Impegno e giornalismo civile al Liceo Classico Vittorio Emanuele di Palermo

Junior | 28 aprile 2021
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Ecco gli articoli dei ragazzi della 5E del Liceo classico Vittorio Emanuele II di Palermo scritti nell'ambito del Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l'orientamento) realizzato in collaborazione con il Centro studi Pio La Torre.



Liberi di Essere Giusti”, quando Giustizia e Libertà sono narrati con la prospettiva di giovani scrittori

Una nuova pubblicazione acquistabile sul web



Giulia Giammetta, classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo


Liberi di essere Giusti” di Giusi Mannelli e Sofia Schiazzano è una nuova uscita editoriale di febbraio 2021. Si tratta di una raccolta di racconti scritti da studenti sui temi di libertà e giustizia. «Il sottotitolo è “Giovani Storie di Giustizia e di Libertà”. Due tematiche di cui sentiamo spesso la necessità di parlare, ma ora a farlo sono i giovani: sono giovani gli autori e giovani le storie», spiega Carlo Guidotti, editore della casa editrice Edizioni Ex Libris, che ha pubblicato il libro.

Il ricavato della vendita sarà devoluto all’associazione “NotAbili onlus – Movimento di volontari per disabili Movodi”. «Un percorso come quello reso manifesto dal libro è peraltro uno straordinario esempio di educazione alla cittadinanza», scrive nella prefazione la professoressa Valentina Chinnici. «I ragazzi, chiamati ad affrontare i temi della giustizia e della libertà, evidentemente connotati da concretezza, li svolgono attraverso la creazione fantastica di storie e racconti in cui si esplicita il loro senso di giustizia e libertà», aggiunge invece l’avvocato Marica Castello, nell’introduzione del volume.

Giusi Mannelli, psicologa e docente, spiega da dove è nata l’idea: «Il progetto è nato durante un viaggio in macchina, in cui io e mia figlia Sofia abbiamo parlato della possibilità di approfondire alcuni argomenti attuali. È arrivata la telefonata dell’editore e Sofia ha avuto l’idea di scrivere un libro sulla libertà e la giustizia, per cui abbiamo scelto ragazzi che avevano determinati talenti. Importante è stato il periodo storico in cui è nato il progetto, perché eravamo a casa, per la pandemia».

I ragazzi così descrivono i loro racconti: «La mia storia parla di Ludovica, chiusa in una relazione tossica per lei, ma che riesce a liberarsi. Ho deciso di scriverla per aiutare le ragazze che sono in questa situazione», dichiara Sofia Schiazzano che poi prosegue: «Una frase che riassume il mio racconto è una citazione di Francesco Sole: innamorati di una persona che ami la tua libertà, la tua indipendenza, che rispetti le tue scelte sempre».

Riccardo Ribaudo spiega che: «“La Stagione del Maiale” parla del commissario Ferrante, che non conosce la cultura siciliana, ma che in Sicilia si ritrova a risolvere un caso di omicidio». «Ho preso spunto dall'attualità – rivela il giovane scrittore – Oggi spesso i casi vengono chiusi senza una punizione per il colpevole».

Completano il libro: “Come Libere Rondini”, di Giulia Giammetta, che parla di un gruppo di studenti che, alla vigilia della seconda guerra mondiale, si interrogano su giustizia e libertà, riuscendo a cambiare prospettiva alle loro vite; “Storia di un bambino mai nato”, di Aurora Maria Schiazzano, che racconta di un bimbo mai venuto al mondo e che tuttavia coltiva il desiderio di avere un nome;“Mi è sempre piaciuto il mare, ma come puoi abbracciarlo di notte?”, di Giusy Romeo, in cui si legge di Sole, salvata da un sogno di riscatto sociale.

Il libro è anche arricchito dalle tavole grafiche realizzate da Aurora Maria Schiazzano, Sofia Schiazzano, Giulia Giammetta, Alessia Priolo. Il testo è reperibile on line e in libreria.



Quel giorno tutto è cambiato”

La Strage di Capaci vista dall'interno del Palazzo di Giustizia


di Maria Alferi, classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo


«Sono stato uno dei primi a ricevere la notizia, ero di turno presso la Procura di Palermo – racconta il funzionario giudiziario Benedetto Alferi – abbiamo cominciato a ricevere molte chiamate da giornalisti che volevano parlare con il Procuratore: tutti avevamo capito che era successo qualcosa di grosso, si pensava di sapere a chi, ma nessuno aveva la certezza».

Da quel giorno anche al Palazzo di Giustizia ogni cosa è cambiata: «È cresciuta la considerazione per coloro, Falcone e la sua squadra, che hanno svolto un lavoro fondamentale: come evento, la strage di Capaci ci ha sicuramente compattati, anche perché ci sentivamo tutti sotto attacco come istituzione».

Ma le cose da quel giorno sono cambiate non solo in Tribunale: «Nessuno poteva più dire che la mafia non esisteva. Non si poteva più pensare “A noi cosa importa? Tanto i mafiosi si ammazzano fra di loro”. Tutti potevano essere coinvolti. La mafia da quel giorno non fu più un problema solo dei mafiosi o di chi la combatteva, ma di chiunque».

Maria Letizia Bivona, oggi cancelliera presso la Corte d'Appello di Palermo, quel 23 maggio del 1992 non aveva ancora preso servizio: «Ho iniziato a lavorare alcuni mesi dopo l'attentato a Falcone ma, pur non avendo avuto un'esperienza e una conoscenza diretta, ho sempre guardato a quell'esempio, ho sempre cercato di conformare il mio lavoro a principi di correttezza e di onestà». «Dal punto di vista pratico – spiega la cancelliera – so bene cosa c’è dietro un processo, conosco il grande lavoro amministrativo e di indagine che i magistrati, il personale giudiziario e le forze di polizia compiono anche oltre quello che sarebbe strettamente dovuto». Da madre, Maria Letizia Bivona ha un obiettivo in più: «Sento ancora di più il dovere – dice – di fare conoscere a mia figlia questa realtà facendola partecipare a eventi commemorativi affinché si formi una coscienza civile».




Ricordando quel giorno: l'eco della strage di Capaci nella borgata di Villagrazia di Palermo



di Miriam Ciolino, classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo


«Ero troppo scioccato pure per piangere, mi sono bloccato». Ricorda bene quel giorno, M.N., un cittadino della borgata di Villagrazia di Palermo, 67 anni, quando apprese della strage di Capaci, il 23 maggio del 1992, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta.


Cosa stava facendo quando ha sentito la notizia e qual è stata la sua reazione?

Allora facevo il meccanico, avevo appena smontato dal lavoro. Ricordo che mia moglie Anna stava preparando la cena molto presto perchè era sabato e la sera avevamo una celebrazione in chiesa. Abbiamo sentito la notizia al telegiornale, lei mi guardò scioccata. Anche io ero scioccato…non ci potevo credere.

In che senso non poteva crederci?

Non potevo credere che Falcone era morto! Non pensavo che potessero arrivare a tanto. Pensavo alle famiglie della scorta e mi veniva da piangere.

E ha pianto?

No, ma mia moglie e i miei figli sì. Ero troppo scioccato pure per piangere, mi sono bloccato.

Com’è stata vissuta questa notizia a Villagrazia, in un ambiente così piccolo? Ha percepito un’aria di ribellione o di rassegnazione?

A Villagrazia nessuno ha mai preso l’iniziativa per fare qualcosa. Tutto è rimasto uguale. Tutti erano “schifiati”, ma mica qualcuno faceva qualcosa! I villagraziani avevano troppa paura. Forse solo alcuni ragazzi hanno fatto qualcosa, ma nelle scuole. Mi ricordo che mia figlia Alessandra tornava a casa e mi raccontava.

E se invece di essere paura, fosse abitudine all’omertà?

Che intendi dire? Non ho capito.


Se non sbaglio il boss Stefano Bontate era chiamato il Principe di Villagrazia, o no?

Ah si, ma questo è un altro discorso. I villagraziani avevano paura che facendo qualcosa avrebbero svegliato un cane che dormiva. A Villagrazia la situazione sembrava essersi calmata dalla morte di Bontate, nessuno voleva alzare un polverone. Forse è stata paura e “lagnusia” insieme, non te lo so dire.



IL VIRUS PIÙ PERICOLOSO É LA PIAGA DELLE FAKE NEWS


di Giulia La Corte e Pietro Parisi

classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo


Con la videoconferenza del 22 febbraio “Articolo 21 - Costituzione, informazione e democrazia: tra fake news, nuove forme di solidarietà e rivoluzione tecnologica”, il Centro Pio La Torre ha ricordato come i social network siano un grande strumento di comunicazione collettiva e quanto dunque sia fondamentale che la stampa diffonda informazioni serie e affidabili. Al contrario, invece, notizie false, informazioni non attendibili, comunicazione militante pervadono lo spazio sociale virtuale con una pesante ricaduta culturale e perfino politica nel mondo reale. Ma come riescono le fake news a risultare così convincenti? Come mai, ad esempio, le teorie del complotto trovano seguaci tanto entusiasti?

Le fake news sono innanzitutto capaci di sfruttare la fiducia che riponiamo nelle persone che seguiamo online e, inoltre, essendo per natura l’uomo più propenso a credere a qualsiasi cosa supporti le proprie convinzioni, è più probabile che il lettore accetti facilmente una notizia “già sentita” come un dato di fatto. Alle persone non piace sbagliarsi e in più le teorie del complotto sono abili nel rafforzare il nostro ego: la consapevolezza di far parte di una cerchia ristretta di persone che crede in una verità controcorrente, diversa da quella che viene comunemente accettata, riesce a darci l’illusione di essere superiori, in mezzo a tanti che invece non riescono a vedere lontano quanto noi.


Dunque non è difficile capire come mai le fake news riescano a diffondersi così bene in un periodo delicato e difficile come quello che stiamo vivendo: in una realtà così caotica, esse riescono a consolare con risposte semplici e immediate a problematiche che non lo sono, magari puntando il dito contro un capro espiatorio.


Pier Luigi Sacco, professore presso il Berkman Center for Internet & Society dell’Università di Harvard, l’ha definito «un problema di salute pubblica come e quanto l’epidemia stessa». La parola infodemia, riferita proprio alla sfrenata circolazione di informazioni, spesso non accurate, rimanda proprio all'idea di una “epidemia di informazione”.


Parlando delle dinamiche dell’opinione pubblica abbiamo un precedente significativo in Psicologie delle folle di Gustave Le Bon (1895): nonostante la valenza scientifica di quest’opera sia stata ormai smentita, non possiamo certo ignorarne l’influenza culturale. Le idee del sociologo e psicologo francese, diffuse in un periodo in cui la folla prende gradualmente importanza come forza politica, hanno influenzato grandi dittatori come Mussolini e Stalin, oltre che personalità come Roosevelt, e ancora oggi sono prese in considerazione dal punto di vista economico, politico e sociale.


Emerge il fenomeno ancora attuale dell’effetto gregge: un gruppo di individui che si comporta come un tutt’uno, ma, allo stesso tempo, all'interno del gruppo l'individuo, spersonalizzato, arriva ad ignorare la sua responsabilità morale. Quest’anima collettiva ha bisogno di un leader, come un gregge del suo pastore, che sia carismatico e seducente, in cui avere fede, seppur laica.


A sedurre la folla basteranno frasi semplici, slogan, mai ragionamenti, semmai immagini d’impatto, vaghe ed evocative. Quante volte, in questo periodo, abbiamo letto sui vari social di “dittatura sanitaria”? Il web è, in un certo senso, la degenerazione della folla. In quella dimensione, on line, è facile distogliere l’attenzione dalla realtà concreta e amplificare l’importanza di piccoli dettagli decontestualizzati, secondo il principio del falsus in uno, falsus in omnibus.


In rete una notizia, anche se falsa, diventa sempre più vera dopo ripetizioni e condivisioni. Sarà compito del buon giornalista opporsi all’epidemia di fake news con una puntuale attenzione alle fonti, un metodo di ricerca analitica e una ferma devozione nei confronti della verità.




Scuola e cultura contro le mafie: un coro unanime dalla conferenza per il ventennale della Convezione Onu di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale


di Sofia Como e Martina La Gattuta

Classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo


La ministra dell’Istruzione – dell'allora in carica Governo Conte Bis, Lucia Azzolina – cita Gesualdo Bufalino, scrittore e insegnante, il quale affermava che «la mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari». L'allora responsabile del dicastero della scuola – intervenuta con un videomessaggio all'incontro organizzato dal Centro Pio La Torre in occasione del ventesimo anniversario della Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro la criminalità organizzata transnazionale, tenutosi il 22 ottobre del 2020 – ha ricordato che le organizzazioni criminali di stampo mafioso hanno un comune denominatore: la paura delle parole, di chi le sa usare, di chi conosce, di chi impara. Perché le organizzazioni criminali si insinuano tra le pieghe dell’ignoranza, facendosi forza della debolezza altrui, ma essendo esse stesse deboli davanti a chi non si piega, dinanzi a chi studia e conosce. E conclude con un'esortazione a studiare per combattere questo fenomeno: «La mafia è un liquido velenoso. Debellare questo veleno deve essere il vostro e il nostro imperativo». «Dobbiamo smascherare questo fiele e rivelare la sua natura, che non è di cura ma di sostanza tossica, letale per il tessuto sociale ma ancor prima per l’anima di queste terre», sostiene la ministra, sottolineando la necessità di forgiare cittadini liberi e critici, capaci di dire no a tutte le mafie.

Leoluca orlando, sindaco di Palermo, intervenendo al convegno, spiega come il capoluogo siciliano sia stato scelto come modello rispetto a tante città del mondo, anche per cercare di liberare la città dal governo soffocante della mafia e della sua cultura criminale. «Un boss mafioso – ha spiegato il primo cittadino – ha tanto paura delle armi dei poliziotti e delle sentenze dei magistrati quanto dei giovani che hanno consapevolezza dei loro diritti, perché la mafia mortifica proprio il diritto, trasforma l’amicizia in complicità criminale, l’onore in vergogna e la famiglia in un gruppo chiuso e criminale». «Io credo – afferma Orlando – che in questi 20 anni si siano fatti enormi passi avanti sul versante dell’affermazione della legalità ma anche, contemporaneamente, sul versante della consapevolezza del rispetto dei diritti umani di ciascuno. Strategica in questa operazione è la scuola». Il politico ricorre a una metafora per spiegare come si può procedere sul percorso del contrasto delle mafie, per indicare ciò di cui si ha bisogno: «È come un carro con due ruote. Una ruota è la ruota della legalità, del diritto, dell’applicazione della legge; l’altra ruota è quella della cultura, fatta di scuola e di attività economiche». Per Orlando è però necessario che le due ruote abbiano la stessa velocità, poiché, nel caso contrario, il carro non va avanti ma gira intorno a se stesso. Il compito del singolo cittadino è così quello di controllare e fare in modo che le due ruote vadano alla stessa velocità. «Io credo – conclude il sindaco – che questa iniziativa, rivolta alle scuole, e che vede il Centro Pio La Torre promotore di cultura e di legalità, dia un senso profondo al cammino che dobbiamo portare avanti».


Proprio a tal proposito Antonio Balsamo, rappresentante giuridico dell’Italia presso l’Onu, soffermandosi sulla necessità di accompagnare l’azione giudiziaria con un'azione culturale, nota come in questo momento storico l’indebolimento di molti settori economici corrisponda a un’accresciuta presenza delle mafie nel mondo delle imprese. Egli sottolinea che negli anni ‘80, coloro che vivevano a Palermo vedevano la mafia non come organizzazione criminale in senso stretto, ma come componente strutturale della società, mentre adesso le cose sono cambiate, per effetto proprio di un mutamento culturale.


Il Generale Giuseppe Governale riconosce tuttavia come non sia un obiettivo semplice quello di distruggere la mafia, come lo stesso Falcone riconosceva. Le mafie, infatti, non sono delle semplici organizzazioni criminali che si possono vincere solo con efficaci strutture di polizia, o carabinieri, ma entità strettamente legate alla società civile.

A vent’anni dalla Convenzione di Palermo, la consapevolezza della minaccia è aumentata, ma non ancora sufficientemente. La sensibilizzazione è assolutamente necessaria, bisogna che i ragazzi ne capiscano l’importanza.


Il fenomeno mafioso siciliano è strettamente collegato ad una serie di fattori storici: la mafia si colloca in una regione in cui la fine del feudalesimo avviene molto più tardi rispetto al resto d’Europa, e viene accompagnata soprattutto dalla affermazione di quei poteri che usurpano lo Stato. Subito dopo l’Unità d’Italia, nel 1875, nel Parlamento nazionale si svolge il primo dibattito sull'organizzazione crimanale dell'Isola, in cui a intervenire è un ex procuratore generale di Palermo, il quale sostiene che la pericolosità del fenomeno mafioso è soltanto apparente, in quanto esso si è trasformato in uno strumento di governo locale.


Oggi questo problema è avvertito a livello globale, tanto che si parla di un collegamento tra criminalità organizzata e corruzione o del rapporto tra il fenomeno mafioso e il traffico di sostanze illecite, tra le quali i medicinali contraffatti o addirittura il traffico di beni culturali. È stato proposto all’ufficio delle Nazioni Unite per il contrasto della droga e della criminalità di aggiornare i metodi indagine su questi casi: si tratta di sviluppare attività investigative che rientrano nel concetto di sorveglianza elettronica, un’azione assolutamente indispensabile perché, in caso contrario, tutte le forme di comunicazione caratterizzate da un'azione di criptazione correrebbero il rischio di non poter essere individuate dalla giustizia.

La differenza tra la mafia del passato e quella di oggi è notevole, basta citare infatti che la quantità di omicidi negli anni ‘80 era impressionante, rispetto a oggi. Non bisogna però mai abbassare la guardia, perché quello che non si esprime in forme apertamente violente, potrebbe esprimersi in forme molto più sottili e subdole. La sconfitta della criminalità passa anche da un’integrazione di gruppi etnici diversi. Bisogna essere in grado di risolvere i problemi delle fasce più vulnerabili della società, dei più deboli, creare solidarietà con l’impegno di tutti.




La caccia ai “like” e al profitto dietro le fake news

L'allarme dei giornalisti riuniti sul web dal Centro Pio La Torre

di Silvia Novi e Alessandra Lo Forte

classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo



«Abbiamo il dovere di non rilanciare le fake»: è questo l'appello lanciato da Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa, durante la videoconferenza Articolo 21 - costituzione, informazione e democrazia: tra fake news, nuove forme di solidarietà e rivoluzione tecnologica”, tenutasi il 22 febbraio e organizzata dal Centro Pio La Torre.


Nel corso dell'incontro con scolaresche da tutta Italia, il giornalista e scrittore Paolo Borrometi, in prima linea nella lotta alla mafia e per questo sotto protezione, ha sottolineato come la stampa giochi un ruolo fondamentale al fine di abbattere la disinformazione: «Il giornalista deve adempiere ai suoi doveri con coraggio ed essere il cane da guardia della democrazia – avvisa – e se il lavoro del cronista comincia ad arrecare fastidio, vuol dire che funziona».


Nel corso degli interventi è emerso, sempre con maggiore chiarezza, come dietro a disinformazione e circolazione di fake news ci sia spesso la ricerca di profitto personale o motivazione politiche. Ne è convinto Rino Cascio, capo della redazione della Tgr Sicilia della Rai, che cita a esempio il caso della donna palermitana che ha avuto qualche settimana di notorietà al grido «Non ce n’è Coviddi!». «E' necessario sapere riconoscere le informazioni serie da quelle superficiali e inaffidabili; chi informa e chi tenta di fare spettacolo e nulla di più» – ha messo in guardia il giornalista – I social network sono un grande strumento di comunicazione collettiva, con essi viene meno la possibilità di occultare notizie, ma si deve fare attenzione a riconoscere coloro che con questi mezzi vogliono solo ottenere visualizzazioni e share».

Tocca a Marina Turco, di Tgs, chiudere la giornata di riflessione sul tema delle fake news: «Per avere credibilità – spiega – occorre saper distinguere tra informazione e intrattenimento». 




L'amore non uccide: i femminicidi tra narrazioni mediatiche e sentenze

Una conferenza on line organizzata dal Centro Pio La Torre


di Piero Guzzo, classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo

L’8 marzo, proprio in occasione della Festa della donna, organizzata dal Centro Pio La Torre, si è tenuta la conferenza sul tema “Violenza di genere e femminicidio tra narrazioni mediatiche e sentenze giudiziarie”.

Tanti gli studenti intervenuti on line che hanno potuto porre le loro domande ai relatori del convegno:«Perché tanta violenza di genere»? «Come lo Stato protegge le donne che subiscono violenza»? E ancora: «Come incide la mercificazione della donna nell’era dei social»?

Rita Barbera, ex direttrice del carcere Ucciardone di Palermo, leggendo la poesia di un detenuto, fa notare come alcuni uomini tengano a proteggere la donna, persino paragonandola a un fiore di cui prendersi cura. Seppure le intenzioni siano più che nobili, Barbera sottolinea come la donna voglia poter fare a meno di essere protetta.

Pina Lalli, sociologa, scrittrice e docente presso l’Università di Bologna, e Alessandra Dino, scrittrice e sociologa dell'Università di Palermo, affrontano l’argomento tenendo conto delle analisi da loro condotte in Italia: un dato preoccupante è la continuità con la quale gli omicidi che hanno come vittima una donna non tendano a diminuire, a differenza di qualsiasi altro tipo di delitto. Per di più le donne vengono frequentemente uccise all’interno di un contesto familiare. Le studiose, contraddicendo lo stereotipo che rappresenta gli immigrati come incivili e pericolosi, dimostrano che la maggior parte di questo tipo di omicidi è stata commessa da cittadini italiani. Il movente viene sempre ricondotto, dagli stessi assassini che cercano un'attenuante, all’ambito sentimentale. Viene poi messa in luce la frequenza con la quale, nella vita di tutti i giorni, gli stereotipi su uomini e donne siano presenti in tanti ambiti diversi, dalle pubblicità fino ai videogames. Per superare queste disuguaglianze, suggeriscono le studiose, occorre sensibilizzare maggiormente la popolazione, promuovere politiche culturali e sociali che minimizzino la disparità di genere. E, soprattutto, affermare una volta per tutte «che l’amore non uccide, non c’entra nulla con l’esercizio di questa violenza estrema. Non è amore, è un crimine, e come tale va trattato».

Qualche passo avanti nella battaglia culturale contro gli stereotipi presenti nel linguaggio comune lo segnala Lidia Tilotta, giornalista Rai della Tgr Sicilia, che sottolinea il ruolo che la scuola può giocare al fine di cambiare costumi, atteggiamenti tradizionali che spesso producono comportamenti violenti.




Eravamo diventati parte della sua famiglia”: mio padre caposcorta di Borsellino



di Aurora Marsala, classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo



La possibilità di intervistare qualcuno che sia stato a stretto contatto con uno dei più grandi esponenti della lotta alla mafia rappresenta per me un vero e proprio onore, a maggior ragione se il soggetto in questione è mio padre.



Gli anni dell’epoca stragista di Cosa nostra sono stati vissuti con estremo timore e forse, anche, con un pizzico di disorganizzazione da parte dello Stato, soprattutto nella difesa di uomini dello spessore dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.



La squadra incaricata della tutela dell’“autorità”, così veniva definita in gergo tecnico la persona da difendere, era spesso costituita da personale che ciclicamente cambiava, in base ai vari turni lavorativi. Mio padre ha avuto l’onore di vigilare sull'incolumità di Paolo Borsellino per ben cinque anni, notando anche il suo progressivo distacco, l'allontamento, accentuatosi dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, dalla famiglia, dalla vita in generale, ma mai dal suo lavoro, che purtroppo non ha potuto portare a termine. Ad ogni modo, il suo lavoro e il suo sacrificio hanno sicuramente gettato le basi per la ricostruzione, per il rilancio dell'impegno nella lotta alla mafia delle nuove generazioni, non solo di magistrati o di forze dell’ordine, ma di un’intera società civile.



Quale ricordo custodisci del magistrato Paolo Borsellino?

Tanto tempo passato insieme aveva creato un rapporto confidenziale con tutta la famiglia Borsellino, tanto che avevo deciso di inserirli nella lista degli invitati per il matrimonio con tua madre. Il dottor Borsellino, a malincuore, dovette declinare l’invito per motivi di sicurezza: temeva che la sua presenza avrebbe potuto rovinare, in qualche modo, l’evento. Tuttavia, ci volle regalare un servizio da tè, che ancora conserviamo con affetto. Il matrimonio ha preceduto di un mese la strage che ha ucciso il giudice. Si trattava di un periodo rovente, non solo per il caldo afoso, a cui la Sicilia è abituata, ma soprattutto per l’aria tesa che si respirava tra le istituzioni e le forze dell’ordine. Proprio queste ultime erano soggette ai continui mutamenti che provenivano dall’alto, da uno Stato complice o da uno Stato incapace di difendere chi aveva giurato di onorare la toga fino all’ultimo giorno di vita. Noi sapevamo benissimo l’orario in cui avremmo cominciato il servizio ma non ci era dato sapere a che ora lo avremmo concluso, come lo avremmo concluso e se lo avremmo concluso.



Puoi descrivermi il comportamento del magistrato nei confronti della scorta?

Nonostante il ruolo di paladino della lotta contro la mafia, Paolo Borsellino non dimenticava mai di essere marito, padre e uomo comune, di cui era massima espressione il suo dialetto strettamente palermitano, essendo lui originario del quartiere Kalsa. Riusciva sempre a spendere una parola di conforto per tutti noi, i suoi ragazzi della scorta, con cui spesso si trovava alla stessa tavola, durante le cene che la Signora Agnese preparava per tutti. La scorta era ormai parte integrante della famiglia. Una sera in cui io e tua madre andammo a casa della famiglia Borsellino, il dottore si presentò con un paio di pantaloncini, le ciabatte ed una delle sue tante polo Lacoste a cui era molto affezionato, un abbigliamento sicuramente poco formale. Quella volta tenne costantemente la sigaretta in mano: si scusava per il suo vizio, ma non smetteva mai di fumare. È stata una serata che ricordo con tanto affetto. Lo stesso che conservo nei confronti dei figli, delle cui vite ho sempre fatto parte.



Quali sensazioni hai provato quando hai scoperto della strage?

La strage si verificò nell’ultimo giorno della settimana, la domenica. I mafiosi, evidentemente, non si riposavano la domenica. Io e tua madre ci sposammo il 17 Giugno 1992. Esattamente un mese dopo, finite le ferie matrimoniali e concluso il viaggio di nozze, avrei dovuto riprendere servizio. Decisi però di prolungare le vacanze fino alle fine del weekend. Durante il periodo estivo molti uomini venivano sostituiti da colleghi di tutta Italia. Si trattava veramente di una roulette russa. Io quella volta fui sostituto da Antonio Vullo, che poi divenne agli occhi di tutta Italia il “sopravvissuto”, l'unico a salvarsi perché rimasto nell'auto blindata. Quella domenica mi trovavo nella casa di montagna, a Monreale. Era un tipico pomeriggio estivo, particolarmente afoso. Anche lì si sentì il boato proveniente dalla città, ma nessuno prestò troppa attenzione alla cosa, all'inizio. Subito dopo, in tv passò l’edizione straordinaria del tg5: il giudice Borsellino era stato assassinato. Pochi minuti dopo, mia sorella si presentò a casa, affannata e spaventata, voleva avere notizie, voleva sapere dove fossi. Il servizio scorta, prevede il mantenimento di una certa discrezione circa la persona che si accompagna. La mia famiglia sapeva che effettuavo questo servizio, ma non era a conoscenza della persona nei cui confronti lo svolgevo. In pochi minuti sono arrivato in via D’Amelio e lì ho trovato un posto paragonabile a Beirut dopo un bombardamento.



Dopo aver concluso l’intervista a mio padre, sono fermamente convinta che per ciascuno di noi ci sia un destino già scritto. In quello di mio padre era previsto che lui incontrasse un uomo professionalmente capace ed umanamente straordinario, ma non che finisse i suoi giorni insieme a lui. Mio padre è un sopravvissuto, per puro caso. Probabilmente era ancora necessaria la sua presenza e il suo lavoro per la difesa dello Stato, lo stesso Stato che non ha saputo proteggere né il giudice né, tanto meno, “gli angeli” di Paolo Borsellino, gli agenti di scorta morti insieme a lui. Ma il giuramento di fedeltà alla Repubblica e alla divisa vale per tutta la vita, ed è onorevole non venirvi mai meno.








Come cambia la percezione del fenomeno mafioso tra i ragazzi

Vito Lo Monaco: Tra i giovani aumenta la percezione negativa di questo fenomeno



di Giuliana Camarda e Carla Palagonia

classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo


Vito Lo Monaco è il presidente del Centro studi Pio La Torre, che da tanti anni ormai interroga gli alunni delle scuole italiane per sondare come questi percepiscono il fenomeno mafioso.


Secondo lei, quali considerazioni si possono trarre dalle risposte date quest'anno al questionario sulla percezione del fenomeno mafioso che avete somministrato a ragazzi di tutta la penisola, nota delle differenze con i risultati delle rilevazioni degli anni scorsi?

I risultati sono differenti. Noto che, nella storia di questi 15 anni di indagini, la percezione negativa del fenomeno mafioso tende a crescere e sono diminuite le differenze nel modo in cui viene percepita la mafia tra Nord e Sud. Ormai sta scomparendo l’idea che la mafia appartiene solo al meridione d’Italia.


Un’importante percentuale di ragazzi dubita che il fenomeno mafioso potrà essere definitivamente sconfitto. Lei cosa ne pensa? Ripone fiducia nelle generazioni future?

Sono fiducioso. Bisogna individuare il nodo che consente alla mafia di riprodursi. Se il nodo è il rapporto con la politica o con il mondo degli affari, è questo che deve essere distrutto. Le organizzazioni di stampo mafioso si riproducono perché la rete di relazioni che hanno costruito nel corso degli anni non viene distrutta. Occorrono strumenti politici di rottura di questi rapporti di potere. L'avvio di questa operazione si era avuto con la mafia di 40 anni fa, di cui Andreotti era un punto di riferimento. Oggi le organizzazioni si sono infiltrate nell’amministrazione locale controllando gran parte della spesa pubblica. Tutto questo accade nella storia del nostro Paese. Ovviamente la storia d’Italia non è una storia di mafia, ma è chiaro che è una storia dove la mafia è presente e questa ha condizionato non solo il meridione d’Italia , ma anche il Nord. Per esempio quando la sinistra storica vinse le elezioni del 1895, vinse grazie al rapporto con queste organizzazioni. Il braccio armato della mafia era una presenza che condizionava lo sviluppo economico sociale complessivo del nostro paese.


Secondo lei con le nuove tecnologie e attraverso i social la percezione del fenomeno mafioso è cambiata rispetto al passato?

E’ molto cambiata, nel senso che sono pochi quelli che dicono che per trovare lavoro bisogna rivolgersi al mafioso di turno. Questo indica un cambiamento ma, naturalmente, non si può abbassare la vigilanza. Non a caso quest’anno nel nostro progetto educativo abbiamo fatto riconoscere le nostre videolezioni come lezioni di educazione civica. La storia della mafia non può essere un corso particolare ma deve essere diffusa in tutto il processo educativo e la scuola ha una funzione centrale su questo. Bisogna invitare i docenti a prepararsi al meglio su questo argomento. E’ necessario creare una coscienza civica nelle nuove generazioni affinché vi siano i presupposti per poter cancellare il fenomeno mafioso dal tessuto sociale.


Guardando le risposte che avete collezionato ce n'è qualcuna che le lascia un po' di amarezza ?

Io vedo un’evoluzione positiva nella percezione del fenomeno mafioso: la maggioranza dei ragazzi lo considera negativamente, lo rifiuta o comunque si tiene in disparte, non cerca contatto con la mafia, a differenza degli anni precedenti. Al Sud la percezione del fenomeno mafioso è rappresentata dall’estorsione, dal pizzo, dalla corruzione. Al Nord, invece, è la droga l'elemento che più spesso viene messo in relazione al tema della mafia. Ovviamente tutto ciò va studiato e analizzato, infatti stiamo cercando di ottenere un finanziamento per un lavoro scientifico più approfondito, per capire meglio, attraverso questa grande massa di dati, cosa è cambiato in questi 15 anni in merito alla percezione della mafia.


In autunno tutta l’Italia ha sentito le parole dell'ex parlamentare e senatrice, Angela Maraventano, che dal piazzale antistante il tribunale di Catania ha parlato di una mafia che sta scomparendo, definendola coraggiosa. Quando ha sentito queste parole cosa ha pensato?

Questo è un atteggiamento che camuffa un’adesione ideologica alla mafia. Un po' offende. Esistono due posizioni entrambe sbagliate: quella per cui c’è sempre mafia, che poi non è così, o, al contrario, quella per cui la mafia non c'è, e ciò è pure un errore, perché non crea l'allarme. Spesso l'antimafia è servita per schermare posizioni politiche, posizioni di rendita finanziaria, posizioni di privilegio, basti guardare al caso Montante. Egli era ritenuto un dio dell’antimafia, nessuno poteva criticarlo, altrimenti offendevi l'impegno di Confindustria contro la mafia. Poi si scoprì che in realtà non era così. Questo ci fa capire che dobbiamo avere un atteggiamento di vigilanza su chiunque si pronunci su questo tema.


Secondo lei, cosa permette alle organizzazioni di stampo mafioso di continuare a esistere? 

 La mafia è un’organizzazione che si distingue dalle altre per la capacità di creare relazioni e ottenere devozione nel tessuto sociale e in quello istituzionale, perché ha bisogno di una copertura politica, che ovviamente viene assicurata attraverso lo scambio (io ti sostengo in questo processo e tu mi trovi i voti). Così nasce questo rapporto sociale con la mafia. Il fatto è che esistono organizzazioni criminali di stampo mafioso non più solo nel meridione, ma anche nel territorio nazionale e internazionale, basti pensare al vasto traffico di droga. La mafia vìola la regola del libero mercato e non rispetta i diritti, attraverso l’uso della minaccia e della violenza fisica. Questo crea discriminazione fra i vari soggetti e quindi infrange le fondamentali regole della Repubblica: essa è fondata sul lavoro, sul rispetto e l'uguaglianza tra tutti. La mafia utilizza la violenza come strumento di governo e di controllo: questo è l’obiettivo dell’organizzazione mafiosa, sempre camuffato da una sovrastruttura ideologica, da termini come “famiglia”, “onore”... Anche altre organizzazioni criminali usano la violenza, ma scompaiono perché vengono represse in modo efficiente dai corpi dello Stato. Adesso non c’è più la vecchia mafia, ora ci sono delle mafie più sottili, che si sono modernizzate e si sono adeguate all’evoluzione del sistema economico globale e questo le porta a rafforzare la rete di relazioni. Oggi non vediamo più il politico che ha a disposizione la mafia ma è lui a disposizione di questa. Possiamo notare un rovesciamento del rapporto storico tra questa organizzazione criminale e la classe dirigente. Pio la Torre con la sua azione politica trattava questi temi, la cui conoscenza risale all’800: la mafia allora non era soltanto quella che sparava, ma era il barone che la utilizzava per difendere il suo diritto e la sua terra con il cosiddetto “braccio armato”. Questo concetto è ancora valido nella società moderna, naturalmente sono cambiati gli strumenti. Queste organizzazioni possono essere aggredite grazie alla legge La Torre, che è stata la prima legge dopo 122 anni dall’Unità d’Italia a identificare i reati di associazione di stampo mafioso e a sancire l’obbligo di confiscare i loro beni per restituirli alla società.





La mafia dei pascoli a processo


di Sofia Albanese, classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo


Milioni di euro guadagnati per anni in silenzio da Cosa nostra. Un business “legale” e inesplorato. Boss che, grazie a quell’intreccio perverso e opaco tra cosche mafiose di tre province della Sicilia centro-orientale, tecnici “distratti” e funzionari pubblici infedeli, riuscivano ad affittare tanti ettari di terreno nel Parco dei Nebrodi, terrorizzando allevatori e agricoltori onesti, incassando perfino fondi europei e nazionali senza che fossero mai realmente destinati a quei territori. Ora si va a processo, a un maxiprocesso.

Un meccanismo perverso che si perpetuava di famiglia in famiglia e faceva guadagnare somme enormi. Fino a quando Giuseppe Antoci, ex presidente del Parco dei Nebrodi, non è riuscito a spazzare via la mafia dei pascoli realizzando un protocollo di legalità che poi è diventato legge dello Stato e oggi è applicato in tutta Italia.


Cosa nostra aveva decretato la morte del funzionario. La notte tra il 17 e il 18 maggio 2016 Antoci è stato vittima di un attentato, dal quale è uscito illeso solo grazie all’auto blindata e all’intervento armato del vice questore Daniele Manganaro e degli uomini della sua scorta.


Le accuse, a seguito delle indagini del pool della Dda di Messina, guidata dal procuratore Maurizio De Lucia – per i 102 imputati nell’aula bunker al carcere di Gazzi, a cui si aggiungono altri 18, processati a Catania per competenza territoriale, 4 indagati che hanno patteggiato e 8 che hanno scelto il rito abbreviato (per 6 dei quali sono già arrivate le sentezze di condanna davanti al giudice per le udienze preliminari di Messina; 2 invece le assoluzioni) – sono di associazione mafiosa, concorso esterno, intestazione fittizia, falso, truffa e, per un episodio, di estorsione.


L'inchiesta da cui nasce il processo ha già portato al sequestro di 151 imprese e all’arresto di 94 persone e ha visto coinvolti non solo decine di mafiosi ma anche tecnici, funzionari e amministratori pubblici. Secondo l’accusa, due distinte famiglie mafiose si spartivano il territorio per intestarsi terreni abbandonati o di proprietà di soggetti ignari, potendo chiedere così i contributi dell’Unione europea concessi dall’Agea, l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura. A questo scopo erano state costituite imprese che venivano intestate a familiari senza precedenti penali, per aggirare la normativa antimafia. Il tutto era favorito dall’aiuto degli operatori dei Centri di assistenza agricola, che istruivano le pratiche per l’accesso ai contributi europei.


A Messina, in occasione dell’apertura del processo, per guardare negli occhi chi ha tenuto in ostaggio un intero territorio, era presente, insieme a tanti rappresentanti di associazioni, Giuseppe Antoci, che ha parlato di «vittoria dello Stato».


Il giornalismo contro la regola mafiosa del silenzio
Francese : “Con le parole si sottraggono i ragazzi alla strada e alla mafia”


Intervista di Luca Fonnesu, classe VE, Liceo classico Vittorio Emanuele II, Palermo

Internet e la crisi della carta stampata, il giornalismo d'inchiesta di ieri e di oggi e l'esempio di un padre nelle parole di Giulio Francese, presidente dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia e figlio di Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia ucciso dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Proprio a causa dei suoi articoli che, dalle pagine di un giornale, rivelavano le trame di Cosa Nostra.




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