L'assurdo e umoristico viaggio delle ceneri di Pirandello verso la Sicilia

Giunge dal Festival di Berlino il primo e sino ad ora l’unico film che Paolo Taviani realizza da solo dedicando alla memoria del fratello Vittorio, (scomparso lo scorso anno) questo colto, grumoso ritorno a certe radici pirandelliane della loro filmografia. Sin dai tempi di “Kaos” e “Tu ridi”. Film figurativamente impeccabile (nel suo uso del bianco e nero), ‘traboccante’ di cultura cinematografica sia nella documentazione iconografica (con citazioni da “Paisà”, “Il sole sorge ancora, “Estate violente” che significano il trascorrere del tempo post-bellico), sia nella virtuosa (ma non virtuosistica) ricostruzione di ambienti, atmosfere, personaggi di una certa Italia in orbace che si agita nel “post mortem” dell’ Agrigentino: avvenuta nel 1936, due anni dopo l’assegnazione dell’ “amaro Nobel”, e che poco risarciva “del tanto amaro ingoiato” in vita.
Come a suo tempo narrava Andrea Camilleri (fra sapidità e paradosso), l’urna che conteneva le ceneri dello scrittore avrebbe dovuto (per sua estrema volontà) essere disperse “ai quattro venti” nel mare antistante la sua casa natale (nella girgentina località del Kaos a strapiombo su un “Mediterraneo che è già Africa”). Adagiate invece (dopo ridicole burocrazie e paradossali peripezie) nella stessa località di Sicilia. In una sorta di masso-mausoleo dopo essere state spostate da Roma all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Venato da un composto ma ‘definitivo’ sentimento di caducità e mortalità (uniche compagne che si associano alla vita), sdrammatizzato da un senso di ‘cordoglio’ che ricusa il melodramma, “Leonora addio” (che trae il suo titolo da una della più intense, al femminile, “Novelle per un anno”) trova ‘slargo’ e sintesi drammaturgica in un incompiuto progetto dei Taviani. Spiazzando la visione verso un altro componimento della novellistica pirandelliana: la didattica proposizione, anzi la messinscena (come in “Cesare non deve morire”) del racconto “Il chiodo”, ove si narra di un assurdo delitto commesso (paradigma della banalità del Male?) da un ragazzo emigrato ‘nelle Americhe’ ai danni di una coetanea innocente.
Come a dire, e anticipando di alcuni decenni il sentimento “dell’assurdo” che, quasi mai, la fine di una vita, nel suo scorrere prosaico e dissacratorio, corrisponde a ciò che essa “avrebbe meritato”. Anelando un Nuovo Mondo disvelatosi –e tornando alle irruzioni del tragico-grottesco- anticamera di Inferi che promettevano emancipazione e riscatto. Sicchè: bene arrivarci in forma di cenere. In una narrazione di nuovo guizzante, con struttura da “matrioska” (uno strato dopo l’altro), che sembra tendere alla “astrazione di un teorema” esistenziale. Ineludibile.
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