In Asia e Oceania nasce il Rcep, il più grande accordo di libero scambio del pianeta
Società | 10 maggio 2022
Il RCEP, questo sconosciuto
2022. Mentre l’Europa assiste sbigottita e terrorizzata ad un feroce conflitto sul territorio continentale che, come un incendio incontrollabile, potrebbe estendersi dall’Ucraina a numerosi paesi vicini, nell’Indo-Pacifico si avvia il più importante accordo di libero scambio del pianeta.
L’Europa non è più – da molto tempo - il centro del mondo. Il motore produttivo, economico e commerciale planetario, dati statistici alla mano, ha sede nell’immensa area denominata Indo-Pacifico. Dove non mancano i contrasti e le tensioni geopolitiche ma dove, intanto, a partire dall’1 gennaio 2022 è entrato in vigore il RCEP (“Regional Comprehensive Economic Partnership” ossia “Partenariato Economico Globale Regionale”).
Se chiediamo ad un campione di mille persone se sanno cosa sia il RCEP probabilmente sì e no una risponderà positivamente. Tema troppo specialistico, troppo lontano, troppo “oscurato” nei mesi iniziali dell’anno dalle angoscianti notizie a getto continuo sulla invasione da parte della Russia di un paese indipendente ai suoi confini, l’Ucraina, sui massacri, sulla carneficina anche di civili inermi che il conflitto provoca, sul suo “effetto propagazione” nell’intera area euro-atlantica, a cominciare dai paesi dell’Europa orientale più prossimi all’epicentro dello scontro. Il Vecchio Continente è alle prese con una emergenza umanitaria senza precedenti che vede profughi dalla loro patria circa un quarto dell’intera popolazione ucraina ossia una decina di milioni di bambini, donne e, in misura minore, anziani. Il nostro continente rischia di ridursi in macerie, addirittura radioattive in qualche area se la situazione sfugge di mano e degenera. Si parla con sempre maggiore frequenza di bomba nucleare “tattica” o “dimostrativa” in qualche area o città dell’Ucraina se la guerra dovesse continuare ad andare male per i russi o l’esercito ucraino dovesse attaccare con un blitz territori della Russia oltre il confine tra i due paesi. L’insensatezza di queste ipotesi è attestata da un confronto: l’esplosione nucleare “tattica” o “dimostrativa” o “di teatro” che dir si voglia – nell’immaginario degli strateghi militari dunque “piccola” - avrebbe la stessa potenza distruttiva delle due atomiche del 1945 di Hiroshima e di Nagasaki! Siamo davvero alla follia.
Il taglio più o meno vicino dell’imbarazzante cappio al collo costituito dal cordone ombelicale per gas, petrolio, materie prime alimentari e minerali con la Russia sfocerà per i paesi europei in una pesantissima crisi energetica (i gasdotti costituiscono la principale arma di strangolamento degli allocchi europei che Mosca ha saputo diabolicamente costruire). C’è già chi parla per l’Italia nel prossimo futuro di “razionamento duro per il gas e l’energia”.
Mentre l’impennata dei costi e dell’inflazione immiserirà il potere d’acquisto delle famigle europee saldandosi con una inevitabile recessione – la stagflazione, come la definiscono gli economisti – mentre, insomma, l’Europa diventa sempre più povera e marginale, nel quadrante che si affaccia sull’Oceano Indiano e sull’Oceano Pacifico occidentale prende corpo la più vasta area di libero scambio del mondo. Per numero di abitanti, per flussi produttivi, export, somma di Pil nazionali ben più consistente di quelli dell’Unione Europea, dell’Area di libero scambio nordamericana tra Stati Uniti, Canada e Messico, della consorella africana AfCFTA (“Area di libero scambio continentale africana” di cui abbiamo scritto su queste pagine nel mese di settembre del 2019).
Il RCEP certifica lo spostamento definitivo del centro di gravità economica del mondo nell’Asia-Oceania proprio quando l’Europa affronta una delle più drammatiche crisi militari e socio-economiche della sua storia, gravida di potenziali e terribili sconvolgimenti.
E allora – visto che il RCEP, sebbene costituisca una novità di rilevanza planetaria, per noi italiani può definirsi nulla più d’un acronimo sconosciuto – proviamo a conoscerlo meglio. A ripercorrere i suoi lunghi e laboriosi processi di preparazione, a quantificarne la consistenza, gli ambiti, i meccanismi procedurali ed organizzativi. Insomma proviamo a spiegare ed analizzare questo nuovo protagonista di primissimo piano dell’economia mondiale e di quanto resta della globalizzazione.
Globalizzazione da tutti criticata ma che già in queste settimane – con il rischio concreto di tornare a “chiuderci” come avveniva in epoca medievale con i castelli e i sottostanti borghi – tutti stiamo già rimpiangendo.
Genesi e consistenza del Partenariato Economico Globale Regionale
Il RCEP è un accordo di libero scambio nella regione dell'Asia-Pacifico tra i dieci stati dell'ASEAN (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia, Vietnam) e cinque dei loro partner di libero scambio: Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud. I quindici paesi membri rappresentano circa il 30 per cento della popolazione mondiale e del PIL, rendendolo il più grande blocco commerciale. È stato firmato al vertice dell'ASEAN virtuale ospitato in Vietnam il 15 novembre 2020. Entra in vigore entro due anni, dopo la ratifica dei paesi membri.
Il patto commerciale, che comprende un mix di paesi ad alto reddito, reddito medio e paesi a basso reddito, è stato concepito al vertice dell'ASEAN del 2011 a Bali, mentre i negoziati sono stati avviati ufficialmente nel corso del vertice dell'ASEAN del 2012 in Cambogia.
Il RCEP è il primo accordo di libero scambio tra Cina, Giappone e Corea del Sud (tre delle quattro maggiori economie asiatiche) ed il primo accordo multilaterale di libero scambio a includere la Cina. Al momento della firma gli analisti prevedevano che avrebbe aiutato a stimolare l'economia durante la pandemia di covid-19, e "avrebbe attirato il centro di gravità economico verso l'Asia".
I leader dell'ASEAN hanno dichiarato che la porta è rimasta aperta per l'India, che ha rinunciato nel novembre 2019 per unirsi forse in seguito.
L'accordo sarà aperto anche a qualsiasi altro partner economico esterno, come le nazioni dell'Asia centrale e le restanti nazioni dell'Asia e del Pacifico (Asia meridionale, Asia orientale, Asia sud-orientale e Oceania).
L'accordo mira a ridurre le tariffe e la burocrazia. Include regole di origine unificate in tutto il blocco, che possono facilitare le catene di approvvigionamento internazionali e il commercio all'interno della regione. Vieta anche alcune tariffe. Non si concentra sui sindacati, sulla protezione dell'ambiente o sui sussidi governativi.
Il RCEP non è completo come l'Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico, un altro accordo di libero scambio nella regione che comprende alcuni degli stessi paesi.
Con l'India inclusa il RCEP comprenderebbe potenzialmente più di tre miliardi di persone pari al 45 per cento della popolazione mondiale e un PIL combinato di circa 21,3 trilioni di dollari, pari a circa il 40 per cento del commercio mondiale. La decisione dell'India di non aderire al RCEP ha ridotto significativamente la dimensione potenziale dell'organizzazione. I membri del RCEP costituiscono quasi un terzo della popolazione mondiale e rappresentano il 29 per cento del prodotto interno lordo globale. Il PIL combinato dei potenziali membri del RCEP ha superato il Pil combinato dei membri del Partenariato Trans-Pacifico (TPP) nel 2007. È stato suggerito che la continua crescita economica, in particolare in Cina, India e Indonesia, potrebbe vedere il Pil totale nel RCEP originale e poi con l'adesione crescere fino a oltre 100 trilioni di dollari entro il 2050, circa il doppio della dimensione del progetto delle economie del TPP. Il 23 gennaio 2017 il presidente degli Stati Uniti d'America Donald Trump ha firmato un memorandum che ritira gli Stati Uniti d'America dal TPP, una mossa foriera di aumentare le possibilità di successo per il RCEP.
Secondo una proiezione per il 2020, si prevede che l'accordo aumenterà l'economia globale di 186 miliardi di dollari.
Durante il 19° vertice dell'ASEAN tenutosi dal 14 al 19 novembre 2011, è stato introdotto il partenariato economico globale regionale (RCEP).
L'India rinuncia al RCEP il 4 novembre 2019 al vertice dell'ASEAN + 3. Motivazione: l'impatto negativo che l'accordo avrebbe sui suoi cittadini principalmente a causa delle preoccupazioni relative al dumping di prodotti manifatturieri dalla Cina e di prodotti agricoli e lattiero-caseari dall'Australia e dalla Nuova Zelanda che potrebbero colpire i propri settori industriali e agricoli nazionali. Alla luce della rinuncia dell'India il Giappone e la Repubblica Popolare Cinese hanno invitato il governo di Nuova Delhi a partecipare nuovamente al partenariato.
Il trentunesimo ciclo di negoziazione RCEP si è tenuto il 9 luglio 2020 in videoconferenza a causa della situazione relativa alla pandemia.
Il RCEP è stato firmato il 15 novembre 2020 in una cerimonia che ha visto i 15 paesi membri partecipare tramite collegamento video a causa della pandemia.
Per arrivare alla firma dal 2011 al 2020 sono stati necessari trentuno cicli di negoziazione e dodici riunioni ministeriali di partenariato.
L’accordo è entrato ufficialmente in vigore l’1 gennaio 2022.
A causa del ritiro dell'India, si teme che la Cina possa dominare il RCEP date le dimensioni della sua potenza economica che surclassa quelle degli altri paesi aderenti. Quando è stato firmato il RCEP il Primo ministro del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese Li Keqiang lo ha definito "una vittoria del multilateralismo e del libero scambio". Il primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong lo ha definito "un importante passo avanti per la nostra regione" e un segno di sostegno al libero scambio e all'interdipendenza economica. (Cronistoria dei negoziati e dati statistico-quantitativi tratti da “Wikipedia”).
Numeri e benefici del RCEP, la centralità cinese, l’incognita indiana e le preoccupazioni americane
Sin qui i processi formativi e i dati statistici generali. Entriamo adesso più nel dettaglio della conoscenza del RCEP. Lo facciamo con due circostanziati contributi pubblicati a distanza di un anno l’uno dall’altro su “ispionline.com”. Il primo, a firma di Alessandro Gili e Giulia Sciorati, risale al 27 novembre 2020 e si intitola “Libero scambio. RCEP: il nuovo motore della crescita asiatica”. Scrivono i due analisti dell’Ispi nel loro documentatissimo approfondimento:
“Un accordo storico, che segna l’avvio del blocco commerciale e di investimento più grande al mondo, in grado di rivoluzionare la geopolitica della regione e i rapporti tra gli Stati dell’Est asiatico. È il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), l’accordo economico-commerciale tra i 10 Paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, firmato il 15 novembre dopo otto anni di negoziati. Un accordo che segna nuove prospettive per lo sviluppo economico della regione, ne promuove l’integrazione e segnala una sostanziale perdita di peso strategico nell’area degli Stati Uniti, ormai estranei ai giochi dei grandi trattati multilaterali di libero scambio nel quadro della presidenza Trump.
La tempistica dell’accordo è innanzitutto indicativa dei pesanti effetti della pandemia sull’economia e sulle relazioni internazionali. È stata infatti la spinta della profonda crisi economica globale (che vede l’economia cinese come l’unica al mondo che continua a crescere) a riuscire a mettere d’accordo l’Asia orientale, quella del Sud-Est e il Pacifico. In questo senso, il RCEP è un primo passo verso quella tendenza alla regionalizzazione degli scambi che era già entrata nei dibattiti internazionali fin agli albori della guerra commerciale. L’Asia, più di altre aree del mondo, ha dalla sua da tempo un ricco tessuto di organizzazioni regionali su cui appoggiarsi che facilita uno spostamento in questa direzione. Non a caso, è stato all’interno del summit autunnale dell’ASEAN (12-15 novembre) che l’accordo ha trovato la sua risoluzione, confermando l'importanza strategica di questa organizzazione regionale e la crescente rilevanza economica dell'area. E questo stesso tessuto potrebbe riuscire a far sì che la messa in atto dell’accordo stesso si velocizzi.
Bastano alcuni dati per comprenderne l’importanza strategica: il RCEP creerà un’area di cooperazione economica di 2,2 miliardi di persone, che producono il 30% del Pil e il 27,4% del commercio globali. Il gruppo dei Paesi membri copre il 50% della produzione manifatturiera globale, il 50% della produzione automobilistica e il 70% di quella elettronica. E il blocco potrebbe divenire ancora più importante qualora l’India, ritiratasi dalle negoziazioni nel 2019, decidesse di aderirvi in futuro. L’area attualmente attrae il 24% degli investimenti diretti esteri ed è la più dinamica a livello internazionale, grazie anche a una strategia di successo nel contenimento della pandemia da coronavirus. Si stima che l’accordo possa incrementare il Pil mondiale di 209 miliardi di dollari al 2030 e il commercio internazionale di 500 miliardi entro la stessa data. Nella regione l’impatto stimato secondo l’UNCTAD è una crescita del Pil dello 0,2% al 2030 e una crescita delle esportazioni del 10% entro il 2025. Entro il 2030 la Cina si avvantaggerà di un maggior reddito legato al RCEP (100 miliardi di dollari), seguita da Giappone (46 miliardi di dollari), Corea del Sud (23 miliardi di dollari) e Sud-Est asiatico (19 miliardi di dollari). Essendo esclusi dall’accordo gli Stati Uniti rinunceranno a circa 131 miliardi di dollari di guadagno stimato, mentre la decisione dell'India di non aderire comporterà la rinuncia a circa 60 miliardi di dollari di reddito aggiuntivo.
Il RCEP eliminerà tra l’85 e il 90% delle tariffe al commercio interne alla nuova area. Tuttavia, l’agricoltura resta assente dall’intesa, così come vi è un’inclusione limitata del settore dei servizi e dei settori ritenuti strategici. Pochi i passi avanti inoltre nella definizione di standard comuni per i prodotti e nessun progresso è stato registrato sulla tutela del lavoro, dell’ambiente, e sulla regolamentazione delle State-Owned Enterprises (SOEs). La ragione è da ricercare soprattutto nella grande diversificazione delle economie dei Paesi parti dell’accordo, attualmente in fasi differenti del proprio sviluppo. Il RCEP tuttavia creerà regole comuni sull’origine dei prodotti nell’area, in modo tale che i certificati d’origine emessi in un Paese membro siano validi in tutta la regione, riducendo in tal modo i costi di spedizione e transazione interni. L’importanza del RCEP deriva inoltre dal riunire in un unico strumento questioni prima sovrapposte e trattate in 27 differenti accordi di libero scambio (FTAs) e 44 accordi bilaterali di investimento (BITs) tra i Paesi dell’area.
Pechino spingeva da tempo per una più forte integrazione economica e commerciale, insistendo per un maggior coordinamento tra la Belt and Road Iniziative (BRI) cinese e il Master Plan on ASEAN Connectivity (MPAC) 2025. Una relazione privilegiata confermata anche dalla crescita senza sosta – nonostante la pandemia – del commercio tra Cina e Paesi ASEAN: ad agosto 2020 ha raggiunto i 430 miliardi di dollari, in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. L’ASEAN ha così sorpassato l’UE come primo partner commerciale di Pechino. Nei primi sei mesi del 2020, inoltre, gli investimenti bilaterali (sia in entrata che in uscita) sono aumentati del 58% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Cifre importanti, se si considera che Pechino, attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), aveva già investito nella regione 213 miliardi di dollari dal 2013. Non è un caso quindi, che il primo ministro cinese Li Keqiang abbia salutato l’accordo con soddisfazione definendolo una “vittoria del multilateralismo e del libero commercio”.
Proprio la preminenza di Pechino in questo accordo potrebbe ulteriormente favorire i progetti infrastrutturali – energetici, di trasporto, digitali - nella regione finanziati dalla Cina anche prima del lancio ufficiale della BRI. Già nel 2007, la cinese Sinohydro investiva 1,7 miliardi di dollari per una centrale idroelettrica in Laos e la Shanghai Electric 1,27 miliardi per una centrale a carbone in Indonesia. Nel 2008 la China Communications Construction finanziava la costruzione del terminal internazionale nel porto di Saigon in Vietnam per 160 milioni di dollari. Nel 2009 la China Railway Engineering investiva 350 milioni di dollari nella rete ferroviaria vietnamita, mentre nel 2010 la Dongfang Electric costruiva una centrale a carbone in Vietnam per 1,4 miliardi e nel 2012 Huawei investiva 350 milioni nella rete dati delle Filippine. Solo alcuni esempi per un flusso di investimenti che dal 2007 al 2012 è stato pari a 59,2 miliardi di dollari.
La maggiore influenza commerciale, finanziaria e di investimenti della Cina nella regione attraverso l’accordo potrebbe incrementare altresì il peso politico di Pechino nell’area, soprattutto in un’ottica di competizione con gli Stati Uniti. A conferma, la Repubblica popolare mira a utilizzare le sue leve economiche per ottenere nuovi mercati per le sue tecnologie d’avanguardia, tra cui la telefonia mobile 5G e 6G, l'intelligenza artificiale (AI) e i sistemi di sorveglianza, il suo sistema di posizionamento globale e di navigazione Beidou, lanciato di recente come concorrente del GPS controllato dagli Stati Uniti. Questo permetterà alla Cina di spingere i suoi standard in queste tecnologie emergenti con l’obiettivo di farle adottare in ampie porzioni di mondo, aiutando le sue aziende hi-tech a superare i concorrenti. L’uscita di Pechino dall’emergenza sanitaria ed economica in anticipo rispetto al resto del mondo, con un tasso di crescita del Pil dell’1,8%, nel 2020 e addirittura dell’8% nel 2021, potrebbe certo rendere i Paesi ASEAN più dipendenti dalle esportazioni e dagli investimenti provenienti dall’ingombrante vicino. Il peso della Cina nel RCEP, aumentato ulteriormente dopo l’uscita dell’India dalle negoziazioni per l’accordo, è infatti uno dei maggiori elementi di criticità. E la diffusione, nel medio e lungo periodo, degli standard cinesi nella regione farebbe incrementare anche il soft power di Pechino. La riduzione delle tariffe derivante dall’accordo, inoltre, va soprattutto a beneficio della competitiva industria cinese: l’eliminazione delle tariffe andrebbe a vantaggio di prodotti attualmente interessati da dazi dal 2 al 6%, in cui Pechino ha un forte vantaggio competitivo ed è grande esportatore. Tra questi, i veicoli elettrici, settore in cui la Cina è il maggior produttore mondiale e che conoscerà una forte espansione nel prossimo futuro grazie ai piani di transizione energetica delle maggiori economie mondiali, tra cui la stessa Cina.
Si tratta, in ogni caso, di un accordo che sfrutta la complementarietà produttiva tra i Paesi membri. Che, quindi, non va a vantaggio esclusivo di Pechino. A beneficiarne saranno certo anche i Paesi ASEAN e stati come Giappone e Sud Corea. I secondi riusciranno infatti a costruire più facilmente delle catene del valore regionali, con i membri ASEAN che diverranno sempre più i destinatari degli investimenti sudcoreani e nipponici per la produzione di componentistica per la propria industria. Con la conseguenza di aumentare la propria capacità industriale e, nel medio periodo, determinare una riduzione dei divari di reddito nella regione. Un fenomeno non nuovo, considerando che i Paesi ASEAN hanno ricevuto negli ultimi anni IDE in entrata da Giappone, Sud Corea e Taiwan per un importo superiore a quelli destinati da questi Paesi alla Cina. Una riallocazione degli investimenti che non è solo risposta ai crescenti costi del lavoro in Cina, ma anche esigenza di differenziare catene del valore, prima eccessivamente sino-centriche. Per partecipare ai benefici del nuovo accordo, le imprese americane ed europee dovranno perciò investire in stabilimenti produttivi nei Paesi membri del RCEP, mettendo potenzialmente in stand-by l’impegno, in particolare delle aziende USA, a rimpatriare la produzione negli Stati Uniti (re-shoring).
Un'area, quella dell'ASEAN, che ha fatto registrare dati economici migliori rispetto al resto delle regioni del globo, anche grazie al successo del contenimento della pandemia. Il Vietnam, in particolare, traina la ripresa della regione, con un Pil che ha fatto registrare nel terzo trimestre del 2020 un aumento del 2,6% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente, unica importante economia asiatica a registrare, insieme alla Cina, una crescita nel 2020. E la centralità del Vietnam è destinata inevitabilmente ad aumentare: il Pil 2021 è previsto crescere, secondo le previsioni d'autunno del FMI, del 6,7%, anche grazie alla spinta dell'EU-Vietnam Free Trade Agreeement che, insieme al RCEP, trasformerà il Paese in una piattaforma commerciale e logistica fondamentale nella regione e non solo. Dati che si affiancano a quelli positivi per l'intera area: paesi come Indonesia (Pil 2021 +6,1%), Cambogia (+6,8%), Filippine (+7,4%) e Malaysia (+7,8%), traineranno la crescita dell'intera regione.
L’evoluzione asiatica intanto mette in allarme il mondo politico e imprenditoriale americano. Il Presidente eletto Joe Biden, dopo la notizia della firma del RCEP, ha subito affermato che saranno gli Stati Uniti e i loro alleati a dover scrivere le regole del libero commercio, non la Cina, e ha già annunciato un piano sul fronte del commercio internazionale che sarà reso pubblico dopo il suo insediamento. Un’affermazione che pare discostarsi dalle politiche assunte dall’amministrazione Trump nel nome di “America First”. Proprio il ritiro americano dalla Trans-Pacific Partnership (TPP) nel 2017 è stato uno dei fattori che hanno favorito la conclusione del RCEP e hanno potenziato la centralità cinese nei giochi commerciali asiatici. Tre fondamentali alleati americani (Corea del Sud, Giappone e Australia) sono entrati a far parte di un accordo a forte protagonismo cinese. Perciò per Washington diviene sempre più necessario un nuovo “pivot to Asia”, se gli USA non vorranno perdere legami economici, politici e commerciali in una regione sempre più strategica. Si vedrà a partire dal 2021.
Oltre all’America, il grande assente dal RCEP è l’India che si era ritirata dai negoziati già nel 2019. Questa mossa divide ancor di più i due giganti asiatici, provati da un’estate di tensioni sulle vette himalayane. New Delhi aveva deciso di auto-escludersi dall’accordo poiché temeva che, con l’abolizione di gran parte delle tariffe doganali, il mercato indiano sarebbe stato invaso da prodotti a basso costo stranieri, di fatto andando a colpire i piccoli e medi imprenditori che solo nel 2019 contavano più di 63 milioni tra attività rurali e urbane. Tuttavia, l’assenza dell’India non rischia solo di avere un effetto negativo sull’economia nazionale e sulle relazioni con la Cina, ma rappresenta anche un fattore di rischio per i Paesi che partecipano al RCEP poiché fa sì che venga meno un contraltare di peso all’ingombrante economia del Dragone. Una decisione, quella di Delhi, che in ogni caso renderà più complessi i target di crescita economica nel medio e lungo termine e più ardua l’acquisizione della tecnologia necessaria per sostenere lo sviluppo economico del Paese, rendendo probabilmente obbligato un rafforzamento dei rapporti con Washington e Bruxelles. Ma anche qui si vedrà.
Le firme di Australia e Giappone, invece, oltre a essere certamente dovute alla necessità di rilanciare le economie nazionali, possono essere considerate il prodotto degli ultimi quattro anni dell’Asia policy di Donald Trump. Il “vuoto” lasciato dagli Stati Uniti a livello regionale, infatti, ha favorito un avvicinamento delle economie regionali alla Cina ma ha anche spaccato in due i membri del ‘Quadrilateral Security Dialogue’ (USA, Giappone, Australia e India) al RCEP. Tra le conseguenze di questa divisone potrebbe esserci anche una maggiore difficoltà di coordinamento nel creare un’alternativa agli investimenti cinesi in tutta la regione.
Dinamiche complesse che determineranno ulteriori sviluppi nel corso dei prossimi mesi da parte europea e americana. Da parte cinese, intanto, arrivano rassicurazioni. Il Presidente Xi Jinping, intervenuto il 19 novembre al vertice dell’Asia-Pacifico, ha escluso il decoupling con le economie occidentali e, anzi, si è detto pronto all’aumento delle importazioni e a nuovi accordi di libero scambio. Propositi concilianti che, tuttavia, non contraddicono per ora una tendenza globale alla regionalizzazione degli scambi e alla frammentazione del commercio internazionale che, da eccezione, sta diventando regola. A danno di un possibile e auspicabile rilancio della liberalizzazione degli scambi globali nel quadro WTO”.
2021: alternative regionali e peso dei paesi della regione
La seconda analisi è intitolata “Asia-Pacifico. Accordo RCEP un anno dopo”. Lo firma, sempre su “www.ispionline.com”, il 23 dicembre 2021 Stefano Riela, economista della Bocconi e analista dell’Ispi:
“Quadrante Asia-Pacifico un anno dopo. Con una tempistica perfetta il 2 novembre è arrivata la ratifica di Australia e Nuova Zelanda. Con la firma dei due paesi oceanici l’accordo che liberalizza il commercio sul lato occidentale del Pacifico entrerà in vigore l’1 gennaio 2022 ovvero sessanta giorni dopo la firma.
Il RCEP copre quasi il 32% del Pil mondiale misurato in parità di potere d’acquisto ed è per questo considerato l’accordo di libero scambio più grande. Questo primato è dovuto alla partecipazione della Cina che da sola pesa per quasi il 19%, quattro punti percentuali al di sopra della somma dei 27 Paesi dell’UE. Oltre alla Cina, il RCEP comprende i dieci membri dell’ASEAN e i loro maggiori partner commerciali.
Formalmente l’accordo RCEP copre il commercio di beni, il commercio di servizi, gli investimenti, la cooperazione economica e tecnica e crea nuove regole per l’e-commerce, la proprietà intellettuale, gli appalti pubblici, la concorrenza e le piccole e medie imprese. Tuttavia, come riportato su “The Diplomat”, l'attuazione di regole comuni è in gran parte a discrezione di ciascun Paese. Per questo motivo, l’ambizione del RCEP non è proporzionale alla sua dimensione economica e il RCEP viene inoltre considerato un accordo commerciale di prima generazione, ancora focalizzato sulle tariffe. Ma anche per le riduzioni tariffarie – previste sul 91% dei prodotti - ciascun Paese ha avanzato le sue riserve e posto delle condizioni. Inoltre il RCEP si inserisce in una rete costruita dai molti accordi bilaterali già esistenti tra i 15 Paesi, una rete così estesa da coprire l’83% del commercio interno; la parte attualmente scoperta riguarda principalmente il commercio tra Cina e Giappone e tra Giappone e Corea del Sud.
Sicuramente uno dei grandi vantaggi del RCEP sarà l’armonizzazione delle regole di origine, ovvero come stabilire la nazionalità dei prodotti affinché questi possono circolare liberamente nell’area. Attualmente ogni accordo bilaterale tra Paesi del RCEP ha le sue regole di origine e spesso le sue procedure formali – in molti casi cartacee - rendendo complicato sfruttare pienamente i trattamenti preferenziali in vigore. Come evidenziato recentemente dal FMI, l’aspetto burocratico del commercio non è infatti migliorato di pari passo con la riduzione delle tariffe avvenuta negli ultimi decenni.
Dicevamo della scarsa ambizione del RCEP soprattutto se lo si confronta con l’altro accordo regionale, il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), al quale partecipano 7 dei 15 paesi membri del RCEP. Il CPTPP, oltre ai temi commerciali tradizionali cari al RCEP, mira anche a stabilire regole comuni per lavoro, ambiente e sussidi per le State-owned enterprises (SOE). I membri del CPTPP si sono messi già all’opera da quando l’accordo è entrato in vigore a fine 2018 non facendo rimpiangere la leadership gli Stati Uniti, sponsor del defunto TPP sulle cui ceneri è nato il nuovo accordo.
Anche se il RCEP è un accordo nato in ambito ASEAN e il suo segretariato è a Jakarta (dove l’ASEAN ha sede) è oggettivo che la Cina potrà condizionare gli effetti dell’accordo pesando per il 60% sull’economia dell’area. Posizione dominante di Pechino che sarebbe stata attenuata se l’India, che aveva partecipato alle negoziazioni del RCEP sin dall’inizio, non si fosse ritirata al momento della firma dopo aver valutato i rischi (alti) per la sua agricoltura, l’industria e le opportunità (basse) per i suoi servizi. E, probabilmente, la portata limitata del RCEP non è un fattore negativo per chi vede come un rischio l’estensione di standard cinesi in materia di ambiente e lavoro. Rimane il fatto che un RCEP sbilanciato potrebbe nel lungo periodo provocare tensioni al suo interno soprattutto se è facile invocare la sicurezza nazionale per disapplicare gli impegni e se non è facile accedere a un meccanismo di risoluzione delle controversie efficace. Guarda caso alcuni dei problemi che sono emersi recentemente nel WTO (il WTO è l’Organizzazione mondiale per il commercio, n.d.r.) per mano degli Stati Uniti (che non ha ancora indicato una strategia sul fronte multilaterale a quasi un anno dal cambio alla Casa Bianca).
Ma nel breve periodo il RCEP ha l’economia dalla sua parte. Negli anni della pandemia, è aumentato il commercio tra Cina e la maggior parte degli altri membri così come gli investimenti della Cina nell’area. Per il futuro, anche se la proposta RCEP sulle regole di origine è abbastanza “generosa” (per molti prodotti basterà che solo il 40% del valore aggiunto sia creato nell’area per beneficiare del trattamento preferenziale) si prevede un rafforzamento delle catene regionali del valore su spinta della Cina stessa. Questo al fine di avere un sistema di produzione flessibile e delocalizzato ma sotto controllo, qualora Paesi come Stati Uniti decidessero di prendere nuovamente di mira le merci cinesi con sanzioni. Proprio per questo motivo la Cina non avrebbe interesse a esacerbare le tensioni all’interno del RCEP fino a mettere a serio rischio i benefici attesi derivanti dall’integrazione economica regionale.
Deborah Elms (executive director di Asian Trade Centre) invita a non farsi prendere dal troppo ottimismo pensando che l’entrata in vigore di un accordo commerciale quale il RCEP sia la panacea per le tensioni, non solo commerciali, nell’area. Con riferimento al caso di Cina e Australia, sebbene il RCEP sarà utile per favorire il dialogo, non potrà obbligare i due Paesi ad andare d’accordo.
Quindi, partendo dalla massima di Frédéric Bastiat, possiamo concludere che tra far passare le merci e far passare gli eserciti esistono le tante combinazioni intermedie della Realpolitik; e il RCEP ce ne darà prova”.
A proposito delle conclusioni di Riela non va dimenticato che l’Australia fa parte con Usa e Regno Unito dell’Auskus, una alleanza strategico-militare – per ulteriore precisione: un patto di sicurezza trilaterale - in palese funzione di contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico. (Ricordate nel settembre del 2021 il caso della vendita di sottomarini a propulsione atomica fabbricati negli Usa al governo australiano con tanto di crisi nei rapporti tra Washington e Parigi che si era vista annullare un precedente contratto miliardario per la vendita al governo di Camberra di sottomarini francesi?).
Il RCEP e la sua fondamentale importanza per il settore tessile
Vi sono interi settori economici che guardano al RCEP con un misto di attenzione ed apprensione. Non a caso l’ultimo contributo che riportiamo proviene dal settore filati/abbigliamento/moda/fashion per le fortissime implicazioni che il nuovo accordo di libero scambio può proiettare su questo fondamentale comparto. Pubblicato da “FashionNetwork.com” il 4 gennaio 2022 l’articolo, intitolato “RCEP: cosa cambierà l’accordo di libero scambio in Asia-Pacifico?”, è la versione italiana di Gianluca Bolelli di una analisi di Matthieu Guinebault:
“(…) Un’area che, secondo i dati delle Nazioni Unite, nel 2019 ha rappresentato non meno della metà delle esportazioni mondiali di tessile-abbigliamento. Con 374 miliardi di dollari di merci. Nello stesso periodo, la zona RCEP ha importato 139 miliardi di dollari in tessuti e abbigliamento, ovvero il 20 per cento delle importazioni mondiali del settore.
Molti Paesi della zona vedono la loro produzione di tessile-abbigliamento dipendere da materie prime, filati, tessuti o pelli prodotti dai loro vicini. Prima della crisi, ben il 72,8% delle importazioni tessili di questi stati proveniva da altri Paesi della zona. E il 40% delle esportazioni tessili della regione era destinato alla zona dei quindici. Conseguenza: il RCEP apre potenzialmente la strada ad una contrazione dei costi di produzione per i fabbricanti, dovuta all'eliminazione dei dazi doganali.
Diverse associazioni industriali locali hanno anche ricordato il fatto che i committenti occidentali stanno già utilizzando questo argomento per negoziare prezzi più bassi. Ma l'annunciata riduzione delle tasse non è meno in contrasto con la realtà del momento: i risparmi consentiti dai dazi doganali fanno da contraltare all'esplosione dei costi di trasporto, oltre che del prezzo dell'energia nei siti industriali.
Inoltre, ogni Paese RCEP mantiene il controllo del perimetro e della tempistica della propria detassazione. Un calendario che può essere spalmato su 20 anni nel caso del Giappone e quasi 35 anni in quello della Corea del Sud.
In più, il libero scambio non sarà uniforme nell'area, come possono esserlo gli accordi incentrati sugli Stati Uniti o sull'Unione Europea: ogni Paese può decidere uno specifico piano di riduzione delle tasse per ognuna delle nazioni partner. Una libertà volta in particolare a preparare alcune delle industrie locali alla crescente concorrenza implicita nell'accordo di libero scambio.
Un altro aspetto fondamentale del RCEP è la sua applicazione della regola di origine, che è poco vincolante. I produttori potranno portare i loro filati e tessuti dappertutto sul pianeta, ma i prodotti finiti che otterranno da essi potranno comunque beneficiare della detassazione sulle esportazioni verso i Paesi limitrofi.
Una valutazione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio datata 2017 stimava che ciò ridurrebbe gradualmente da circa il 30% a circa il 20% la percentuale delle importazioni tessili dell'area RCEP da Paesi al di fuori dell'accordo. Inoltre, l'accordo potrebbe portare la zona a ridurre le proprie importazioni di abbigliamento da nazioni che si trovano al di fuori del RCEP dal 25% al 17%.
Il RCEP potrebbe quindi giocare contro alcune produzioni americane o europee destinate all'Asia-Pacifico, nei materiali come nei prodotti finiti. Al contrario, l'accordo molto probabilmente consoliderà in modo ulteriore la posizione dominante dell'Asia nel sourcing globale di tessuti e abbigliamento. Prima della crisi sanitaria, i quindici Paesi da soli rappresentavano il 59,2% delle importazioni di tessile-abbigliamento degli Stati Uniti nel 2019, secondo i dati di Comtrade delle Nazioni Unite. Nello stesso periodo hanno rappresentato il 28,1% delle importazioni europee.
A tutto questo si aggiunge la questione politica. In preparazione dall'inizio degli anni 2000, l'accordo RCEP costituisce una vittoria soprattutto per la Cina. Mentre l'amministrazione Trump aveva fragorosamente seppellito il progetto di libero scambio transatlantico promosso dall'amministrazione Obama, l'Impero di Mezzo aveva chiaramente indicato di vedere nella vicenda un'opportunità per consolidare il proprio dominio sull'area.
Un progetto separato di libero scambio tra Cina, Corea del Sud e Giappone è quindi ancora in fase di negoziazione. Molti Paesi fornitori degli Stati Uniti sperano ora che il RCEP faccia pressione su Washington affinché si unisca ai negoziati per il CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement of the Trans-Pacific Partnership, ovvero accordo globale e progressivo del partenariato transpacifico). Progetto che già riunisce Canada, Messico, Perù, Cile, Australia, Giappone e Vietnam e che ha tra i suoi obiettivi il rafforzare la posizione dei firmatari nei confronti della potenza industriale cinese”.
Secondo gli addetti ai lavori dal RCEP potrebbe trarre qualche vantaggio anche il nostro paese. In una intervista a “Tribuna Economica” del 28 marzo 2022 l’ambasciatore d’Italia in Cina Luca Ferrari ha dichiarato: “Tra i contenuti dell’accordo commerciale sono previste misure di liberalizzazione degli scambi di merci e delle procedure doganali. Si tratta quindi di un accordo che offre alle imprese italiane che abbiano delocalizzato in uno dei paesi del RCEP la possibilità di regolare nel modo migliore ogni profilo relativo alla propria catena del valore e di beneficiare dei vantaggi competitivi generati dall’accordo” (“Tribuna Economica” “Regional Comprehensive Economic Partnership coinvolge una popolazione combinata di 2,27 mld di individui con un Pil aggregato pari a 25.800 mld di dollari. Intervista all’Ambasciatore Luca Ferrari”, 28 marzo 2022). Il diplomatico chiaramente si riferisce non solo al tessile ma a tutti i settori della produzione industriale contemplati nell’accordo.
Considerazioni conclusive
Intendiamoci. Non è che nel 2022 con l’Europa in guerra, diventata un inferno, l’Asia si sia trasformata in un paradiso terrestre o nel regno della cooperazione per effetto di un accordo commerciale, sebbene di amplissima ampia portata quale è il RCEP. In Europa la crisi economica conseguente alla guerra in Ucraina è solo agli inizi. E purtroppo lo è anche, e forse più, in altri continenti come l’Africa. Dove nei paesi più poveri cominciano a temersi carestie. Tuttavia il trattato entrato in vigore da circa centotrenta giorni rilancia la globalizzazione nell’Indo-Pacifico dopo i duri colpi assestati dalla pandemia ed ora dall’impennata fuori controllo dei prezzi delle materie prime. Proprio mentre l’Europa è costretta a programmare di chiudersi in autarchie produttive in settori strategici. Così come a diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico. Le cui chiavi cretinamente erano state consegnate nelle mani di quel Vladimir Putin peggior nemico sia delle democrazie che, per conseguenza, delle aperture dei confini e della globalizzazione.
Nell’Indo-Pacifico non accenna a diminuire la tensione (anzi: prima o poi esploderà) tra Cina e Stati Uniti, non meno gravida di conseguenze della tensione Stati Uniti/UE/Nato con la Russia. Tensione già passata nel nostro continente alla fase della copiosa consegna di armi all’Ucraina per contrastare l’aggressione russa e ad un sensibile aumento del personale militare americano nelle basi dislocate nei paesi Nato dell’Europa orientale.
Del RCEP fanno parte paesi come l’Australia, il Giappone, la Corea del Sud, la Nuova Zelanda dichiaratamente schierante contro la debordante Cina sia sul piano politico che strategico e militare. L’improvvida decisione di queste settimane dei governanti dell’arcipelago delle isole Salomone, alle prese con disordini interni, di richiedere il sostegno di forze di sicurezza cinesi ha gettato, come è naturale, benzina sul fuoco. Pechino “ha smentito, definendole fake news, le ipotesi circolate sulla costruzione di una base navale nell’arcipelago in forza dell’accordo sulla sicurezza appena siglato con il piccolo stato del Pacifico meridionale, chiedendo di accantonare la “teoria della minaccia militare cinese” (Ansa, 28 aprile 2022)”. Ma se invece non fosse una fake news, che bisogno avrebbe la Cina di andare a costruire una base militare nelle isole Salomone nell’immenso Oceano Pacifico se non per minacciare da vicino l’Australia? In Australia ed in Nuova Zelanda ma anche in altri paesi che si affacciano sul Pacifico la decisione ha provocato una comprensibile levata di scudi.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che nell’area del RCEP è presente, nel bel mezzo, quel bambinone psicopatico pericoloso del dittatore nordcoreano Kim Jong-un che vive solo per fabbricare bombe atomiche e lanciare missili che le traportano. Puntati su Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti. La verità è che troppa gente disturbata può disporre a suo piacimento dei destini dell’intero pianeta.
Cina ed India (la seconda per ora fuori dal RCEP) - potenze demografiche, economiche, nucleari - tutto possono definirsi tranne che popoli fratelli o stati che non confliggono quanto a strategia, rispettivi interessi, aree di influenza.
L’Indo-Pacifico dunque è tutto tranne che l’eden. Il RCEP si troverà ad operare in una situazione tutt’altro che calma. In continenti in subbuglio. In un mondo in subbuglio. Tuttavia l’ostinazione e la lungimiranza con le quali è stato voluto ed attuato meritano considerazione. Sicuramente produrrà benefici per i paesi aderenti. Senza contare che rapporti commerciali rasserenati, import-export regolamentato, abolizione o comunque riduzione di tasse, dazi e balzelli vari negli interscambi possono essere anche d’aiuto nello smussare - in un tavolo di confronto strutturalmente a ciò deputato da qualche parte nell’immensa area geografica in cui si estende il RCEP - anche contrasti strategici, militari, territoriali.
di Pino Scorciapino
2022. Mentre l’Europa assiste sbigottita e terrorizzata ad un feroce conflitto sul territorio continentale che, come un incendio incontrollabile, potrebbe estendersi dall’Ucraina a numerosi paesi vicini, nell’Indo-Pacifico si avvia il più importante accordo di libero scambio del pianeta.
L’Europa non è più – da molto tempo - il centro del mondo. Il motore produttivo, economico e commerciale planetario, dati statistici alla mano, ha sede nell’immensa area denominata Indo-Pacifico. Dove non mancano i contrasti e le tensioni geopolitiche ma dove, intanto, a partire dall’1 gennaio 2022 è entrato in vigore il RCEP (“Regional Comprehensive Economic Partnership” ossia “Partenariato Economico Globale Regionale”).
Se chiediamo ad un campione di mille persone se sanno cosa sia il RCEP probabilmente sì e no una risponderà positivamente. Tema troppo specialistico, troppo lontano, troppo “oscurato” nei mesi iniziali dell’anno dalle angoscianti notizie a getto continuo sulla invasione da parte della Russia di un paese indipendente ai suoi confini, l’Ucraina, sui massacri, sulla carneficina anche di civili inermi che il conflitto provoca, sul suo “effetto propagazione” nell’intera area euro-atlantica, a cominciare dai paesi dell’Europa orientale più prossimi all’epicentro dello scontro. Il Vecchio Continente è alle prese con una emergenza umanitaria senza precedenti che vede profughi dalla loro patria circa un quarto dell’intera popolazione ucraina ossia una decina di milioni di bambini, donne e, in misura minore, anziani. Il nostro continente rischia di ridursi in macerie, addirittura radioattive in qualche area se la situazione sfugge di mano e degenera. Si parla con sempre maggiore frequenza di bomba nucleare “tattica” o “dimostrativa” in qualche area o città dell’Ucraina se la guerra dovesse continuare ad andare male per i russi o l’esercito ucraino dovesse attaccare con un blitz territori della Russia oltre il confine tra i due paesi. L’insensatezza di queste ipotesi è attestata da un confronto: l’esplosione nucleare “tattica” o “dimostrativa” o “di teatro” che dir si voglia – nell’immaginario degli strateghi militari dunque “piccola” - avrebbe la stessa potenza distruttiva delle due atomiche del 1945 di Hiroshima e di Nagasaki! Siamo davvero alla follia.
Il taglio più o meno vicino dell’imbarazzante cappio al collo costituito dal cordone ombelicale per gas, petrolio, materie prime alimentari e minerali con la Russia sfocerà per i paesi europei in una pesantissima crisi energetica (i gasdotti costituiscono la principale arma di strangolamento degli allocchi europei che Mosca ha saputo diabolicamente costruire). C’è già chi parla per l’Italia nel prossimo futuro di “razionamento duro per il gas e l’energia”.
Mentre l’impennata dei costi e dell’inflazione immiserirà il potere d’acquisto delle famigle europee saldandosi con una inevitabile recessione – la stagflazione, come la definiscono gli economisti – mentre, insomma, l’Europa diventa sempre più povera e marginale, nel quadrante che si affaccia sull’Oceano Indiano e sull’Oceano Pacifico occidentale prende corpo la più vasta area di libero scambio del mondo. Per numero di abitanti, per flussi produttivi, export, somma di Pil nazionali ben più consistente di quelli dell’Unione Europea, dell’Area di libero scambio nordamericana tra Stati Uniti, Canada e Messico, della consorella africana AfCFTA (“Area di libero scambio continentale africana” di cui abbiamo scritto su queste pagine nel mese di settembre del 2019).
Il RCEP certifica lo spostamento definitivo del centro di gravità economica del mondo nell’Asia-Oceania proprio quando l’Europa affronta una delle più drammatiche crisi militari e socio-economiche della sua storia, gravida di potenziali e terribili sconvolgimenti.
E allora – visto che il RCEP, sebbene costituisca una novità di rilevanza planetaria, per noi italiani può definirsi nulla più d’un acronimo sconosciuto – proviamo a conoscerlo meglio. A ripercorrere i suoi lunghi e laboriosi processi di preparazione, a quantificarne la consistenza, gli ambiti, i meccanismi procedurali ed organizzativi. Insomma proviamo a spiegare ed analizzare questo nuovo protagonista di primissimo piano dell’economia mondiale e di quanto resta della globalizzazione.
Globalizzazione da tutti criticata ma che già in queste settimane – con il rischio concreto di tornare a “chiuderci” come avveniva in epoca medievale con i castelli e i sottostanti borghi – tutti stiamo già rimpiangendo.
Genesi e consistenza del Partenariato Economico Globale Regionale
Il RCEP è un accordo di libero scambio nella regione dell'Asia-Pacifico tra i dieci stati dell'ASEAN (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia, Vietnam) e cinque dei loro partner di libero scambio: Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud. I quindici paesi membri rappresentano circa il 30 per cento della popolazione mondiale e del PIL, rendendolo il più grande blocco commerciale. È stato firmato al vertice dell'ASEAN virtuale ospitato in Vietnam il 15 novembre 2020. Entra in vigore entro due anni, dopo la ratifica dei paesi membri.
Il patto commerciale, che comprende un mix di paesi ad alto reddito, reddito medio e paesi a basso reddito, è stato concepito al vertice dell'ASEAN del 2011 a Bali, mentre i negoziati sono stati avviati ufficialmente nel corso del vertice dell'ASEAN del 2012 in Cambogia.
Il RCEP è il primo accordo di libero scambio tra Cina, Giappone e Corea del Sud (tre delle quattro maggiori economie asiatiche) ed il primo accordo multilaterale di libero scambio a includere la Cina. Al momento della firma gli analisti prevedevano che avrebbe aiutato a stimolare l'economia durante la pandemia di covid-19, e "avrebbe attirato il centro di gravità economico verso l'Asia".
I leader dell'ASEAN hanno dichiarato che la porta è rimasta aperta per l'India, che ha rinunciato nel novembre 2019 per unirsi forse in seguito.
L'accordo sarà aperto anche a qualsiasi altro partner economico esterno, come le nazioni dell'Asia centrale e le restanti nazioni dell'Asia e del Pacifico (Asia meridionale, Asia orientale, Asia sud-orientale e Oceania).
L'accordo mira a ridurre le tariffe e la burocrazia. Include regole di origine unificate in tutto il blocco, che possono facilitare le catene di approvvigionamento internazionali e il commercio all'interno della regione. Vieta anche alcune tariffe. Non si concentra sui sindacati, sulla protezione dell'ambiente o sui sussidi governativi.
Il RCEP non è completo come l'Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico, un altro accordo di libero scambio nella regione che comprende alcuni degli stessi paesi.
Con l'India inclusa il RCEP comprenderebbe potenzialmente più di tre miliardi di persone pari al 45 per cento della popolazione mondiale e un PIL combinato di circa 21,3 trilioni di dollari, pari a circa il 40 per cento del commercio mondiale. La decisione dell'India di non aderire al RCEP ha ridotto significativamente la dimensione potenziale dell'organizzazione. I membri del RCEP costituiscono quasi un terzo della popolazione mondiale e rappresentano il 29 per cento del prodotto interno lordo globale. Il PIL combinato dei potenziali membri del RCEP ha superato il Pil combinato dei membri del Partenariato Trans-Pacifico (TPP) nel 2007. È stato suggerito che la continua crescita economica, in particolare in Cina, India e Indonesia, potrebbe vedere il Pil totale nel RCEP originale e poi con l'adesione crescere fino a oltre 100 trilioni di dollari entro il 2050, circa il doppio della dimensione del progetto delle economie del TPP. Il 23 gennaio 2017 il presidente degli Stati Uniti d'America Donald Trump ha firmato un memorandum che ritira gli Stati Uniti d'America dal TPP, una mossa foriera di aumentare le possibilità di successo per il RCEP.
Secondo una proiezione per il 2020, si prevede che l'accordo aumenterà l'economia globale di 186 miliardi di dollari.
Durante il 19° vertice dell'ASEAN tenutosi dal 14 al 19 novembre 2011, è stato introdotto il partenariato economico globale regionale (RCEP).
L'India rinuncia al RCEP il 4 novembre 2019 al vertice dell'ASEAN + 3. Motivazione: l'impatto negativo che l'accordo avrebbe sui suoi cittadini principalmente a causa delle preoccupazioni relative al dumping di prodotti manifatturieri dalla Cina e di prodotti agricoli e lattiero-caseari dall'Australia e dalla Nuova Zelanda che potrebbero colpire i propri settori industriali e agricoli nazionali. Alla luce della rinuncia dell'India il Giappone e la Repubblica Popolare Cinese hanno invitato il governo di Nuova Delhi a partecipare nuovamente al partenariato.
Il trentunesimo ciclo di negoziazione RCEP si è tenuto il 9 luglio 2020 in videoconferenza a causa della situazione relativa alla pandemia.
Il RCEP è stato firmato il 15 novembre 2020 in una cerimonia che ha visto i 15 paesi membri partecipare tramite collegamento video a causa della pandemia.
Per arrivare alla firma dal 2011 al 2020 sono stati necessari trentuno cicli di negoziazione e dodici riunioni ministeriali di partenariato.
L’accordo è entrato ufficialmente in vigore l’1 gennaio 2022.
A causa del ritiro dell'India, si teme che la Cina possa dominare il RCEP date le dimensioni della sua potenza economica che surclassa quelle degli altri paesi aderenti. Quando è stato firmato il RCEP il Primo ministro del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese Li Keqiang lo ha definito "una vittoria del multilateralismo e del libero scambio". Il primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong lo ha definito "un importante passo avanti per la nostra regione" e un segno di sostegno al libero scambio e all'interdipendenza economica. (Cronistoria dei negoziati e dati statistico-quantitativi tratti da “Wikipedia”).
Numeri e benefici del RCEP, la centralità cinese, l’incognita indiana e le preoccupazioni americane
Sin qui i processi formativi e i dati statistici generali. Entriamo adesso più nel dettaglio della conoscenza del RCEP. Lo facciamo con due circostanziati contributi pubblicati a distanza di un anno l’uno dall’altro su “ispionline.com”. Il primo, a firma di Alessandro Gili e Giulia Sciorati, risale al 27 novembre 2020 e si intitola “Libero scambio. RCEP: il nuovo motore della crescita asiatica”. Scrivono i due analisti dell’Ispi nel loro documentatissimo approfondimento:
“Un accordo storico, che segna l’avvio del blocco commerciale e di investimento più grande al mondo, in grado di rivoluzionare la geopolitica della regione e i rapporti tra gli Stati dell’Est asiatico. È il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), l’accordo economico-commerciale tra i 10 Paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, firmato il 15 novembre dopo otto anni di negoziati. Un accordo che segna nuove prospettive per lo sviluppo economico della regione, ne promuove l’integrazione e segnala una sostanziale perdita di peso strategico nell’area degli Stati Uniti, ormai estranei ai giochi dei grandi trattati multilaterali di libero scambio nel quadro della presidenza Trump.
La tempistica dell’accordo è innanzitutto indicativa dei pesanti effetti della pandemia sull’economia e sulle relazioni internazionali. È stata infatti la spinta della profonda crisi economica globale (che vede l’economia cinese come l’unica al mondo che continua a crescere) a riuscire a mettere d’accordo l’Asia orientale, quella del Sud-Est e il Pacifico. In questo senso, il RCEP è un primo passo verso quella tendenza alla regionalizzazione degli scambi che era già entrata nei dibattiti internazionali fin agli albori della guerra commerciale. L’Asia, più di altre aree del mondo, ha dalla sua da tempo un ricco tessuto di organizzazioni regionali su cui appoggiarsi che facilita uno spostamento in questa direzione. Non a caso, è stato all’interno del summit autunnale dell’ASEAN (12-15 novembre) che l’accordo ha trovato la sua risoluzione, confermando l'importanza strategica di questa organizzazione regionale e la crescente rilevanza economica dell'area. E questo stesso tessuto potrebbe riuscire a far sì che la messa in atto dell’accordo stesso si velocizzi.
Bastano alcuni dati per comprenderne l’importanza strategica: il RCEP creerà un’area di cooperazione economica di 2,2 miliardi di persone, che producono il 30% del Pil e il 27,4% del commercio globali. Il gruppo dei Paesi membri copre il 50% della produzione manifatturiera globale, il 50% della produzione automobilistica e il 70% di quella elettronica. E il blocco potrebbe divenire ancora più importante qualora l’India, ritiratasi dalle negoziazioni nel 2019, decidesse di aderirvi in futuro. L’area attualmente attrae il 24% degli investimenti diretti esteri ed è la più dinamica a livello internazionale, grazie anche a una strategia di successo nel contenimento della pandemia da coronavirus. Si stima che l’accordo possa incrementare il Pil mondiale di 209 miliardi di dollari al 2030 e il commercio internazionale di 500 miliardi entro la stessa data. Nella regione l’impatto stimato secondo l’UNCTAD è una crescita del Pil dello 0,2% al 2030 e una crescita delle esportazioni del 10% entro il 2025. Entro il 2030 la Cina si avvantaggerà di un maggior reddito legato al RCEP (100 miliardi di dollari), seguita da Giappone (46 miliardi di dollari), Corea del Sud (23 miliardi di dollari) e Sud-Est asiatico (19 miliardi di dollari). Essendo esclusi dall’accordo gli Stati Uniti rinunceranno a circa 131 miliardi di dollari di guadagno stimato, mentre la decisione dell'India di non aderire comporterà la rinuncia a circa 60 miliardi di dollari di reddito aggiuntivo.
Il RCEP eliminerà tra l’85 e il 90% delle tariffe al commercio interne alla nuova area. Tuttavia, l’agricoltura resta assente dall’intesa, così come vi è un’inclusione limitata del settore dei servizi e dei settori ritenuti strategici. Pochi i passi avanti inoltre nella definizione di standard comuni per i prodotti e nessun progresso è stato registrato sulla tutela del lavoro, dell’ambiente, e sulla regolamentazione delle State-Owned Enterprises (SOEs). La ragione è da ricercare soprattutto nella grande diversificazione delle economie dei Paesi parti dell’accordo, attualmente in fasi differenti del proprio sviluppo. Il RCEP tuttavia creerà regole comuni sull’origine dei prodotti nell’area, in modo tale che i certificati d’origine emessi in un Paese membro siano validi in tutta la regione, riducendo in tal modo i costi di spedizione e transazione interni. L’importanza del RCEP deriva inoltre dal riunire in un unico strumento questioni prima sovrapposte e trattate in 27 differenti accordi di libero scambio (FTAs) e 44 accordi bilaterali di investimento (BITs) tra i Paesi dell’area.
Pechino spingeva da tempo per una più forte integrazione economica e commerciale, insistendo per un maggior coordinamento tra la Belt and Road Iniziative (BRI) cinese e il Master Plan on ASEAN Connectivity (MPAC) 2025. Una relazione privilegiata confermata anche dalla crescita senza sosta – nonostante la pandemia – del commercio tra Cina e Paesi ASEAN: ad agosto 2020 ha raggiunto i 430 miliardi di dollari, in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. L’ASEAN ha così sorpassato l’UE come primo partner commerciale di Pechino. Nei primi sei mesi del 2020, inoltre, gli investimenti bilaterali (sia in entrata che in uscita) sono aumentati del 58% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Cifre importanti, se si considera che Pechino, attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), aveva già investito nella regione 213 miliardi di dollari dal 2013. Non è un caso quindi, che il primo ministro cinese Li Keqiang abbia salutato l’accordo con soddisfazione definendolo una “vittoria del multilateralismo e del libero commercio”.
Proprio la preminenza di Pechino in questo accordo potrebbe ulteriormente favorire i progetti infrastrutturali – energetici, di trasporto, digitali - nella regione finanziati dalla Cina anche prima del lancio ufficiale della BRI. Già nel 2007, la cinese Sinohydro investiva 1,7 miliardi di dollari per una centrale idroelettrica in Laos e la Shanghai Electric 1,27 miliardi per una centrale a carbone in Indonesia. Nel 2008 la China Communications Construction finanziava la costruzione del terminal internazionale nel porto di Saigon in Vietnam per 160 milioni di dollari. Nel 2009 la China Railway Engineering investiva 350 milioni di dollari nella rete ferroviaria vietnamita, mentre nel 2010 la Dongfang Electric costruiva una centrale a carbone in Vietnam per 1,4 miliardi e nel 2012 Huawei investiva 350 milioni nella rete dati delle Filippine. Solo alcuni esempi per un flusso di investimenti che dal 2007 al 2012 è stato pari a 59,2 miliardi di dollari.
La maggiore influenza commerciale, finanziaria e di investimenti della Cina nella regione attraverso l’accordo potrebbe incrementare altresì il peso politico di Pechino nell’area, soprattutto in un’ottica di competizione con gli Stati Uniti. A conferma, la Repubblica popolare mira a utilizzare le sue leve economiche per ottenere nuovi mercati per le sue tecnologie d’avanguardia, tra cui la telefonia mobile 5G e 6G, l'intelligenza artificiale (AI) e i sistemi di sorveglianza, il suo sistema di posizionamento globale e di navigazione Beidou, lanciato di recente come concorrente del GPS controllato dagli Stati Uniti. Questo permetterà alla Cina di spingere i suoi standard in queste tecnologie emergenti con l’obiettivo di farle adottare in ampie porzioni di mondo, aiutando le sue aziende hi-tech a superare i concorrenti. L’uscita di Pechino dall’emergenza sanitaria ed economica in anticipo rispetto al resto del mondo, con un tasso di crescita del Pil dell’1,8%, nel 2020 e addirittura dell’8% nel 2021, potrebbe certo rendere i Paesi ASEAN più dipendenti dalle esportazioni e dagli investimenti provenienti dall’ingombrante vicino. Il peso della Cina nel RCEP, aumentato ulteriormente dopo l’uscita dell’India dalle negoziazioni per l’accordo, è infatti uno dei maggiori elementi di criticità. E la diffusione, nel medio e lungo periodo, degli standard cinesi nella regione farebbe incrementare anche il soft power di Pechino. La riduzione delle tariffe derivante dall’accordo, inoltre, va soprattutto a beneficio della competitiva industria cinese: l’eliminazione delle tariffe andrebbe a vantaggio di prodotti attualmente interessati da dazi dal 2 al 6%, in cui Pechino ha un forte vantaggio competitivo ed è grande esportatore. Tra questi, i veicoli elettrici, settore in cui la Cina è il maggior produttore mondiale e che conoscerà una forte espansione nel prossimo futuro grazie ai piani di transizione energetica delle maggiori economie mondiali, tra cui la stessa Cina.
Si tratta, in ogni caso, di un accordo che sfrutta la complementarietà produttiva tra i Paesi membri. Che, quindi, non va a vantaggio esclusivo di Pechino. A beneficiarne saranno certo anche i Paesi ASEAN e stati come Giappone e Sud Corea. I secondi riusciranno infatti a costruire più facilmente delle catene del valore regionali, con i membri ASEAN che diverranno sempre più i destinatari degli investimenti sudcoreani e nipponici per la produzione di componentistica per la propria industria. Con la conseguenza di aumentare la propria capacità industriale e, nel medio periodo, determinare una riduzione dei divari di reddito nella regione. Un fenomeno non nuovo, considerando che i Paesi ASEAN hanno ricevuto negli ultimi anni IDE in entrata da Giappone, Sud Corea e Taiwan per un importo superiore a quelli destinati da questi Paesi alla Cina. Una riallocazione degli investimenti che non è solo risposta ai crescenti costi del lavoro in Cina, ma anche esigenza di differenziare catene del valore, prima eccessivamente sino-centriche. Per partecipare ai benefici del nuovo accordo, le imprese americane ed europee dovranno perciò investire in stabilimenti produttivi nei Paesi membri del RCEP, mettendo potenzialmente in stand-by l’impegno, in particolare delle aziende USA, a rimpatriare la produzione negli Stati Uniti (re-shoring).
Un'area, quella dell'ASEAN, che ha fatto registrare dati economici migliori rispetto al resto delle regioni del globo, anche grazie al successo del contenimento della pandemia. Il Vietnam, in particolare, traina la ripresa della regione, con un Pil che ha fatto registrare nel terzo trimestre del 2020 un aumento del 2,6% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente, unica importante economia asiatica a registrare, insieme alla Cina, una crescita nel 2020. E la centralità del Vietnam è destinata inevitabilmente ad aumentare: il Pil 2021 è previsto crescere, secondo le previsioni d'autunno del FMI, del 6,7%, anche grazie alla spinta dell'EU-Vietnam Free Trade Agreeement che, insieme al RCEP, trasformerà il Paese in una piattaforma commerciale e logistica fondamentale nella regione e non solo. Dati che si affiancano a quelli positivi per l'intera area: paesi come Indonesia (Pil 2021 +6,1%), Cambogia (+6,8%), Filippine (+7,4%) e Malaysia (+7,8%), traineranno la crescita dell'intera regione.
L’evoluzione asiatica intanto mette in allarme il mondo politico e imprenditoriale americano. Il Presidente eletto Joe Biden, dopo la notizia della firma del RCEP, ha subito affermato che saranno gli Stati Uniti e i loro alleati a dover scrivere le regole del libero commercio, non la Cina, e ha già annunciato un piano sul fronte del commercio internazionale che sarà reso pubblico dopo il suo insediamento. Un’affermazione che pare discostarsi dalle politiche assunte dall’amministrazione Trump nel nome di “America First”. Proprio il ritiro americano dalla Trans-Pacific Partnership (TPP) nel 2017 è stato uno dei fattori che hanno favorito la conclusione del RCEP e hanno potenziato la centralità cinese nei giochi commerciali asiatici. Tre fondamentali alleati americani (Corea del Sud, Giappone e Australia) sono entrati a far parte di un accordo a forte protagonismo cinese. Perciò per Washington diviene sempre più necessario un nuovo “pivot to Asia”, se gli USA non vorranno perdere legami economici, politici e commerciali in una regione sempre più strategica. Si vedrà a partire dal 2021.
Oltre all’America, il grande assente dal RCEP è l’India che si era ritirata dai negoziati già nel 2019. Questa mossa divide ancor di più i due giganti asiatici, provati da un’estate di tensioni sulle vette himalayane. New Delhi aveva deciso di auto-escludersi dall’accordo poiché temeva che, con l’abolizione di gran parte delle tariffe doganali, il mercato indiano sarebbe stato invaso da prodotti a basso costo stranieri, di fatto andando a colpire i piccoli e medi imprenditori che solo nel 2019 contavano più di 63 milioni tra attività rurali e urbane. Tuttavia, l’assenza dell’India non rischia solo di avere un effetto negativo sull’economia nazionale e sulle relazioni con la Cina, ma rappresenta anche un fattore di rischio per i Paesi che partecipano al RCEP poiché fa sì che venga meno un contraltare di peso all’ingombrante economia del Dragone. Una decisione, quella di Delhi, che in ogni caso renderà più complessi i target di crescita economica nel medio e lungo termine e più ardua l’acquisizione della tecnologia necessaria per sostenere lo sviluppo economico del Paese, rendendo probabilmente obbligato un rafforzamento dei rapporti con Washington e Bruxelles. Ma anche qui si vedrà.
Le firme di Australia e Giappone, invece, oltre a essere certamente dovute alla necessità di rilanciare le economie nazionali, possono essere considerate il prodotto degli ultimi quattro anni dell’Asia policy di Donald Trump. Il “vuoto” lasciato dagli Stati Uniti a livello regionale, infatti, ha favorito un avvicinamento delle economie regionali alla Cina ma ha anche spaccato in due i membri del ‘Quadrilateral Security Dialogue’ (USA, Giappone, Australia e India) al RCEP. Tra le conseguenze di questa divisone potrebbe esserci anche una maggiore difficoltà di coordinamento nel creare un’alternativa agli investimenti cinesi in tutta la regione.
Dinamiche complesse che determineranno ulteriori sviluppi nel corso dei prossimi mesi da parte europea e americana. Da parte cinese, intanto, arrivano rassicurazioni. Il Presidente Xi Jinping, intervenuto il 19 novembre al vertice dell’Asia-Pacifico, ha escluso il decoupling con le economie occidentali e, anzi, si è detto pronto all’aumento delle importazioni e a nuovi accordi di libero scambio. Propositi concilianti che, tuttavia, non contraddicono per ora una tendenza globale alla regionalizzazione degli scambi e alla frammentazione del commercio internazionale che, da eccezione, sta diventando regola. A danno di un possibile e auspicabile rilancio della liberalizzazione degli scambi globali nel quadro WTO”.
2021: alternative regionali e peso dei paesi della regione
La seconda analisi è intitolata “Asia-Pacifico. Accordo RCEP un anno dopo”. Lo firma, sempre su “www.ispionline.com”, il 23 dicembre 2021 Stefano Riela, economista della Bocconi e analista dell’Ispi:
“Quadrante Asia-Pacifico un anno dopo. Con una tempistica perfetta il 2 novembre è arrivata la ratifica di Australia e Nuova Zelanda. Con la firma dei due paesi oceanici l’accordo che liberalizza il commercio sul lato occidentale del Pacifico entrerà in vigore l’1 gennaio 2022 ovvero sessanta giorni dopo la firma.
Il RCEP copre quasi il 32% del Pil mondiale misurato in parità di potere d’acquisto ed è per questo considerato l’accordo di libero scambio più grande. Questo primato è dovuto alla partecipazione della Cina che da sola pesa per quasi il 19%, quattro punti percentuali al di sopra della somma dei 27 Paesi dell’UE. Oltre alla Cina, il RCEP comprende i dieci membri dell’ASEAN e i loro maggiori partner commerciali.
Formalmente l’accordo RCEP copre il commercio di beni, il commercio di servizi, gli investimenti, la cooperazione economica e tecnica e crea nuove regole per l’e-commerce, la proprietà intellettuale, gli appalti pubblici, la concorrenza e le piccole e medie imprese. Tuttavia, come riportato su “The Diplomat”, l'attuazione di regole comuni è in gran parte a discrezione di ciascun Paese. Per questo motivo, l’ambizione del RCEP non è proporzionale alla sua dimensione economica e il RCEP viene inoltre considerato un accordo commerciale di prima generazione, ancora focalizzato sulle tariffe. Ma anche per le riduzioni tariffarie – previste sul 91% dei prodotti - ciascun Paese ha avanzato le sue riserve e posto delle condizioni. Inoltre il RCEP si inserisce in una rete costruita dai molti accordi bilaterali già esistenti tra i 15 Paesi, una rete così estesa da coprire l’83% del commercio interno; la parte attualmente scoperta riguarda principalmente il commercio tra Cina e Giappone e tra Giappone e Corea del Sud.
Sicuramente uno dei grandi vantaggi del RCEP sarà l’armonizzazione delle regole di origine, ovvero come stabilire la nazionalità dei prodotti affinché questi possono circolare liberamente nell’area. Attualmente ogni accordo bilaterale tra Paesi del RCEP ha le sue regole di origine e spesso le sue procedure formali – in molti casi cartacee - rendendo complicato sfruttare pienamente i trattamenti preferenziali in vigore. Come evidenziato recentemente dal FMI, l’aspetto burocratico del commercio non è infatti migliorato di pari passo con la riduzione delle tariffe avvenuta negli ultimi decenni.
Dicevamo della scarsa ambizione del RCEP soprattutto se lo si confronta con l’altro accordo regionale, il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), al quale partecipano 7 dei 15 paesi membri del RCEP. Il CPTPP, oltre ai temi commerciali tradizionali cari al RCEP, mira anche a stabilire regole comuni per lavoro, ambiente e sussidi per le State-owned enterprises (SOE). I membri del CPTPP si sono messi già all’opera da quando l’accordo è entrato in vigore a fine 2018 non facendo rimpiangere la leadership gli Stati Uniti, sponsor del defunto TPP sulle cui ceneri è nato il nuovo accordo.
Anche se il RCEP è un accordo nato in ambito ASEAN e il suo segretariato è a Jakarta (dove l’ASEAN ha sede) è oggettivo che la Cina potrà condizionare gli effetti dell’accordo pesando per il 60% sull’economia dell’area. Posizione dominante di Pechino che sarebbe stata attenuata se l’India, che aveva partecipato alle negoziazioni del RCEP sin dall’inizio, non si fosse ritirata al momento della firma dopo aver valutato i rischi (alti) per la sua agricoltura, l’industria e le opportunità (basse) per i suoi servizi. E, probabilmente, la portata limitata del RCEP non è un fattore negativo per chi vede come un rischio l’estensione di standard cinesi in materia di ambiente e lavoro. Rimane il fatto che un RCEP sbilanciato potrebbe nel lungo periodo provocare tensioni al suo interno soprattutto se è facile invocare la sicurezza nazionale per disapplicare gli impegni e se non è facile accedere a un meccanismo di risoluzione delle controversie efficace. Guarda caso alcuni dei problemi che sono emersi recentemente nel WTO (il WTO è l’Organizzazione mondiale per il commercio, n.d.r.) per mano degli Stati Uniti (che non ha ancora indicato una strategia sul fronte multilaterale a quasi un anno dal cambio alla Casa Bianca).
Ma nel breve periodo il RCEP ha l’economia dalla sua parte. Negli anni della pandemia, è aumentato il commercio tra Cina e la maggior parte degli altri membri così come gli investimenti della Cina nell’area. Per il futuro, anche se la proposta RCEP sulle regole di origine è abbastanza “generosa” (per molti prodotti basterà che solo il 40% del valore aggiunto sia creato nell’area per beneficiare del trattamento preferenziale) si prevede un rafforzamento delle catene regionali del valore su spinta della Cina stessa. Questo al fine di avere un sistema di produzione flessibile e delocalizzato ma sotto controllo, qualora Paesi come Stati Uniti decidessero di prendere nuovamente di mira le merci cinesi con sanzioni. Proprio per questo motivo la Cina non avrebbe interesse a esacerbare le tensioni all’interno del RCEP fino a mettere a serio rischio i benefici attesi derivanti dall’integrazione economica regionale.
Deborah Elms (executive director di Asian Trade Centre) invita a non farsi prendere dal troppo ottimismo pensando che l’entrata in vigore di un accordo commerciale quale il RCEP sia la panacea per le tensioni, non solo commerciali, nell’area. Con riferimento al caso di Cina e Australia, sebbene il RCEP sarà utile per favorire il dialogo, non potrà obbligare i due Paesi ad andare d’accordo.
Quindi, partendo dalla massima di Frédéric Bastiat, possiamo concludere che tra far passare le merci e far passare gli eserciti esistono le tante combinazioni intermedie della Realpolitik; e il RCEP ce ne darà prova”.
A proposito delle conclusioni di Riela non va dimenticato che l’Australia fa parte con Usa e Regno Unito dell’Auskus, una alleanza strategico-militare – per ulteriore precisione: un patto di sicurezza trilaterale - in palese funzione di contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico. (Ricordate nel settembre del 2021 il caso della vendita di sottomarini a propulsione atomica fabbricati negli Usa al governo australiano con tanto di crisi nei rapporti tra Washington e Parigi che si era vista annullare un precedente contratto miliardario per la vendita al governo di Camberra di sottomarini francesi?).
Il RCEP e la sua fondamentale importanza per il settore tessile
Vi sono interi settori economici che guardano al RCEP con un misto di attenzione ed apprensione. Non a caso l’ultimo contributo che riportiamo proviene dal settore filati/abbigliamento/moda/fashion per le fortissime implicazioni che il nuovo accordo di libero scambio può proiettare su questo fondamentale comparto. Pubblicato da “FashionNetwork.com” il 4 gennaio 2022 l’articolo, intitolato “RCEP: cosa cambierà l’accordo di libero scambio in Asia-Pacifico?”, è la versione italiana di Gianluca Bolelli di una analisi di Matthieu Guinebault:
“(…) Un’area che, secondo i dati delle Nazioni Unite, nel 2019 ha rappresentato non meno della metà delle esportazioni mondiali di tessile-abbigliamento. Con 374 miliardi di dollari di merci. Nello stesso periodo, la zona RCEP ha importato 139 miliardi di dollari in tessuti e abbigliamento, ovvero il 20 per cento delle importazioni mondiali del settore.
Molti Paesi della zona vedono la loro produzione di tessile-abbigliamento dipendere da materie prime, filati, tessuti o pelli prodotti dai loro vicini. Prima della crisi, ben il 72,8% delle importazioni tessili di questi stati proveniva da altri Paesi della zona. E il 40% delle esportazioni tessili della regione era destinato alla zona dei quindici. Conseguenza: il RCEP apre potenzialmente la strada ad una contrazione dei costi di produzione per i fabbricanti, dovuta all'eliminazione dei dazi doganali.
Diverse associazioni industriali locali hanno anche ricordato il fatto che i committenti occidentali stanno già utilizzando questo argomento per negoziare prezzi più bassi. Ma l'annunciata riduzione delle tasse non è meno in contrasto con la realtà del momento: i risparmi consentiti dai dazi doganali fanno da contraltare all'esplosione dei costi di trasporto, oltre che del prezzo dell'energia nei siti industriali.
Inoltre, ogni Paese RCEP mantiene il controllo del perimetro e della tempistica della propria detassazione. Un calendario che può essere spalmato su 20 anni nel caso del Giappone e quasi 35 anni in quello della Corea del Sud.
In più, il libero scambio non sarà uniforme nell'area, come possono esserlo gli accordi incentrati sugli Stati Uniti o sull'Unione Europea: ogni Paese può decidere uno specifico piano di riduzione delle tasse per ognuna delle nazioni partner. Una libertà volta in particolare a preparare alcune delle industrie locali alla crescente concorrenza implicita nell'accordo di libero scambio.
Un altro aspetto fondamentale del RCEP è la sua applicazione della regola di origine, che è poco vincolante. I produttori potranno portare i loro filati e tessuti dappertutto sul pianeta, ma i prodotti finiti che otterranno da essi potranno comunque beneficiare della detassazione sulle esportazioni verso i Paesi limitrofi.
Una valutazione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio datata 2017 stimava che ciò ridurrebbe gradualmente da circa il 30% a circa il 20% la percentuale delle importazioni tessili dell'area RCEP da Paesi al di fuori dell'accordo. Inoltre, l'accordo potrebbe portare la zona a ridurre le proprie importazioni di abbigliamento da nazioni che si trovano al di fuori del RCEP dal 25% al 17%.
Il RCEP potrebbe quindi giocare contro alcune produzioni americane o europee destinate all'Asia-Pacifico, nei materiali come nei prodotti finiti. Al contrario, l'accordo molto probabilmente consoliderà in modo ulteriore la posizione dominante dell'Asia nel sourcing globale di tessuti e abbigliamento. Prima della crisi sanitaria, i quindici Paesi da soli rappresentavano il 59,2% delle importazioni di tessile-abbigliamento degli Stati Uniti nel 2019, secondo i dati di Comtrade delle Nazioni Unite. Nello stesso periodo hanno rappresentato il 28,1% delle importazioni europee.
A tutto questo si aggiunge la questione politica. In preparazione dall'inizio degli anni 2000, l'accordo RCEP costituisce una vittoria soprattutto per la Cina. Mentre l'amministrazione Trump aveva fragorosamente seppellito il progetto di libero scambio transatlantico promosso dall'amministrazione Obama, l'Impero di Mezzo aveva chiaramente indicato di vedere nella vicenda un'opportunità per consolidare il proprio dominio sull'area.
Un progetto separato di libero scambio tra Cina, Corea del Sud e Giappone è quindi ancora in fase di negoziazione. Molti Paesi fornitori degli Stati Uniti sperano ora che il RCEP faccia pressione su Washington affinché si unisca ai negoziati per il CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement of the Trans-Pacific Partnership, ovvero accordo globale e progressivo del partenariato transpacifico). Progetto che già riunisce Canada, Messico, Perù, Cile, Australia, Giappone e Vietnam e che ha tra i suoi obiettivi il rafforzare la posizione dei firmatari nei confronti della potenza industriale cinese”.
Secondo gli addetti ai lavori dal RCEP potrebbe trarre qualche vantaggio anche il nostro paese. In una intervista a “Tribuna Economica” del 28 marzo 2022 l’ambasciatore d’Italia in Cina Luca Ferrari ha dichiarato: “Tra i contenuti dell’accordo commerciale sono previste misure di liberalizzazione degli scambi di merci e delle procedure doganali. Si tratta quindi di un accordo che offre alle imprese italiane che abbiano delocalizzato in uno dei paesi del RCEP la possibilità di regolare nel modo migliore ogni profilo relativo alla propria catena del valore e di beneficiare dei vantaggi competitivi generati dall’accordo” (“Tribuna Economica” “Regional Comprehensive Economic Partnership coinvolge una popolazione combinata di 2,27 mld di individui con un Pil aggregato pari a 25.800 mld di dollari. Intervista all’Ambasciatore Luca Ferrari”, 28 marzo 2022). Il diplomatico chiaramente si riferisce non solo al tessile ma a tutti i settori della produzione industriale contemplati nell’accordo.
Considerazioni conclusive
Intendiamoci. Non è che nel 2022 con l’Europa in guerra, diventata un inferno, l’Asia si sia trasformata in un paradiso terrestre o nel regno della cooperazione per effetto di un accordo commerciale, sebbene di amplissima ampia portata quale è il RCEP. In Europa la crisi economica conseguente alla guerra in Ucraina è solo agli inizi. E purtroppo lo è anche, e forse più, in altri continenti come l’Africa. Dove nei paesi più poveri cominciano a temersi carestie. Tuttavia il trattato entrato in vigore da circa centotrenta giorni rilancia la globalizzazione nell’Indo-Pacifico dopo i duri colpi assestati dalla pandemia ed ora dall’impennata fuori controllo dei prezzi delle materie prime. Proprio mentre l’Europa è costretta a programmare di chiudersi in autarchie produttive in settori strategici. Così come a diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico. Le cui chiavi cretinamente erano state consegnate nelle mani di quel Vladimir Putin peggior nemico sia delle democrazie che, per conseguenza, delle aperture dei confini e della globalizzazione.
Nell’Indo-Pacifico non accenna a diminuire la tensione (anzi: prima o poi esploderà) tra Cina e Stati Uniti, non meno gravida di conseguenze della tensione Stati Uniti/UE/Nato con la Russia. Tensione già passata nel nostro continente alla fase della copiosa consegna di armi all’Ucraina per contrastare l’aggressione russa e ad un sensibile aumento del personale militare americano nelle basi dislocate nei paesi Nato dell’Europa orientale.
Del RCEP fanno parte paesi come l’Australia, il Giappone, la Corea del Sud, la Nuova Zelanda dichiaratamente schierante contro la debordante Cina sia sul piano politico che strategico e militare. L’improvvida decisione di queste settimane dei governanti dell’arcipelago delle isole Salomone, alle prese con disordini interni, di richiedere il sostegno di forze di sicurezza cinesi ha gettato, come è naturale, benzina sul fuoco. Pechino “ha smentito, definendole fake news, le ipotesi circolate sulla costruzione di una base navale nell’arcipelago in forza dell’accordo sulla sicurezza appena siglato con il piccolo stato del Pacifico meridionale, chiedendo di accantonare la “teoria della minaccia militare cinese” (Ansa, 28 aprile 2022)”. Ma se invece non fosse una fake news, che bisogno avrebbe la Cina di andare a costruire una base militare nelle isole Salomone nell’immenso Oceano Pacifico se non per minacciare da vicino l’Australia? In Australia ed in Nuova Zelanda ma anche in altri paesi che si affacciano sul Pacifico la decisione ha provocato una comprensibile levata di scudi.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che nell’area del RCEP è presente, nel bel mezzo, quel bambinone psicopatico pericoloso del dittatore nordcoreano Kim Jong-un che vive solo per fabbricare bombe atomiche e lanciare missili che le traportano. Puntati su Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti. La verità è che troppa gente disturbata può disporre a suo piacimento dei destini dell’intero pianeta.
Cina ed India (la seconda per ora fuori dal RCEP) - potenze demografiche, economiche, nucleari - tutto possono definirsi tranne che popoli fratelli o stati che non confliggono quanto a strategia, rispettivi interessi, aree di influenza.
L’Indo-Pacifico dunque è tutto tranne che l’eden. Il RCEP si troverà ad operare in una situazione tutt’altro che calma. In continenti in subbuglio. In un mondo in subbuglio. Tuttavia l’ostinazione e la lungimiranza con le quali è stato voluto ed attuato meritano considerazione. Sicuramente produrrà benefici per i paesi aderenti. Senza contare che rapporti commerciali rasserenati, import-export regolamentato, abolizione o comunque riduzione di tasse, dazi e balzelli vari negli interscambi possono essere anche d’aiuto nello smussare - in un tavolo di confronto strutturalmente a ciò deputato da qualche parte nell’immensa area geografica in cui si estende il RCEP - anche contrasti strategici, militari, territoriali.
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