumenti potrebbero decidere di protestare anche in modo violento per chiedere un cambiamento ai vertici. E a quel punto sì, qualcuno potrebbe approfittarne per far collassare la già precaria situazione”.
A legare a stretto giro i Paesi balcanici e la Russia non sono solamente elementi di comunanza identitaria e religiosa. L’ombra che dal Cremlino si stende sui paesi dell’ex Jugoslavia ha soprattutto i contorni di un braccio armato. Ed è soprattutto questo particolare a suscitare tante preoccupazioni nei vertici dell’Unione europea e della Nato. “Se prendiamo il caso della Serbia, possiamo dire che sia un paese europeo per aspirazioni economiche, ma è fortemente dipendente dalla Russia per la sua politica di sicurezza. È sempre stata Mosca a fornirle armi e missili”. Al contempo, però, la Serbia non può permettersi di prendere una posizione troppo distante dai leader europei appoggiando Putin. In gioco c’è il buon esito del lungo percorso di adesione al gruppo dei 27 che dovrebbe concludersi con l’ingresso nel 2025 (insieme al Montenegro).
Nonostante il complesso intreccio di relazioni che uniscono il destino dei Balcani a quello dei russi, Toè sostiene che non ci siano “rischi immediati per la sicurezza della regione, per un motivo molto pratico: Mosca non ha modo di influenzare la situazione, non manderà truppe in Bosnia e la Serbia non agirà militarmente per attuare l’annessione della Republika Srpska di Bosnia. Paradossalmente, anzi, quello che sta succedendo potrebbe avere un effetto quasi calmante, almeno sul breve periodo. Il leader serbo bosniaco Milorad Dodik e i serbi, in generale, potrebbero sentirsi molto più isolati, in qualche modo costretti ad avere un atteggiamento più conciliante nei confronti della comunità internazionale”.
Per quanto la situazione adesso sia sotto controllo, non aiuta il fatto che i riflessi della crisi ucraina pesino sulla stabilità della Bosnia-Erzegovina in un anno particolarmente delicato: quello dei 30 anni dall’inizio del conflitto degli anni Novanta e quello in cui si svolgeranno le elezioni politiche più complicate di sempre, per via delle difficoltà a trovare un accordo sulla riforma elettorale. “Al contrario di quanto accade nei Paesi Baltici, dove la maggioranza dei cittadini è a favore dell’adesione alla Nato, in Bosnia-Erzegovina il tema è estremamente divisivo ed è una differenza di contesti che vale la pena sottolineare. Musulmani e croati sono favorevoli ad avvicinarsi all’Alleanza atlantica, ma i serbi ovviamente no, la percepiscono come l’esercito nemico che li bombardò nel 1999 – afferma l’analista – Un’escalation quindi non è da escludere. Potrebbe avvenire nel momento in cui la Nato portasse concretamente avanti l’integrazione della Bosnia, suscitando la reazione dei serbi. In quel caso Dodik potrebbe approfittarne far precipitare la situazione e dichiarare un referendum per la secessione della Republika Srpska”.

La Bosnia è di fatto una “piccola Jugoslavia” considerato che la popolano serbi, croati e musulmani. Nella quale torna la paura della guerra. L’Onu teme la formazione di un esercito separatista serbo ed anche i croato-bosniaci puntano alla spartizione.
Ci aiuta a conoscere il presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik e il suo pensiero una intervista di Fabio Tonacci che abbiamo recuperato. Risale al 3 novembre 2021 ed è stata pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” con il titolo “Il leader serbo-bosniaco Dodik: “Ecco perché stimo Putin. Mi ascolta e non mi chiede nulla a differenza dei leader occidentali” ”:
“Banja Luka (Bosnia-Erzegovina) - "La verità è che non c'è consenso sul fatto che la Bosnia-Erzegovina debba esistere ancora. Serbi e croati sono costretti a vivere in questo Stato, ma non vorrebbero. Per molta gente è un dovere, non un desiderio. Io parlo con franchezza, questo è il mio difetto...".
Dopo un'ora di domande e risposte sullo scivoloso crinale del tema della secessione, appare in tutta chiarezza il retropensiero che sta guidando il leader della Republika Srpska nell'anno che precede le elezioni. "La secessione non è nei miei piani, né voglio un conflitto armato", ripete il 62enne Milorad Dodik, nel tentativo di allontanare con le parole ciò che ha avvicinato con i fatti. "Serbi, musulmani e croati possono convivere, se si siedono attorno a un tavolo e sotto l'egida di una Costituzione legittima".
Dodik, presidente di una delle due entità (quella a maggioranza serbo-ortodossa) in cui è suddivisa la Bosnia-Erzegovina e componente della presidenza tripartita, è l'enigma che spaventa Ue e Usa. Non foss'altro per l'ostentato supporto che sta ottenendo da Vladimir Putin ("lo stimo, è uno che mi ascolta a differenza degli occidentali") e da Pechino. Lo incontriamo a Banja Luka, nella sala di rappresentanza del governo locale, al sedicesimo piano del palazzo che domina la città.
Se non vuole la secessione, perché ha annunciato il trasferimento alla Srpska di servizi sinora affidati alle istituzioni centrali, quali fisco, intelligence, giustizia, agenzia per il farmaco?
"Per 26 anni l'interventismo della comunità internazionale, esercitato attraverso l'Alto Rappresentante e tre giudici della Corte costituzionale, ha distrutto la Costituzione creando un sistema illegale. La Bosnia-Erzegovina può sopravvivere se ritorna alla Carta scritta nel 1995 a Dayton. Quando ho parlato di secessione era una riflessione: se la Bosnia non risolverà i problemi, la secessione potrebbe accadere".
Come fa a dire che c'è un sistema illegale?
"Niente di buono è stato portato da quella gente. Siamo ancora l'area meno sviluppata dell'Europa. La riconciliazione delle diverse comunità è avvenuta? No. Siamo entrati nell'Unione? No. È tempo di cambiare approccio. Non possiamo permettere che siano stranieri non eletti in Bosnia a fare le leggi per noi".
Perché contesta l'emendamento dell'ex Alto Rappresentante Valetin Inzko, che punisce chi nega il genocidio di Srebrenica e i crimini di guerra?
"Perché non aveva diritto a imporre la legge, a prescindere dal contenuto".
Il contenuto lo condivide?
"È opinabile. A Srebrenica si può dire che c'è stato un crimine, che io condanno. Non si può dire però che è stato compiuto dai serbi, intesi come nazione. È stato compiuto da alcuni individui".
Mladic, che ordinò il massacro, era comandante militare dei serbo-bosniaci.
"Mladic? Non so... A Srebrenica, comunque, ci furono uccisioni tra i serbi che sono state messe da parte".
E lei adesso parla di ricostituire l'esercito della Repubblica serba. Farà approvare il suo progetto dall'Assemblea nazionale?
"La Srpska può avere il proprio esercito, c'è scritto nella Costituzione. Non stiamo chiedendo niente di nuovo. Del resto a che cosa serve un esercito congiunto dove combattono insieme serbi, croati e musulmani? Se la Serbia ci attaccasse, dico per fare un esempio ipotetico, crede che i soldati serbi rimarrebbero fedeli all'esercito della Bosnia? Lo stesso vale per i croati".
Il nuovo Alto Rappresentante, Christian Schmidt, in un report all'Onu sostiene che lei sta minacciando l'unità e che il rischio di un nuovo conflitto è reale.
"Bugie. Schmidt è venuto qui, ha preso un report scritto dai musulmani e ci ha messo la firma sotto. Può dire ciò che vuole, lo considero solo un privato cittadino perché la sua nomina non è stata appoggiata da tutti i firmatari dell'accordo di Dayton. Quindi a oggi la Bosnia non ha un Alto Rappresentante, ed è una buona notizia. Siamo l'ultima colonia d'Europa, ma stiamo cominciando a liberarci".
A Bruxelles potrebbero decidere di emettere sanzioni contro di lei. Teme questa possibilità?
"Ecco l'arroganza del potere. No, non sono spaventato. Non sono stato eletto per essere un codardo. In quale parte la mia politica sarebbe destabilizzante?".
Sta separando, di fatto, la Repubblica serba dallo stato centrale costruito a Dayton.
"Ripeto: non sono contro quella Costituzione, ma contro ciò che ci è stato imposto dall'esterno".
È la sua vicinanza a Vladimir Putin che la fa stare così tranquillo?
"Non vado in Russia a pregare qualcuno. La differenza tra Putin e i leader occidentali è che lui mi ascolta. Putin non mi ha mai chiesto di fare o non fare qualcosa, ecco perché lo rispetto. Quando invece i politici dell'Occidente, anche i più bassi in grado, si presentano nel mio ufficio, vogliono impormi cose".
Non pensa che a Putin interessi solo aver influenza sulla Srpska per ottenere il ritiro delle sanzioni sul caso Ucraina?
"Putin non è un calcolatore, né uno speculatore".
Ma lei come è diventato l'uomo di Mosca? Fino a una decina di anni fa era considerato il referente degli Stati Uniti.
"Ci siamo separati, ma non per mio volere. Sono ancora la persona che crede nei principi democratici e nel libero mercato. Rispetto le identità tradizionali. Però io non sono cambiato. Un giorno gli americani sono venuti da me e mi hanno detto: tu devi cambiare. Non potevo accettare. Nel 2021 chi difende veramente gli accordi di Dayton è Milorad Dodik".

Alla fine del focus sulla Bosnia Erzegovina una domanda si fa sempre più pressante: questo piccolo martoriato paese - segnatamente i suoi “cantoni” serbi - potrebbe un domani non troppo lontano diventare l’ennesima testa di ponte russa conficcata in Europa? Come se non bastassero i territori più ad est della Transnistria e del Donbass. E la storica enclave della regione di Kaliningrad (città della Prussia per secoli di cultura tedesca, la Konigsberg che diede i natali al grande filosofo Immanuel Kant). Tra Polonia e Lituania, Kaliningrad dà sul Mar Baltico (uno dei maggiori porti in quel freddo mare) ed è a tutti gli effetti parte integrante del suolo della “Madre Russia”.

9.In fuga dalla Russia. Per la libertà, per l’assenza di prospettive
Mentre mercenari, contractor e militari russi si arrostiscono sotto il sole cocente dei deserti libici e sahariani, mentre situazioni geopolitiche incancrenite in Europa rischiano di riaccendere fuochi e conflitti, mentre nuovi rischi di secessione potrebbero prima o poi finire per sfociare in accoglienza di contingenti militari di Mosca - sempre talmente pronta ad aiutare i popoli “fratelli” al punto di radere al suolo il loro paese come sta accadendo in Ucraina - l’espansionismo russo e la progressiva tirannia che nello sterminato paese sta chiudendo ogni spazio di libertà ha finito per produrre un fenomeno nuovo, stavolta tutto interno. Decine, anzi centinaia di migliaia di persone abbandonano la Federazione Russa. Se ne vanno nei confinanti paesi baltici di Lituania, Estonia e Lettonia, in Armenia, Georgia, Turchia, Serbia. A partire da moltissimi professionisti dell’IT (Information Technology).
Il fenomeno è stato analizzato da Marco Imarisio, “Corriere della Sera”, 27 marzo 2022, in un articolo intitolato “Russia, la “diaspora” della classe media in fuga da Putin”.
Osserva il giornalista: “(…) Chiamiamola pure la diaspora russa. «Oltre duecentomila persone hanno lasciato il Paese nell’ultimo mese», ha detto Joe Biden ieri a Varsavia. Pochi giorni fa, il quotidiano turco Hurriyet scriveva che erano almeno 14.000 i cittadini russi atterrati a Istanbul e Ankara. Le autorità armene sostengono che un flusso simile è stato registrato all’aeroporto di Erevan e al varco di frontiera con la Georgia. La Finlandia ha dichiarato di avere accolto oltre ventimila cittadini russi, lo stesso ognuno dei tre Paesi baltici. Non manca poi molto per raggiungere la cifra indicata dal presidente americano. «Ero un uomo felice» racconta Kamran Manafly, ormai ex professore di geografia alla scuola 498 di Mosca, un liceo, emigrato in Lituania. «Mi sono soltanto rifiutato di giustificare l’operazione militare speciale in Ucraina ai miei studenti». Il giorno dopo, è stato licenziato per «condotta immorale», con una nota di ignominia che gli renderà impossibile insegnare ancora nel suo Paese. «Io non credo che essere dipendente statale equivalga a essere uno schiavo dello Stato».
L’esodo russo non si spiega soltanto con l’obiezione di coscienza. Anche le sanzioni stanno portando verso una scelta obbligata migliaia di giovani che lavoravano nel campo della tecnologia. «La prima ondata è stata di 50-70 mila persone. L’unica cosa che frena la seconda è il fatto che nessuno all’estero vuole più lavorare con persone provenienti dal nostro Paese». A pronunciare queste parole non è stato un pericoloso dissidente, ma Sergey Plugokarenko, capo del Raec, l’Associazione russa per le comunicazioni elettroniche. E lo ha fatto alla Duma, durante una seduta che aveva all’ordine del giorno «lo sviluppo del settore informatico sotto sanzioni». Secondo le sue previsioni, entro aprile altri 70-100 mila tecnici e programmatori di software se ne andranno. La ragione è semplice, ha detto. Non vedono più alcuna prospettiva.
Il rifugio dei giovani IT, acronimo inglese di Information Technology, è diventato la Serbia. Forse il Paese dove il supporto all’operazione militare speciale è più diffuso, uno dei pochi a rifiutarsi di applicare le sanzioni, lasciando aperti i collegamenti aerei con Mosca. Il gruppo Telegram sui nuovi arrivi conta cinquemila adesioni. «Lo so che è un paradosso» spiega l’ingegner Iakov Borevich da un bar nel centro di Belgrado. Appena arrivato nell’appartamento che aveva affittato a Belgrado, ha notato un poster alla parete. La faccia di Putin, e sotto la scritta fratello in cirillico. «Quando mi dicono che le stragi di civili sono fake news, faccio cadere la conversazione. Alla fine, non siamo qui per discutere di politica internazionale. Ma per trovare lavoro»”.

10.Intanto in Ucraina
“Il 16 marzo, studiando le informazioni pubbliche, l’ex generale americano Ben Hodges aveva sostenuto che i 10 giorni seguenti sarebbero stati decisivi per l’esito della guerra: i russi erano a corto di uomini e munizioni, l’inattesa resistenza ucraina — oltre a causare grosse perdite — aveva fatto saltare i piani e costretto a disperdere le unità. Putin, insomma, stava cercando una via d’uscita. La profezia di Hodges si è rivelata esatta: il 25 marzo, il vicecapo di Stato maggiore russo Sergej Rudskoi ha annunciato che la prima fase dell’operazione si può dichiarare conclusa, che «le principali spallate sono state completate» e che ora si concentreranno sul sud del Paese, in particolare sulla «liberazione» del Donbass. Rudskoi non parla dunque di obiettivi raggiunti, ma di spallate assestate.
Questo conferma che gli americani, e di conseguenza gli ucraini, hanno una visuale chiara di quello che avviene sul campo: le informazioni penetrano la nebbia di guerra e permettono loro di anticipare le mosse nemiche. Se a Washington hanno sempre sostenuto che Putin stesse per invadere l’Ucraina, rendendo pubblici i piani che si sono poi rivelati esatti nel dettaglio, a Kiev — ancora due giorni prima dell’invasione, come ha confermato al Corriere il presidente estone Alar Karis — Volodymyr Zelensky non riteneva possibile che i russi attaccassero l’Ucraina: al massimo, pensava, sarebbero entrati nelle regioni di Donetsk e Lugansk.
Invece l’esercito di Putin ha dato avvio a un’invasione su piena scala, ma nulla è andato secondo i piani. Come ricorda il generale australiano Mick Ryan, il piano A prevedeva l’uso di forze leggere sostenute dall’aviazione per conquistare Kiev e alcuni punti strategici del Paese in tempi brevi, catturare gli esponenti del governo e avviare una transizione, ma è fallito in 48 ore: il punto debole è stato l’uso di un’aviazione leggera contro obiettivi preparati e ben difesi. Mosca ha optato quindi sul piano B: usare le forze già dispiegate attorno a Kiev per un attacco su più assi, con maggiore potenza di fuoco e la distruzione delle città più piccole per spaventare la capitale.
Anche in questo caso, però, è stato un fallimento: si trattava per lo più di forze di terra con poca struttura e scarsa coordinazione, che hanno fatto emergere i noti problemi logistici, a cominciare dalla carenza di benzina e cibo e munizioni, e sono diventate un facile obiettivo stazionario per la resistenza ucraina che colpiva in piccoli gruppi con i Javelin facendo danni enormi, e poi si ritirava. A quel punto lo Stato maggiore di Mosca ha virato sul piano C: colpi duri e brutali assestati da lontano, distruggendo più infrastrutture possibili, senza fare grandi distinzioni fra obiettivi militari e civili.
I bombardamenti sulle città, con artiglieria più economica e missili a lungo raggio, avevano l’obiettivo di terrorizzare i civili e spingere il governo ucraino a cedere, ma le forze della resistenza non si sono arrese e hanno continuato con le imboscate che, colpendo retrovie e convogli logistici, hanno inflitto perdite enormi all’esercito di Putin. Anche il piano C non è bastato ai russi per ottenere risultati, le città circondate non hanno ceduto: Chernihiv, Sumy e Kharkiv, scendendo da nord, e poi Mariupol, a sud, che resiste da un mese nonostante un assedio sanguinoso che è costato la vita a migliaia di civili.
Proprio a Mariupol si concentra ora l’evoluzione del piano C, come ha confermato venerdì il vicecapo di Stato maggiore Rudskoi: conquistando il grande porto strategico sul Mar d’Azov, Putin potrà connettere la Crimea via terra alla madre Russia, e al tempo stesso annunciare di aver «denazificato» l’Ucraina sconfiggendo il battaglione Azov di estrema destra che difende la città. In questo modo, dunque, lo Zar avrebbe ottenuto la vittoria di facciata che gli serve per nascondere il fallimento dell’offensiva, anche perché i russi hanno capito e accettato che questo conflitto non sarà affatto breve e che gli ucraini non cederanno.
A questo punto, i russi potrebbero concentrare le forze su un solo fronte — quello meridionale — con il ricongiungimento delle truppe arrivate dalla Crimea con quelle entrate in Ucraina dal nordest, per circondare la resistenza nel sudest: l’esercito di Putin non dovrebbe comunque abbandonare il resto del Paese, ma potrebbe restare stazionario, costruire trincee, anche per non lasciare che gli ucraini convergano a difesa di una sola area. A questo scopo potrebbero unirsi anche le truppe bielorusse da nord — anche se Lukashenko teme il fronte interno — ed è già stata incrementata l’aviazione (del 50%): i russi hanno comunque bisogno di rinforzi e sul campo, dice il New York Times, ci sono anche un migliaio di mercenari della Wagner.
Questo non significa che la guerra sia finita, come conferma anche la scelta delle parole di Rudskoi, ma che entra in una nuova fase. L’esercito russo si è adattato alle difficoltà enormi e inattese incontrate sul campo e ha adottato una strategia che gli permetterà di andare avanti a lungo, facendo danni ingenti da lontano e limitando le perdite (anche se a Kherson è stato ucciso un altro generale, Yakov Rezantsev: è il settimo). La resistenza di Kiev non si arrende, ma deve invece concentrarsi sulla difesa dei convogli di armi in arrivo dall’occidente. Anche le notizie dal campo sembrano andare in questa direzione: durante la giornata di sabato sono stati numerosi i bombardamenti nelle città, soprattutto a Leopoli, nell’ovest, mentre è stato cancellato il coprifuoco a Kiev.
Gli ucraini intanto hanno tracciato un’altra linea, il 9 maggio. A Kiev si ritiene infatti che i russi torneranno a casa quel giorno, data in cui a Mosca si celebra la sconfitta del nazismo: saranno riusciti a vedere attraverso la nebbia di guerra anche questa volta?” (Andrea Marinelli e Guido Olimpio “L’aggiornamento militare sulla guerra in Ucraina: i russi entrano in una nuova fase, ma in una parola c’è il futuro del conflitto”, “Corriere della Sera”, 26 marzo 2022).

11.Espansionismo russo e spettro nucleare agitato da Putin
Delle mosse di Mosca preoccupano l’opinione pubblica mondiale non solo l’espansionismo territoriale che mette in conto anche decine e decine di miglia di morti tra militari e civili, il cinico ricorso all’invasione, l’invio di truppe, i bombardamenti ma anche e forse soprattutto lo spettro nucleare agitato da Putin. Riportiamo al riguardo l’analisi di Cesare Merlini su “AffarInternazionali.it” del 27 marzo 2022, titolo “Fermare lo spettro nucleare agitato da Putin”:
“Nel 2005 Thomas Schelling fu insignito del premio Nobel (per l’economia) anche “per aver fatto avanzare la nostra comprensione dei conflitti e della cooperazione tramite la Teoria dei giochi”, come si diceva nella motivazione. Ecco le parole con cui aprì il suo discorso di accettazione a Oslo: “L’evento più straordinario del passato mezzo secolo è un evento che non si è verificato. Abbiamo beneficiato di sessant’anni senza che una sola arma nucleare sia esplosa in conflitto”.
La logica della deterrenza contro l’escalation
Fino a ieri abbiamo potuto estendere alle prime due decadi del secolo presente la costatazione di Schelling. E tuttavia proprio mentre scatenava il suo attacco all’Ucraina, 24 febbraio 2022, il presidente russo Vladimir Putin ha messo in stato di allerta il sistema strategico nucleare russo, senza apparentemente averne alcuna motivazione, salvo quella di ricordare all’Europa e agli Stati Uniti l’esistenza della cosiddetta escalation, cioè il passaggio a uno scontro maggiore per l’andata fuori di controllo di uno minore, fino allo stadio finale nel quale si colloca l’uso dell’atomica.
Quel che blocca il meccanismo dell’escalation è la logica della deterrenza, che nella sua dimensione nucleare, dissuade l’aggressore con la prospettiva di subire un danno così massiccio da svalutare il vantaggio dell’attacco. È la logica che ingabbiò l’equilibrio del terrore fra Stati Uniti e Unione Sovietica e che poi ha funzionato nel post-bipolarismo e nella globalizzazione, reggendo – finora – alla crescita del multipolarismo delle potenze, propria dell’inizio del presente secolo.
Durante la Guerra Fredda fra le ipotesi negoziali di “arms control” (che noi chiamiamo ottimisticamente di “disarmo”) ci fu quella di un’intesa per cui le parti si impegnavano a non ricorrere per primi all’arma nucleare, il cosiddetto “no first use”. Furono gli Stati Uniti a opporvisi (con il sostanziale consenso degli europei, più esposti a un primo scambio locale) alla luce della preponderanza convenzionale dell’Unione Sovietica, allora. Susseguentemente, anche la Federazione russa ha lasciato cadere l’ipotesi in questione dalla sua dottrina strategica, dato che aveva perso detta preponderanza.
Oggi saremmo rassicurati dall’essere in vigore un tale impegno (a favore del quale peraltro si era espresso Joe Biden quando era senatore). In sua assenza assumono ancor più rilevanza gli stadi intermedi dell’escalation, rispetto ai quali l’Occidente democratico è svantaggiato a seguito alla sua riluttanza a percorrerli, come si è visto per esempio nel difficile “no” opposto alle ripetute invocazioni del Presidente Zelensky di imporre la no-fly zone nei cieli dell’Ucraina. Per contro, sta crescendo il sospetto che il Cremlino, alla luce delle difficoltà di un’offensiva militare che si era prevista veloce ed efficace, stia invece contemplando stadi più elevati, come l’uso di armi chimiche (magari camuffato, attribuendone l’origine ai resistenti ucraini, secondo una formula già usata).
Tenere i nervi ben saldi contro la paura del nucleare
Attenzione. Tanto più si innestasse un circolo vizioso fra l’intollerabilità di una sconfitta potenziale da parte del personaggio Putin ed il suo ricorso ad armi più micidiali, tanto più prenderebbe forma lo spettro che si arrivi allo stadio finale, quello dell’arma nucleare – foss’anche nella versione della testata a corto raggio d’azione. E magari con la benedizione di san Fëdor Ušakov, l’ammiraglio che nella guerra russo-ottomana “non perse una sola battaglia”, come venerdì scorso il nuovo zar ha ricordato ai suoi sudditi nello stadio di Mosca. Non è solo la chiesa ortodossa russa ad avere i suoi santi guerrieri. La novità qui è che l’icona in questione è stato poi nominato patrono dei bombardieri atomici della marina russa.
Insomma, si parla della possibilità che venga a cadere nel nostro secolo ventunesimo il grande non-evento di Thomas Schelling (…). Ora, a fronte di tale minaccia, è bene tenere i nervi a posto, rifiutare la “sfumatura” della bomba nucleare tattica ribadendo la sua natura di arma atipica, indipendentemente dal raggio d’azione. Da qui, il sussistere della logica della deterrenza. E nello stesso tempo continuare ad operare conciliando un supporto militare sempre più efficace alla resistenza del popolo di Zelensky con la cautela di frenare quanto più possibile il meccanismo dell’escalation.
E infine mantenere saldo l’intento di riprendere e di rilanciare i negoziati con la Repubblica russa per il controllo degli armamenti, innanzitutto di quelli nucleari e degli altri cosiddetti di distruzione di massa. E ciò indipendentemente dalla durata, dagli esiti e dalle conseguenze della vile guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina europea”.

12.Sempre più pericolose sfide globali
L’intento del bullo del Cremlino è sedersi al tavolo con gli Stati Uniti con pari rango di superpotenza. Scardinare quello che considera un presunto mondo unipolare (in realtà non è più così) per aprirlo a nuove forme di multipolarismo di cui uno dei poli preminenti deve essere proprio la Federazione Russa. Con la Cina, sempre più “amica” della Russia, che già siede a questo tavolo. A conclusione del recente incontro di fine marzo tra i ministri degli esteri di Mosca e Pechino Lavrov e Wang Yi il primo ha sottolineato nella dichiarazione finale che “Russia e Cina continuano a rafforzare i partner strategici e a parlare con una sola voce negli affari globali”. Il portavoce del ministero degli esteri cinese dal canto suo ha dichiarato: “Ci sforziamo per la pace senza limiti, salvaguardando la sicurezza senza limiti e opponendoci all’egemonia senza limiti”. Un vero e proprio storico nuovo “Asse d’acciaio” (o dovremmo aggiornare il concetto in “Asse del gas”) tra Pechino e Mosca. Nella dichiarazione ufficiale cinese si legge che “le relazioni [tra i due paesi] hanno resistito alla nuova prova della mutevole situazione internazionale” e “la Cina è disposta a collaborare con la Russia” per portare i rapporti “a un livello più alto nella nuova era”. (“Il Foglio”, 31 marzo 2022). Altro che la tanto auspicata equidistanza e mediazione cinese per il conflitto in Ucraina!
Le righe conclusive dell’articolo di Merlini ci aiutano ad introdurre un contributo che ci avvicina alle conclusioni di questa disamina dell’espansionismo della Russia di Putin. E’ un editoriale di Maurizio Molinari dal titolo “L’architettura del dopo Putin” pubblicato su “Repubblica” il 27 marzo scorso. Il direttore del quotidiano traccia una analisi di sistema che prende avvio, inevitabilmente, dai fatti dell’Ucraina per profilare il loro superamento. Senza trascurare che quanto sta succedendo nella “vecchia” Europa (vecchia in tutti sensi ora che per imperdonabile colpa ed eterna infamia di Putin a 77 anni dalla conclusione della seconda Guerra Mondiale è tornata, come al solito, alla barbarie dei suoi periodici conflitti) vede spettatori interessati in altre aree. In particolare due altri colossi che da soli fanno oltre un terzo della popolazione mondiale, la Cina e l’India. Beninteso, anche loro potenze nucleari.
Scrive Molinari: “Ad oltre un mese dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina da parte delle truppe russe appare evidente che Vladimir Putin ha fallito nell'obiettivo di rovesciare il governo di Kiev e cancellare dalla mappa il Paese vicino. E ciò ha determinato una prima conseguenza: la vasta coalizione di nazioni che sostiene Volodymyr Zelensky ha iniziato a discutere lo scenario del dopoguerra ovvero quale sarà il nuovo equilibrio internazionale generato dal passo falso del leader del Cremlino. Per questo il presidente americano Joe Biden, parlando ieri da Varsavia, ha detto: "Vladimir Putin non può rimanere al potere". Indicando concretamente l'obiettivo politico che accomuna la coalizione pro-Ucraina: le sanzioni rimarranno fino a quando il "criminale di guerra" resterà al potere.
Il passo del capo della Casa Bianca arriva 48 ore dopo la riunione a Bruxelles dei leader di Usa, Ue, Nato e G7 - e il parallelo vertice fra i capi delle intelligence americana ed europee a Roma - che ha visto affrontare, per la prima volta, l'agenda del post-conflitto.
Per tentare di comprendere in quale direzione la coalizione pro-Ucraina si sta muovendo bisogna partire dai dati più evidenti. Innanzitutto il rafforzamento della presenza Nato nei Paesi membri che confinano con la Russia: le minacce proferite da Putin contro di loro hanno risvegliato le peggiori memorie dell'occupazione sovietica, le singole capitali hanno così chiesto aiuto e l'Alleanza sta aumentando la presenza di militari e mezzi nei Paesi Baltici, in Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria. I rinforzi Usa sono già in arrivo ed è possibile che ciò porterà alla creazione di una base aerea e una terrestre in Polonia come ad una installazione navale in Romania. E anche al rafforzamento dei controlli nel Mar Baltico per proteggere le infrastrutture marittime della Norvegia dal rischio di attacchi a grande profondità. La creazione di una cintura di sicurezza Nato attorno alla Russia è il processo più evidente, è destinato a diventare il deterrente maggiore contro nuovi interventi russi, vede la partecipazione a pieno titolo della Turchia - con il relativo recupero del rapporto fra i presidenti Biden ed Erdogan - e segnerà il nuovo concetto strategico Nato in agenda al summit di Madrid. Anche grazie al maggiore impegno dei Paesi europei - Italia inclusa - sulla difesa dopo l'approvazione dello Strategic Compass con la conseguente creazione di una forza di intervento rapido e il relativo impegno a portare al 2 per cento le spese per la difesa, seguendo la Germania di Olaf Scholtz.
La seconda conseguenza, sempre nei rapporti fra Paesi democratici, si profila come una maggiore integrazione Usa-Ue sul fronte dell'energia, dell'ambiente e dello sviluppo di nuove tecnologie. La necessità di rinunciare a petrolio e gas russo - come anche ad emanciparsi dalla dipendenza energetica dalle aree di crisi - ha partorito il piano Usa per 15 miliardi di metri cubi di gas liquido all'Ue nel 2022 ma è solo l'anticipo di un'integrazione ben più ampia che può legare Ue, Usa, Canada e Australia non solo nello sfruttamento delle risorse disponibili ma anche nello sviluppo delle nuove tecnologie capaci di estendere l'uso delle rinnovabili al fine di accelerare la transizione verde, già identificata come priorità da Commissione Ue e amministrazione Usa. A conferma dell'impegno di Washington per costruire in fretta una vasta alleanza energetica oggi il Segretario di Stato, Antony Blinken, arriva a Gerusalemme per incontrare nel "summit del Negev" i colleghi di Emirati, Bahrein, Egitto, Marocco ed Israele al fine di coordinare non solo la posizione sul nucleare iraniano ma anche lo sviluppo di risorse destinate a sostituire le forniture russe per il Vecchio Continente.
Assieme a più deterrenza Nato in Europa e più integrazione economica Usa-Ue, il terzo pilastro della coalizione pro-Ucraina è la convergenza sull'isolamento totale di Vladimir Putin: non solo mantenendo le sanzioni economiche-finanziarie per punire "chi è responsabile di crimini di guerra" - come hanno detto all'unisono a Bruxelles i leader di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna - ma anche accelerando l'incriminazione davanti alla Corte dell'Aja del presidente russo e dei suoi generali, proprio come avvenuto con il leader serbo Slobodan Milosevic e il generale Ratko Mladic per la pulizia etnica nei Balcani. L'obiettivo di deterrenza e sanzioni dunque è creare le condizioni per spingere Putin a lasciare il potere.
Fin qui la coesione fra Stati Uniti ed alleati è nei fatti, testimoniata da decisioni prese e da una raffica di dichiarazioni. Ma questa strategia di resolute restrain - contenimento aggressivo - nei confronti del Cremlino deve affrontare almeno tre interrogativi di importanza strategica. Primo: come evitare di confondere l'autocrazia di Putin con l'intera Russia, al fine di favorire l'affermazione di leader alternativi a Mosca ovvero senza ripetere gli errori che vennero fatti negli anni Novanta, durante la presidenza di Boris Eltsin, portando all'indebolimento delle voci più liberali e spianando la strada proprio all'avvento di Putin. La ricerca di interlocutori politici in Russia - a cominciare dall'espatriato Anatoly Chubais, già consigliere economico del Cremlino - sarà lunga e difficile ma serve per impedire a Putin di cementare con il patriottismo l'ambizione a conservare il potere fino al 2036. Come anche a disinnescare il rischio di un dopo-Putin nel segno dell'instabilità in una nazione con ben 6000 armi nucleari. Secondo: come fronteggiare il pericolo di focolai di crisi creati ad arte da Putin per riguadagnare terreno. I mercenari filorussi della Brigata Wagner presenti in Siria, Libia, Sahel e Centrafrica - territori-chiave per la lotta al terrorismo come per il controllo dei migranti - sono lo strumento che Putin può usare per sorprendere Europa e Usa. Da qui l'obbligo per gli alleati di studiare "piani di emergenza" nei singoli scenari per evitare di essere colti in contropiede. Terzo: come gestire i rapporti con la Cina di Xi Jinping perché Pechino, pur restando in bilico sul conflitto ucraino, sta sviluppando una rete propria di legami con i Paesi africani ed asiatici che si sono astenuti all'Onu sulla guerra - a cominciare dall'India - sollevando a Washington e Parigi il timore di lavorare nell'ombra per sfruttare questa crisi al fine di far emergere su scala globale un proprio schieramento internazionale destinato a contrapporsi a quello dell'Occidente, generando dunque una sfida assai più vasta e ambiziosa di quella di Vladimir Putin.
Insomma, per Usa e Ue il dopo-guerra in Ucraina si presenta come l'opportunità di ridefinire gli equilibri internazionali attorno ad una aggressiva deterrenza anti-Putin ma ciò comporta la necessità di darsi in fretta ricette comuni per trovare interlocutori in Russia, affrontare il rischio di improvvise crisi regionali e cercare un dialogo con Pechino capace di scongiurare una pericolosa sfida globale”.

In Europa ordine internazionale e sicurezza internazionale, regole ed equilibri sono drammaticamente saltati con la disumana guerra in Ucraina. Una cosiddetta “Helsinki 2” diventa indispensabile per un confronto ampio che porti ad un nuovo ordine europeo. Ma, più in generale, una rivisitazione dell’ordine mondiale – ogni anno che passa sempre più “disordinato”, conflittuale – appare altrettanto ineludibile. Superpotenze e medie potenze devono aprire tavoli di trattative quanto più globali. Sugli assetti strategici, sulle proiezioni esterne, sugli equilibri da rispettare, le avventatezze da evitare e, in particolare, sugli armamenti.
Ha detto tra l’altro papa Francesco a Malta il 2 aprile: “(…) C’è, infine, “il vento proveniente da est, che spesso soffia all’aurora. Omero lo chiamava “Euro”. Ma proprio dall’est dell’Europa, dall’Oriente dove sorge prima la luce, sono giunte le tenebre della guerra. Pensavamo che invasioni di altri Paesi, brutali combattimenti nelle strade e minacce atomiche fossero ricordi oscuri di un passato lontano. Ma il vento gelido della guerra, che porta solo morte, distruzione e odio, si è abbattuto con prepotenza sulla vita di tanti e sulle giornate di tutti”. E, senza citare il presidente della Russia Vladimir Putin (da quando è iniziata la guerra non lo ha nominato), afferma: “Mentre ancora una volta qualche potente, tristemente rinchiuso nelle anacronistiche pretese di interessi nazionalisti, provoca e fomenta conflitti”, la gente comune “avverte il bisogno di costruire un futuro che, o sarà insieme, o non sarà. Ora, nella notte della guerra che è calata sull’umanità, non facciamo svanire il sogno della pace. (…) Di compassione e di cura abbiamo bisogno, non di visioni ideologiche e di populismi, che si nutrono di parole d’odio e non hanno a cuore la vita concreta del popolo, della gente comune”. Più di sessant’anni fa, a un mondo “minacciato dalla distruzione, dove a dettare legge erano le contrapposizioni ideologiche e la ferrea logica degli schieramenti, dal bacino mediterraneo si levò una voce controcorrente, che all’esaltazione della propria parte oppose un sussulto profetico in nome della fraternità universale”. Era quella di Giorgio La Pira, che disse: "La congiuntura storica che viviamo, lo scontro di interessi e di ideologie che scuotono l’umanità in preda a un incredibile infantilismo, restituiscono al Mediterraneo una responsabilità capitale: definire di nuovo le norme di una Misura dove l’uomo lasciato al delirio e alla smisuratezza possa riconoscersi”. Per papa Francesco sono parole attuali: “Quanto ci serve una “misura umana” davanti all’aggressività infantile e distruttiva che ci minaccia, di fronte al rischio di una “guerra fredda allargata” che può soffocare la vita di interi popoli e generazioni! Quell’“infantilismo”, purtroppo, non è sparito. Riemerge prepotentemente nelle seduzioni dell’autocrazia, nei nuovi imperialismi, nell’aggressività diffusa, nell’incapacità di gettare ponti e di partire dai più poveri. Da qui comincia a soffiare il vento gelido della guerra, che anche stavolta è stato alimentato negli anni. Sì, la guerra si è preparata da tempo con grandi investimenti e commerci di armi”. Ed è “triste vedere come l’entusiasmo per la pace, sorto dopo la seconda guerra mondiale, si sia negli ultimi decenni affievolito, così come il cammino della comunità internazionale, con pochi potenti che vanno avanti per conto proprio, alla ricerca di spazi e zone d’influenza. E così non solo la pace, ma tante grandi questioni, come la lotta alla fame e alle disuguaglianze sono state di fatto derubricate dalle principali agende politiche”.
Ma la soluzione alle crisi “di ciascuno è prendersi cura di quelle di tutti, perché i problemi globali richiedono soluzioni globali. Aiutiamoci ad ascoltare la sete di pace della gente, lavoriamo per porre le basi di un dialogo sempre più allargato, ritorniamo a riunirci in conferenze internazionali per la pace, dove sia centrale il tema del disarmo, con lo sguardo rivolto alle generazioni che verranno!”. E gli “ingenti fondi che continuano a essere destinati agli armamenti siano convertiti allo sviluppo, alla salute e alla nutrizione”. (Domenico Agasso “Il papa a Malta non cita Putin ma dice: “Qualche potente provoca e fomenta conflitti”. E rivela: “Un viaggio a Kiev è sul tavolo”, “La Stampa.it”, 2 aprile 2022).

Già, sempre più pericolose “sfide globali”, come scriveva Molinari, e “problemi globali”, come li ha definiti il papa: guerra in Europa, Putin, dopo-Putin, nuclearizzazione spinta (diffusione, numero di testate, potenza esplosiva, minaccia di farne uso), Indo-Pacifico e l’altro scontro Usa-Cina, fame e concreto pericolo di carestia nel mondo, la militarizzazione dello spazio…
Mala tempora currunt.
 di Pino Scorciapino

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