L'avversario ignoto al Quirino di Roma
Scritto agli inizi del ‘900 e ambientato fra caserme, piazze d’armi, accampamenti dell’esercito napoleonico, “The duel” di Joseph Conrad, cui si rifà una messinscena cupa e a suo modo inflessibile (diversa dall’esuberante, agghindato film di Ridley Scott del 1977) è, in superficie, l’affresco di un mondo cavalleresco, sospeso tra vitalismo e percezione della fine incombente in quel particolare, esclusivo mondo della cavalleria e degli eserciti ottocenteschi, che le nuove logiche militari del ‘secolo breve’ avrebbe spazzato via senza, (vien da dire) concedere ai ‘predecessori’ nemmeno…l’onore delle armi. Che, da un certo punto, in poi sarebbero state ‘da fuoco’ e ‘a ripetizione’, dunque industrializzate (come ancora lo sono) per accumulazione e gestione di profitti di guerra, sostitutivi di quelli che, per millenni, erano stati i bottini, le prede, le occupazioni. Come dire? L'etica militare avrebbe reso smisurati ed economicamente ‘redditizi’ stermini ed eccidi sui campi di battaglia, nelle città bombardate o nei futuri lager dell’umanità da ‘scartare’.
Il mondo di Conrad è dunque (a suo modo, forse
inconsapevolmente) il geniale ‘de
profundis’, il ‘canto del cigno’ di due sconosciuti avversari non militanti su fronti opposti, ma entrambi
Ussari della Grande Armée di Napoleone Bonaparte.
“Per motivi
a tutti ignoti –leggo da una manuale di sintesi- essi inanellano sfide e duelli
che li accompagneranno lungo le
rispettive carriere, senza che nessuno sappia il perché di questo odio così
profondo”. Vicissitudini che renderanno
famosi i due avversari non tanto per il loro valore di combattenti
sfegatati, quanto per l’ eroica fedeltà ad
una sfida insaziabile, durante i
vent’anni che accompagneranno entrambi al ‘duello decisivo’, anch’esso meta ed inizio
di sorprese e reciproci ricatti prolusivi di una disputa che, presumibilmente,
non avrà fine.
Se non dando ad essa (ciascuno a suo modo)
significati allegorici, metafisici, freudiani non tanto dissimili da quelli già
rivelati (tra le opere di Conrad) da
“Cuore di tenebra”, “Nostromo”, “Lord Jim”, “La linea d’ombra”. Oltre ad
accostamenti, non azzardati, alla ‘grande scuola’ dell’ossessione e dell’incubo
-pervicace che attraversa il romanzo occidentale lungo il fil- rouge che scaturisce
da Melville, tocca Kafka e Faulkner , e si completa nella generazione dei
‘mondi veri ma assurdi’ constatati da Camus, Beckett, Durrenmatt.
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Ma, al dunque, perché le trame della vita e del destino sfuggono di mano sia
ai due Ussari, sia al lettore\spettatore?
Per la ‘banale’ spiegazione (memorabile,
icastica, diaristica in “L’avversario” di Emmanuel Carrère del 1999) che non esiste ragione del contendere se non
nei fantasmi interiori, negli esuberanti grovigli dei rivali ‘per
insondabile vocazione’. Nessuna analogia,
quindi, con la tradizione dei grandi ‘duelli’ letterari (Ettore e Achille,
Orlando e Rinaldo, Alfio e Turiddu, gli stessi Caino e Abele), ma qualcosa di
più illusorio, fuggevole, ingannevole che giunge riduttivo ricomporre- proprio
come accade nel fremente spettacolo di Boni e Aldorasi- in una disputa di cappa
e di spada, di agguati e cavalieri, ma nella pertinente intuizione d’un
ambiente circoscritto, desolato, a luce fioca (poco più di un deposito di
attrezzerie in disuso) che restringe ad uno stanzone, ad una gabbia mentale
quello che in Conrad (e nel film di Scott) era l’epico susseguirsi di lande,
avamposti, steppe, lerce caserme
“L’avversario
più feroce lo hai dentro di te e non riesci a liberartene per il semplice fatto
che sei tu che non vuoi liberartene”- annotano i due registi. Proseguendo con
una citazione che lo scrittore Erlando
Affinati dedica alla ‘testarda’
epopea di Conrad. “Autore che ci spiega
come si fa a diventare adulti: bisogna scegliere, ma ciò significa rinunciare a
qualcosa di se stessi, non soltanto ai rami secchi, che non costerebbe nulla;
anche a quelli fioriti, persino ai più belli. E questo è molto meno facile. Perché
è una vera e propria amputazione spirituale”. Perfetto: la sensazione è che la
trasposizione scenica ‘ometta’ (negligenza? distrazione? non identificazione?) la pervicacia puerile, assoluta, irragionevole
con la quale ciascuno dei contendenti prova a dimostrare a se stesso
l’onnipotenza, l’assolutezza di una ‘vita adulta’ inaccessibile sino a che
l’empietà, la cecità, l’ ‘irregolarità’ della Storia (nel suo presunto
divenire) non farà strame di chi “non è
ancora cresciuto”. Ma al prezzo di nuove vittime, barbarie, tirannide,
macelleria sociale (con quotazioni di nuovo in rialzo).
Se valutiamo queste deduzioni non
‘conseguenza’ emozionale-intellettiva dello spettacolo, ma spontanee divagazioni
del dopo-teatro, fra amici e compagni di platea, si giunge alla conclusione di
una rappresentazione generosa, aitante, di forte impatto muscolare- ma priva di
scandaglio analitico, drammaturgico, interpretativo (specie per quel che
attiene le prestazioni ribalde,
canagliesche ma di maniera di Boni e Meoni).
Angelo Pizzuto
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I DUELLANTI
traduzione e adattamento Francesco Niccolini
drammaturgia Alessio Boni Roberto Aldorasi
Con
Francesco Meoni e Alessio Boni
Marcello Prayer Francesco Niccolini
Violoncellista Federica Vecchio
maestro d’armi Renzo Musumeci Greco
musiche Luca D’Alberto
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
light designer Giuseppe Filipponio
regia Alessio Boni e Roberto Aldorasi
-Teatro
Quirino, Roma
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