In memoria di Marco leto, autore de “La villeggiatura”
Se ne andato senza clamore, con discrezione, quasi dimenticato da tutti, Marco Leto, regista cinematografico e televisivo, soggettista, sceneggiatore. Nato a Roma nel 1931, dopo aver fatto da assistente a Mario Monicelli approda in TV dove continua una faticosa ed eterogenea gavetta finché nel 1965 imbrocca decisamente la strada dell’impegno civile e politico con il docufilm “Fuga da Lipari”, che racconta la rocambolesca fuga di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Nitti dall’isola eoliana (confino fascista) a bordo di un motoscafo guidato da Gioacchino Dolci. Ma sarà il 1973 a consacralo come uno dei registi di punta di quel genere cinematografico impegnato a rivisitare senza retorica gli anni oscuri e opprimenti della dittatura fascista. In quell’anno Leto esordisce nella regia cinematografica con “La villeggiatura”, presentato a Cannes con successo e insignito di un Nastro d’Argento, “presa di coscienza” d’un intellettuale liberale antifascista - forse la migliore interpretazione cinematografica di Adalberto Maria Merli, nei panni di un giovane docente universitario (furono solo in 13 su 2989 i docenti che rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime fascista) che a contatto con gli altri confinati comunisti alla fine si converte al marxismo, fugge dalla “villeggiatura” dell’isola di Ventotene per andare a morire forse in Spagna nel 1936 o forse in Italia nel 1948, giorno della sconfitta elettorale del fronte social-comunista. Straordinaria l’interpretazione del messinese Adolfo Celi (a cui di recente il figlio Leonardo ha dedicato il documentario “Adolfo Celi, un uomo per due culture”), il commissario che incarna il volto colto, paternalistico e accomodante del “fascismo bianco”, con ogni probabilità ispirato alla figura del padre del regista. Autore di sceneggiature di spaghetti-western, ma altresì di commedie e drammi, Leto perviene tre anni dopo alla regia di un secondo lungometraggio “Al piacere di rivederla” (1976), dal romanzo di Primo Levi “Ritratto di provincia in rosso”, protagonista Ugo Tognazzi, un commissario incaricato di indagare su un presunto suicido che scoprirà un verminaio di corruzione in un ambiente fradicio fino alla collottola. Nel film spicca altresì l’interpretazione di Alberto Lionello (uno dei mostri sacri del teatro italiano assurdamente sottoutilizzato dal cinema), nei panni d’un molto poco spirituale frate abietto e speculatore. Regista di molte mini serie televisive (“Philo Vance” 1974, “Rosso veneziano” 1976, “I vecchi e i giovani” 1979, “Il nocciolo della questione” 1982), quindi “Quaderno proibito” dal romanzo di Alba de Céspedes, con Lea Massari, Leto torna sugli schermi con “L’uscita”, 1988, prodotto da Rai Tre e Giuseppe Ferrara, film pencolante tra attività eversive e difficoltà di vivere. Nel 1989 è la volta di “A proposito di quella strana ragazza”, una terrorista che con un espediente riesce a sedurre un professore di mezza età con lo scopo d’intrufolarsi in un condominio dove vive un magistrato condannato a morte dal gruppo terroristico del quale la giovane è a capo. Finito il filone dell’impegno politico in un paese ormai duramente provato dalla crisi economica, dalla vuota logorrea e dalla sfrontata demagogia dei leaders politici, la scomparsa di Leto giunge quasi a suggellare gli anni della rassegnazione e della delusione susseguente alla “rivoluzione” di “Tangentopoli”, dopo la quale si è invano sperato in una moralizzazione della vita civile della nazione, che sembra invece dannatamente legata ad una corruzione endemica e irredimibile.
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