L'Ars vara la legge di stabilità, la Sicilia resta instabile
Economia | 3 marzo 2016
L’unica certezza della legge di stabilità approvata il 2 marzo dall’Assemblea Regionale Siciliana è che le due mani che l’hanno scritta - una romana, l’altra siciliana - non hanno adoperato il medesimo alfabeto. Si trattava della prima applicazione in Sicilia della nuova normativa sull’armonizzazione dei bilanci e-. soprattutto- essa avrebbe dovuto rispondere all’esigenza di invertire il trend rispetto al progressivo aggravarsi dello squilibrio finanziario di una Regione il cui bilancio, pari ad oltre 22 miliardi di euro, è per l’84 % destinato a spesa corrente e perciò sostanzialmente inutilizzabile per agganciare la pur debolissima ripresa che sta interessando l’isola e dare una risposta ai sempre più drammatici problemi del lavoro, dell’impresa, delle precarie condizioni di vita di una parte sempre più ampia della popolazione, della situazione disastrosa degli enti locali. Per questo la sessione di bilancio era stata preceduta dalla richiesta di inserire nella legge di stabilità nazionale una norma che garantiva alla Sicilia l’erogazione di 900 milioni di euro come contributo al riequilibrio del bilancio regionale e prevedeva di verificare in sede di trattativa Stato-Regione la possibilità di concederne altri 500, a condizione che nelle norme regionali si realizzassero una congrua riduzione delle spese ed un segnale netto di inversione di tendenza. Insomma, svanita la possibilità di “contrattare” la finanziaria con il commissario dello stato, il pallino è passato nelle mani del governo nazionale, che oggi è titolare della possibilità di impugnare il bilancio davanti la Corte Costituzionale. Checché ne pensi il mai abbastanza lodato presidente Crocetta , l’equilibrio tra entrate ed uscite (che l’introduzione dell’obbligo del pareggio del bilancio rende non più aggirabile) viene assicurato solo per il prossimo anno ed esclusivamente grazie al contributo nazionale una tantum di 1,4 miliardi ( i 900 milioni della legge di stabilità nazionale e i 500 milioni promessi, sempre che arrivino). Solo con la definizione delle norme di attuazione dello Statuto per la parte che riguarda i rapporti finanziari tra lo Stato e la Regione potrà determinarsi un nuovo equilibrio che consentirà alla Sicilia di considerarsi al sicuro dal default. La Sicilia è rimasta la sola tra le regioni a statuto speciale a non avere definito i nuovi accordi con Roma, mentre le norme di attuazione vigenti risalgono addirittura a 1965 e sono state rese del tutto desuete dalle riforme fiscali che si sono succedute in questi cinquantuno anni. I giuristi concordano sul fatto che l’organo deputato a individuare le nuove norme è il Comitato paritetico Stato-Regione ma, per quanto ne sappiamo, la trattativa si sta svolgendo direttamente a livello di Esecutivi, tanto che la Giunta Regionale con la delibera 286 del 20 novembre 2015 ha dato mandato all’assessore all’Economia Baccei di condurre la trattativa a partire da una serie di precise indicazioni di merito contenute in quel documento. Il vero nodo di questa legge di stabilità siciliana consisteva dunque nell’esigenza di facilitare, attraverso una serie di riduzioni di spesa, la trattativa sui 500 milioni e, in seguito, quella ben più importante sul nuovo assetto dei rapporti finanziari con Roma. Tuttavia, già nel disegno di legge approvato nel dicembre scorso, erano state introdotte una serie di norme di chiaro contenuto assistenziale che apparivano incoerenti rispetto all’assunto della razionalizzazione della spesa. Il confuso dibattito assembleare ha fatto il resto, producendo una legge di stabilità che non realizza gli obiettivi che si era proposti ed è priva di un impianto coerente con l’esigenza di accompagnare le iniziative utili a dare più forza ai timidi cenni di ripresa. Sarebbe stato illusorio aspettarsi che questo bilancio, prigioniero di una spesa corrente straripante ed irrigidita, mettesse in campo risorse per lo sviluppo che andranno invece individuate nei fondi strutturali europei, nel fondo di sviluppo e coesione nazionale e nei PAC 2014-2020; essa però poteva attivare, in special modo sul terreno della riorganizzazione della macchina regionale, atti capaci di rendere più efficace e produttiva quella spesa. Ancora una volta si mancata un’occasione importante e la legge è stata addirittura peggiorata dal confuso dibattito d’aula. Esamineremo nel merito l’articolato quando avremo i testi definitivi ma, per quanto è dato comprendere dalle notizie di agenzia, su alcune questioni si è sostanzialmente scelta la via del rinvio (a dopo le prossime elezioni regionali?), su altre- per esempio i tetti alle retribuzioni dei dirigenti delle società partecipate- prevale la confusione, su altre ancora sembrano essersi consumate vendette, aiutate –per citare un caso – dalle tempestive dimissioni dei consiglieri di amministrazione di Riscossione Sicilia. Avevamo già rilevato che le norme per combattere la povertà estrema erano inadeguate ed insufficienti, ma sembrano in ogni caso essere scomparse dalla discussione. Protagonista, ancora una volta, è stato invece lo scontro sull’ormai famosissima tabella H e sulla discrezionalità del sistema di concessione dei contributi alla pletora di associazioni esistenti nell’isola. Forse la sua abolizione è l’unica vera novità prodotta dai dieci giorni di dibattito a palazzo dei Normanni: davvero troppo poco per i siciliani che meriterebbe che i loro rappresentanti dessero risposte serie a problemi ogni giorno più drammatici.
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