La conferenza di Parigi sul clima si è conclusa con la firma del sospirato accordo. Un’intesa era necessaria per iniziare a risolvere il problema. E infatti coinvolge 185 paesi sulla base di piani nazionali di riduzione delle emissioni. I tre criteri per giudicare se si tratta di un buon accordo.
Tre criteri di giudizio
Il summit sul clima è terminato sabato 12 dicembre con la firma del sospirato
accordo. I siti web hanno cominciato a fornire immediatamente informazioni,
mentre la stampa di tutto il mondo ne ha presentato e commentato gli aspetti
salienti nella giornata di domenica. Sui media sono poi arrivati le
dichiarazioni, i commenti e i giudizi di esperti, politici e rappresentanti
delle organizzazioni non governative.
Scartando l’inutile ed esigua pattuglia
di coloro che ancora si ostinano a sostenere che il problema non esiste o non
dipende dall’uomo, è necessario arrivare a un accordo per cominciare a
risolverlo. Ci sono tuttavia tre elementi fondamentali che fanno da sfondo a
questa sfida planetaria, elementi che con qualche forzatura potremmo associare
ai tre criteri di valutazione. Il primo è “target e obiettivi, strumenti e
misure”. Il secondo è “equità, intra e inter-generazionale”. Il terzo è il
principio numero 7 della Dichiarazione dell’Earth Summit di Rio de Janeiro del
1992, quello delle “comuni ma differenziate responsabilità”.
Tra scienza ed equità
Il primo metro di giudizio parte dalla scienza. Pur nell’incertezza che
caratterizza le nostre conoscenze delle dinamiche di fenomeni globali e di
lunghissimo respiro, la scienza ci dice che con ogni probabilità i danni
provocati dai cambiamenti climatici valutati a fine secolo saranno molto
ingenti. Nel dibattito è venuto progressivamente ad affermarsi come indicatore
di riferimento la temperatura media globale, per la precisione il suo incremento
rispetto al livello pre-industriale. Anche se si tratta di un valore di
riferimento medio, la soglia dei +2°C è diventato il livello da non superare. In
tempi recenti, stanti i progressi della scienza del clima come riportati negli
ultimi rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate
Change), il livello auspicato è diventato +1,5°C.
Da questo
punto di vista, l’accordo di Parigi include l’obiettivo “di lungo termine” di
contenere il riscaldamento del pianeta “ben al di sotto dei 2°C” e di “mettere
in atto tutti gli sforzi possibili per non superare 1,5°”. Le parti (i paesi)
puntano perciò a raggiungere un picco delle emissioni “al più presto” e ad
arrivare a saldo zero a partire dal 2050. Purtroppo, l’accordo non dice come e
con quali strumenti, e parla quindi di impegni e non di obblighi futuri.
Il
secondo criterio di giudizio parte dal principio di equità. I cambiamenti
climatici pongono alla generazione vivente un problema di equità senza
precedenti. Non si tratta qui di discutere di sostenibilità di sistemi
pensionistici e di debiti pubblici, ma di una formidabile sfida per assicurare
ai nostri pronipoti e ai pronipoti dei nostri figli, e a tutti gli altri esseri
viventi, le stesse garanzie di cui godiamo oggi, forse senza meritarcelo, e a
partire dalla vita stessa. Questa responsabilità si estende poi, all’interno
della nostra generazione, da nord a sud, dai ricchi ai poveri, dai primi agli
ultimi, dai meno minacciati ai più immediatamente minacciati dai cambiamenti
climatici.
Con l’abbandono di un accordo “top-down”, calato dall’alto, come
il protocollo di Kyoto, a favore di un approccio “bottom-up”, si è data
anzitutto la possibilità a ciascun paese di enunciare un proprio piano
volontario di riduzione delle emissioni realizzando così la differenziazione
perfetta. L’Indc (Intended nationally determinated contribution) porta
con sé un’assunzione di responsabilità da parte del paese formulante, anche se
la coerenza dei vari Indc in vista dell’obiettivo unico e comune di crescita
della temperatura non può essere garantita ex-ante. In effetti, i 158 piani
inoltrati, riflettendo 186 paesi e circa il 96 per cento delle emissioni globali
nel 2010 (e il 97 per cento della popolazione mondiale), ipotizzano un aumento
della temperatura a +2,7°C: ben altri sforzi saranno dunque necessari. Per fare
un confronto rispetto al grado di copertura raggiunto, però, basta ricordare che
il protocollo di Kyoto copre circa il 14 per cento delle emissioni globali e –
assai più importante – lo 0 per cento della crescita delle emissioni.
Sarà realizzato?
Il terzo criterio è quello della fattibilità di un accordo, sulla base del
realismo e pragmatismo che è ingrediente fondamentale e inevitabile della
politica estera. La mediazione è l’arte della diplomazia e se l’accordo di
Parigi 2015 sia soddisfacente o meno va giudicato alla luce della possibilità
percepita di poterne raggiungere uno migliore ovvero di rischiarne uno peggiore.
Non manca una casistica per la seconda possibilità, a partire da Copenhagen
2009. Questo accordo arriva esattamente diciotto anni dopo l’unica e vera
intesa, raggiunta a Kyoto. Il protocollo conteneva obiettivi precisi e
vincolanti di riduzione delle emissioni, ma solo per 39 paesi, mentre gli Indc
di Parigi ne coinvolgono 185. L’obiettivo di riduzione delle emissioni globali
era di -5,2 per cento rispetto al 1990 entro il 2008-2013, un obiettivo da molti
esperti giudicato insufficiente, ridottosi poi ulteriormente per la non ratifica
degli Stati Uniti.
È stato saggio accettare l’indicazione di un fondo da 100
miliardi di dollari annui perché probabilmente i paesi sviluppati non avrebbero
concesso di più. Molti altri aspetti non sono stati definiti in maniera più
netta e stringente nel testo, come quello dell’obbligo e dell’accettazione da
parte di tutti di meccanismi di Mrv (monitoring-reporting-verification)
delle emissioni, secondo gli standard dei paesi sviluppati.(info.lavoce)