Italia migrante e negletta, così massacravano gli italiani

Cultura | 26 ottobre 2018
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Ma “ad emigrare siamo sempre noi”.

Pensando agli immigrati che in ogni famiglia dei nostri territori sono dovuti andare via – non perché profughi ma solo perché “migranti economici” come si direbbe oggi – sarebbe opportuno riflettere su quando “ad emigrare eravamo noi”. Ma c’è sempre più da convincersi che questa riflessione può non avere senso: l’emigrazione è una piaga che affligge i nostri territori anche adesso. Non piaga del passato ma del presente. Perché “ad emigrare siamo ancora noi”.

Con il bombardamento mediatico, tra navi che non possono attraccare, sventurati che continuano a morire in mare, rifiuti di Stato all’accoglienza, attacchi alle Caritas ed alle organizzazioni umanitarie - le prime perché continuano ad accogliere, le seconde perché continuano a salvare in mare - è facile distrarsi. Negli ultimi tempi, infatti, ci siamo abituati a guardare a quel fenomeno antico quanto l’uomo che è lo spostamento di individui da un paese all’altro, da un continente all’altro, come ad un fenomeno che l’Italia subisce, “costretta” ad accogliere chi arriva dall’estero su gommoni, barconi e carrette del mare. E così, distratti da quanto ci viene raccontato, non pensiamo che in Sicilia e nel Mezzogiorno il fenomeno che ci coinvolge più pressantemente non è l’immigrazione di chi viene da noi ma l’emigrazione di chi parte, che vede sempre più spopolati i nostri comuni.

Quello che ci dovrebbe fare riflettere seriamente non è l’accoglienza di chi arriva – necessaria, doverosa ma con regole da fare rispettare, esigente, organizzata con l’obiettivo dell’integrazione - ma il distacco di chi ci lascia. Fino a un paio di lustri fa nei nostri territori - ormai afflitti dall’emigrazione come da una emorragia continua che a tratti registra dei picchi - ad andare via erano i più giovani. Finita la scuola superiore, hanno proseguito gli studi lontano da casa, hanno trovato lavoro lontano da casa, hanno formato le loro famiglie lontano da casa. E questo ha portato nelle nostre comunità locali, specie nelle più interne, quasi a cancellare una intera fascia di popolazione. Oggi ad andare via sono anche i meno giovani, i quarantenni ed i cinquantenni che da noi non trovano una possibilità di vita dignitosa.


I migranti sono come le zecche dei cani”

Sì, “ad emigrare siamo ancora noi”. Più che mai. Ecco perché indigna ascoltare nostra gente che sostiene che gli immigrati nel nostro paese, come i loro bambini, “sono come le zecche dei cani”. Affermazione terribile che inevitabilmente fa pensare a quei piccoli italiani, anche figli di nostri parenti ed amici, che stanno crescendo all’estero. Induce a chiederci: anche loro – che nei paesi in cui sono andati a vivere sono i “diversi”, gli “estranei” – sono considerati “come le zecche dei cani”?

Di fronte a certe affermazioni, di fronte alla discriminazione razziale, di fronte al prepotente, protervo sdoganamento del razzismo registratori nel 2018, ad ottanta anni dall’emanazione delle infami leggi razziali del regime fascista, non si può rimanere in silenzio facendo finta che non sia stato detto. Perché purtroppo è il “silenzio degli onesti” ad avere “fatto” troppe volte la storia. Ad aver fatto scrivere pagine vergognose di discriminazione e razzismo. Pagine che, come a Lodi, possono essere cancellate dalla solidarietà, dalla condivisione, dal protagonismo attivo dei cittadini.


Undici immigrati italiani linciati a New Orleans

In questo clima di intolleranza e crescente ostilità nei confronti di “negri” e immigrati può essere istruttiva qualche lezione di storia. Anzi, meglio: ne abbiamo un gran bisogno. Aiuta a capire cosa è stata l’emigrazione per noi italiani - ora eterodiretti da leader politici maestri nel tirare il peggio dell’animo umano – cosa è stata l’emigrazione per noi, possibilmente discendenti da emigrati tornati poi in patria. Noi che (alla faccia della coerenza!) siamo divenuti dall’oggi al domani nemici giurati degli immigrati.

Tre storie terribili e non molto note, due avvenute negli Stati Uniti, una in Francia. Ci fanno capire quanto amaro sia il calice dell’emigrazione. E quanto elevato, spesso mortale, sia stato il prezzo che ad essa italiani, e siciliani in particolare, hanno pagato.

Il linciaggio di New Orleans avvenne il 14 marzo 1891 (per chi vuole approfondire: Patrizia Salvetti “Corda e sapone”, Donzelli Editore; Alberto Bonanno “Il linciaggio di nove siciliani nella New Orleans del 1891” in “Repubblica Palermo”, 28 novembre 2007; “Eccidio degli italiani negli Usa terzaclasse” su “terzaclasse.it”). Il flusso migratorio italiano verso gli Stati Uniti era cresciuto man mano che ci si avvicinava alla fine del secolo. Tra il 1820 e il 1880 si stima una migrazione verso gli Usa di circa 80.000 individui provenienti dagli stati in cui era frazionata la penisola e, dal 1861, dal nuovo stato italiano. Tra il 1879 e il 1892 il numero di siciliani emigrati negli Stati Uniti esplose da 90 a 10.000. Contadini ed operai poco o per niente specializzati entravano in contatto con la realtà americana. Data la loro situazione e le difficoltà di integrazione, tendevano ad isolarsi all’interno dei quartieri abitati da connazionali, così da mantenere usi e lingua di appartenenza. Quartieri con alto livello di degrado, sovraffollamento nelle case, condizioni igieniche precarie. Una situazione malvista dagli americani che cominciarono a disprezzare immigrati percepiti come simbolo di inciviltà e malcostume. Anche perché nello stesso periodo, proprio a causa del flusso migratorio, approdava negli Usa la mafia. Si aggiunga che antropologi, criminologi, sociologi noti in Italia e all’estero (Sergi, Pigorini, Lombroso, Niceforo) elaboravano una visione molto negativa del Sud e dell’italiano meridionale dipinto come un selvaggio sulla base di varie osservazioni, a partire dalla craniometria utilizzata per attribuire un quoziente intellettivo più basso rispetto ai popoli del nord oppure dalla presunta assenza nei meridionali del sangue celtico che caratterizzava le popolazioni più civili ossia le settentrionali. Una conclusione peraltro storicamente e clamorosamente errata considerata la presenza nel Meridione e in Sicilia di sangue di conquistatori provenienti dalla Normandia e di sangue degli Angioini francesi.

Nel 1890 a New Orleans su 275.000 abitanti 30.000 erano di origine italiana. Due famiglie – i Matranga ed i Provenzano – si contendevano il controllo criminale. A seguito di un agguato ai Matranga da parte dei Provenzano iniziarono scontri violenti. Il sovrintendente della polizia di New Orleans David Hennessy, che sarebbe stato legato ai secondi, dopo aver arrestato due esponenti dei Matranga, annunciò una testimonianza favorevole ai Provenzano nell’imminente processo. Il 15 ottobre 1890, tornando di notte a casa, venne raggiunto da colpi di fucile da caccia. Secondo alcuni fonti prima di morire sussurrò agli amici che lo circondavano per prestargli soccorso: “Dagoes did it” (I dagos lo hanno fatto). Col termine dagoes (coltelli) erano chiamati spregiativamente gli italiani.

Vennero interrogate ed arrestate persone di origine italiana, alcune del tutto estranee ai fatti. Il console Pasquale Corti riferì all’ambasciatore negli Usa Francesco Saverio Fava i metodi illegali con i quali venivano trattati e le violenza fisiche e verbali subite. Vennero arrestati diciannove italiani, di cui undici accusati di un ruolo diretto nell’omicidio Hennessy.

Nel marzo 1891 otto degli undici imputati furono giudicati non colpevoli, a seguito di un controverso processo caratterizzato dal tentativo degli inquirenti di creare prove inesistenti. Sul verdetto non è escluso che abbia pesato l’influenza della criminalità sulla giuria, molto probabilmente corrotta. Gli imputati vennero comunque tenuti in arresto, in attesa d’un possibile verdetto che avrebbe ribaltato la sentenza, e portati nella prigione locale.

La comunità siciliana festeggiò l’esito del processo ma la popolazione americana di New Orleans, che si sentì tradita dalle istituzioni e dalla polizia, cominciò a parlare di processo-farsa. Il clima di odio contro la comunità italiana venne cavalcato anche dal sindaco Joseph Shakespeare che – con un cognome così drammaticamente impegnativo – non esitò a definire gli italiani “gli individui più abbietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistono al mondo, peggiori dei negri e più indesiderabili dei polacchi”.

Un gruppo di manifestanti guidati da un avvocato, William Parkenson, si riunì in una piazza. Da 3.000 a 20.000 persone, secondo le diverse fonti. Chiare le intenzioni: oltre un centinaio erano armati. La folla – alla cui testa erano cittadini appartenenti alla borghesia medio-alta ed alle classi abbienti – si avviò verso la prigione. La polizia cercò di evitare l’assalto ma nulla poté contro un numero così alto di cittadini in rivolta. I prigionieri che tentavano inutilmente di nascondersi furono stanati. Due vennero impiccati, gli altri massacrati a colpi di fucile. Undici vittime: pregiudicati sia in Italia che negli Usa, incensurati anche se ritenuti mafiosi, poveri diavoli con condotta irreprensibile accomunati a causa del pregiudizio razziale a coloro che potevano essere identificati come colpevoli. I loro nomi: Antonio Abbagnato, Girolamo Caruso, Rocco Geraci, Antonio Grimando, Pietro Monastero, Emanuele Polizzi, Frank Romero, Antonio Scafidi, Vincenzo Traina, Rocco Geraci, l’abruzzese Loreto Camitis.

L’ambasciatore italiano venne richiamato a Roma dal presidente del Consiglio Di Rudinì. Il Regno d’Italia chiese giustizia e un adeguato risarcimento alle famiglie dei linciati oltre che il rispetto dei trattati internazionali stipulati perché ai cittadini stranieri fosse garantita protezione dal governo federale.

I colpevoli non vennero mai puniti.

A rimediare alla tensione tra Roma e Washington fu il presidente degli Stati Uniti Benjiamin Harrison: anche se contestato dagli americani, risarcì le famiglie delle vittime con una indennità ma sottolineando che l’offesa non era stata inflitta direttamente dagli Stati Uniti. Una sorta di cortesia internazionale verso l’Italia al fine di ristabilire buoni rapporti.


Caccia senza pietà agli immigrati italiani in Francia

Due anni dopo altro massacro, stavolta in Francia, nella regione meridionale della Camargue (la ricostruzione degli avvenimenti a cui attingiamo – “Il massacro di Aigus-Mortes”, 2017 - è di Stefano Gallo, ricercatore dell’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Cnr di Napoli). Ogni anno per la raccolta del sale, la “Compagnie des Salins du Midi”, società per azioni in piena fase espansiva, ingaggiava i lavoratori necessari per compiere le operazioni nei tempi stabiliti. Da qualche anno la produzione era talmente aumentata da non potere più fare ricorso alla manodopera locale. I migliori erano diventati gli italiani, provenienti soprattutto dal Piemonte e dalla Toscana, abituati a lavorare sodo e a sopportare grandi sforzi fisici. Accanto a loro operava una forza lavoro meno efficace: i “trimards”, coloro che nelle campagne francesi vagavano da una occasione di lavoro all’altra. Il cottimo imposto dalla “Compagnie” garantiva che gli operai avrebbero spinto all’estremo le loro capacità fisiche per massimizzare i guadagni. Fu proprio questo il problema che fece surriscaldare gli animi la mattina del 16 agosto 1893. Una questione di diversa disponibilità ad arrivare al limite della propria capacità fisica. Per piemontesi e toscani era una questione di orgoglio dimostrare quanto valevano attraverso la massima erogazione della forza lavoro. Per i “trimards” no.

L’insofferenza degli italiani per la lentezza e l’imperizia dei francesi esplose il primo giorno di raccolta in una salina a 8 chilometri da Aigues-Mortes. Gli italiani avevano accettato il cottimo, i francesi cominciavano a contestarlo chiedendo una retribuzione fissa. Quella mattina del 16 la “Compagnie” aveva chiuso le porte ad alcuni disoccupati francesi giunti ad Aigues-Mortes per lavorare nelle saline, giudicati meno adatti. La rabbia dei “trimards” era dunque rivolta contro questo complesso di cose ma a rimetterci furono solo gli italiani. Dopo che l’intervento delle guardie aveva calmato le intemperanze dei “pimos” (come erano soprannominati spregiativamente gli italiani) nella salina dove tutto ebbe inizio, i “trimards” corsero verso il centro cittadino accusando gli italiani di avere assalito e ucciso alcuni francesi. La reazione fu feroce e isterica: gli abitanti di Aigues-Mortes, gli stagionali scesi dalle montagne vicine e i “trimards” si trovarono uniti nella “caccia all’orso” ovvero all’italiano. Non un semplice modo di dire. Un banditore venne pagato infatti per annunciare con il tamburo che si era aperta la caccia all’orso, antica usanza per richiamare tutti gli uomini alla difesa armata della comunità: l’annuncio pubblico del rilascio indiscriminato della licenza di uccidere. Una violenza impressionante. Il 17 agosto pietre, forconi, randelli, fucili furono usati per colpire persone in fuga o finire feriti a terra, in particolare sotto le mura della città vecchia. A conclusione di due giorni di follia si contarono nove morti e un centinaio di feriti. Un ferito grave spirò in ospedale un mese dopo. La licenza di uccidere annunciata dal banditore venne presa sul serio anche dalla corte di Angouleme l’inverno seguente. Alla fine di quattro giorni di processo nessuno venne condannato per il massacro degli italiani.

Sullo sfondo delle contraddizioni della globalizzazione economica di fine Ottocento pagano il prezzo più alto le persone meno difese. Le violenze francesi sono speculari a quelle d’oltreoceano con in più l’incidenza della grave crisi economica che attraversava le società europee a causa dell’affacciarsi della globalizzazione dei mercati. Massicce importazioni di grano dalle Americhe e dalla Russia causarono una crisi agraria che impoverì le campagne europee con ripercussioni in particolare sugli strati popolari.

In Italia si registrarono violente reazioni antifrancesi in piazza e saccheggi di negozi di proprietà o marchi francesi. Ma il dato di fatto è che a pagare furono sempre e solo emigranti italiani in quello che lo storico Gèrard Noirel ha definito “il più grande massacro di immigrati della storia contemporanea francese” e “uno dei principali scandali della storia giudiziaria del paese”. (Gèrard Noirel “Il massacro degli italiani. Aigues-Mortes. Quando il lavoro lo rubavamo noi”, Milano 2010).


Da Cefalù a Tallulah. Senza ritorno.

Il terzo episodio ancora in Louisiana, a Tallulah, non molti anni dopo, nel 1899 (per chi vuole approfondire: Gian Antonio Stella “L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi”, Rizzoli, 2002; Marzia Cristina “Il linciaggio dimenticato dei siciliani” in “la Repubblica”, 25 agosto 2011; www.latinacittaaperta.info). Come abbiamo visto, molti migranti provenivano dal Meridione e, tra loro, la maggior parte, dalla Sicilia. A lavorare nel porto di Nuovaorleanza (come i siciliani chiamavano New Orleans) e nel piccolo commercio. Proprio i venditori di agrumi, meloni, frutta furono vittime degli istinti violenti della popolazione locale, in particolare della parte più rabbiosa e impoverita della popolazione. Furono una avvocatessa, Mary Grace Quackebons, e un ex schiavo nero, Booker Tagliaferro Washington, a redigere gli studi più approfonditi sulla miseria, a volte sulle vere e proprie pratiche di sfruttamento di tipo schiavistico, degli immigrati italiani.

Il massacro di Tallulah è originato da un casus belli di incredibile futilità. Una capra appartenente ad italiani, proprietari di modeste botteghe di frutta e verdura, aveva sconfinato in un terreno di proprietà del medico e coroner Hodge. Il coroner nei paesi anglosassoni è un magistrato che indaga sui casi di morte violenta o sospetta. Non era la prima volta che la capra brucava in un terreno altrui. Hodge si reco dai proprietari intenzionato a fargliela pagare una volta per tutte. Pare che abbia ucciso la capra. I proprietari della bestia erano tre fratelli venuti da Cefalù: Francesco, Giuseppe e Pasquale Fatta che avevano americanizzato nomi e cognomi, come si usava, in Frank, Joseph e Charles Di Fatta, di 54, 36 e 30 anni. Proprietari di una modesta bottega di frutta e verdura, avevano fatto amicizia con altri italiani, soprattutto Rosario Fiducia e Giovanni Cerami, 37 e 23 anni, commercianti nello stesso settore.

Tra Hodge e Frank Di Fatta scaturì una lite furibonda durante la quale il medico tirò fuori la pistola. Joseph, accorso in difesa del fratello, sparò ad Hodge ferendolo. Lo sparo richiamò decine di residenti che decisero di vendicarsi sui siciliani. Tre – Frank Di Fatta, Rosario Fiducia e Giovanni Cerami – non opposero resistenza all’arresto da parte dello sceriffo Lucas mentre Joseph e Charles Di Fatta fuggirono.

Negli Usa di quell’estremo scampolo di secolo solitamente quando i sospettati di qualche reato erano neri, cinesi, italiani prima li si impiccava e poi si valutava se fossero colpevoli. Meccanismo che si mise in moto anche a Tallulah la notte successiva. Troppo forti gli odi e i pregiudizi nei confronti dei ”dagoes”. La notizia del ferimento di Hodge si diffuse e la folla si organizzò spontaneamente. Secondo le fonti locali a partecipare al linciaggio furono un migliaio di individui. Trecento entrarono armati nella prigione locale e impiccarono i tre immigrati siciliani in men che non si dica nel cortile del carcere. I due fuggiti furono rintracciati e impiccati vicino al mattatoio. Era il 21 luglio 1899 ma nel resto del paese la notizia arrivò dopo 24 ore. La sera del linciaggio, infatti, i partecipanti avevano piazzato alcuni di loro nell’ufficio del telegrafo per minacciare di morte il telegrafista se avesse diffuso la notizia prima della messa in atto dell’impiccagione.

Secondo alcune testimonianze riportate da un quotidiano di New Orleans il ferimento del coroner Hodge, rimasto comunque vivo, avrebbe in realtà nascosto una manovra a danno degli italiani, organizzata dai commercianti locali. Speravano di provocare una forte reazione contro i siciliani, mirata ad evitare che votassero ed a liberarsi della loro scomoda concorrenza commerciale.

I giornali americani condannarono blandamente i fatti. Comunque non mancando di sottolineare come gli italiani fossero “una colonia di viziosi omicidi e assassini per i quali omicidio e sangue sono quello che rose, luna piena e musica sono per poeti e amanti”.

Gli italiani, e in particolare i siciliani, in Louisiana erano pochi tollerati. Cinque siciliani innocenti, di cui tre già cittadini americani, morirono così. Si può discutere a lungo sull’aggettivo “innocenti”. E’ però indubbio che si fosse trattato di un ferimento per legittima difesa e non di omicidio. E quindi di un gesto nella più sfavorevole delle sentenze in un tribunale da condannare anche con parecchi anni di carcere ma di sicuro non da bilanciare con una strage quale è a tutti gli effetti il linciaggio di cinque uomini.

La stampa dello stato della Louisiana, al contrario di quella nazionale, non provò nemmeno ad ostentare una falsa obiettività. Difese gli autori del linciaggio celebrandoli come giustizieri popolari.

Le ricerche del Segretario dell’Ambasciata d’Italia a Washington Marquis Romano dimostrarono che Joseph Di Fatta aveva sparato a Hodge per legittima difesa. Nessuno venne processato per i cinque omicidi.

La vicenda si concluse con una inchiesta-farsa delle autorità federali. Ognuna delle cinque vite venne “pagata” ai familiari con 2000 dollari di risarcimento.

(Collaborazione alla parte iniziale di Cristina Puglisi, 

redattrice del periodico “…InDialogo” di Nicosia)

 di Pino Scorciapino

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