Il tragico Natale di Harry e una cena con la Gestapo nel segno dell'orrore
In una ipotetica classifica dei suicidi post-festività, laiche o religiose (ma, forse, già reale dato sociologico), non sorprenderebbe trovare nel fatale elenco un’improvvisa impennata numerica di coloro che all’indomani o nel corso della festa decidono di mettere fine alla propria esistenza. Il senso di solitudine, di frustrazione, di angoscia, spesso accompagnato da incurabile depressione, inevitabilmente tende a crescere fino all’incandescenza nel momento in cui si pensano i nostri simili vivere allegramente in compagnia, in gioiosa associazione, davanti alla tavola riccamente imbandita del pranzo o della cena natalizia o nella transeunte follia del Capodanno o del Carnevale o al suono delle campane della resurrezione (per i credenti) di Cristo e dell’abbuffata di cioccolato o nella bailamme d’un rovente Ferragosto al mare o in montagna. In quelle ore infatti l’esclusione dal vero o presunto divertimento diviene insopportabile esclusione dalla vita e, scoperta ancor più straziante, da quel che la nostra vita avrebbe potuto darci o quel che noi saremmo potuti diventare se soltanto...Steve Berkov, attore, regista e commediografo inglese, ponendosi di fronte all’angosciante problema, ha immaginato in una straziante pièce teatrale - Il Natale di Harry - un quarantenne solo (non per scelta, ma costrettovi da amicizie, amori perduti, “sfiga”, incapacità di relazionare, ecc…) che, pateticamente chiacchierando con il suo striminzito albero di Natale, rivela sogni ancora immacolati, compiendo penosi e fallimentari tentativi di riprendere un amore ormai dissoltosi, amicizie smarritesi. Il suo unico contatto esterno sembra ridursi alle telefonate della vecchia madre.
In un crescendo di disperazione il giorno di Natale - “un Natale che vale zero spaccato perché questo è quello che vali tu” - “inevitabilmente” Harry, ormai schiacciato dal peso della solitudine, ingurgita un’intera bottiglietta di barbiturici e placidamente s’addormenta sognando Clara, suo grande amore perduto. Impeccabile, strepitosa, trascinante interpretazione di Nicola Alberto Orofino (ormai saldamente affermatosi nella città etnea) che si autodirige nel toccante monologo di Berkov con mano felicemente ispirata, piroettando (nonostante l’imponente mole) con falsa allegria intorno allo spoglio alberello e regalando al pubblico del piccolo, ma validissimo Teatro del Canovaccio di Catania un’indimenticabile interpretazione, (quasi) adottando contro Diderot la rivincita del metodo Stanislavskij dell’immedesimazione psicologica che si manifesta improvvisa nelle lacrime a stento trattenute, mentre il pubblico ammaliato e altrettanto commosso gli tributa lunghi e meritatissimi applausi. Voce fuori campo di Francesco Bernava.
E’ andata in scena (alla “Sala Roots” di Catania) la fiaba Gelsomina e il Principe Tuttomio, nuovo appuntamento del “Teatro dei Giganti” dedicato ai più piccoli della compagnia “La Casa di Creta” diretta da Antonella Caldarella e Steve Cable. Lo spettacolo scritto e diretto da Antonella Caldarella, prodotto da “Nave Argo” gode del contributo della Regione Siciliana e dell’Assessorato al Turismo e allo Spettacolo. Interpretato con garbo da una saltellante e sorridente Iridiana Petrone e dall’altrettanto zampettante Giuseppe Brancato, entrambi impegnati in ruoli doppi, la fiaba - che eccita e asseconda la fantasia dei piccini (l’immancabile amico immaginario accompagna Gelsomina nel regno dell’insopportabile principe Tuttomio) - si snoda con leggerezza sulle gradevoli musiche di Steve Cable e contiene sottotraccia un inequivocabile ammonimento morale ai genitori troppo assenti e distratti. Un invito a porre l’amore e l’affetto per i figli al di sopra di ogni cosa.
Una festa di compleanno, l’attesa degli amici, un’atmosfera frizzante, quasi gioiosa tra i due coniugi che si preparano al festeggiamento del genetliaco. Ma siamo nel 1943 in pieno conflitto mondiale con i nazisti in casa che spadroneggiano. E proprio loro (uno spietato colonnello della Gestapo) irrompono improvvisamente nel bel mezzo della festa, perché sotto casa della festeggiata sono stati uccisi due ufficiali tedeschi. Due dei sette astanti, da loro stessi scelti, saranno fucilati. Due per ogni appartamento del palazzo.
Sembra incredibile ma La cena delle belve del poco conosciuto in Italia autore, sceneggiatore e giornalista armeno francese Vahé Katcha, riesce a conciliare i due opposti dell’angoscia e del divertimento per lo humor nero di cui è intrisa l’intera opera, che scava crudelmente nell’animo e nella mutevole natura umana sempre terribilmente deludente, meschina, egoista, crudele, di fronte all’inverarsi di avvenimenti imprevisti che generalmente ne ribaltano ogni assunto etico, scoprendo putridume e inconfessati segreti. Fluida e trascinante la recitazione degli ottimi interpreti: Marinella Bargilli, Emanuele Cerman, Alessandro D’Ambrosi, Maurizio Donadoni, Carlo Lizzani, Ralph Palka, Gianluca Ramazzotti, Silvia Siravo. Regia associata di Julien Sibre e Virginia Acqua. In scena allo Stabile di Catania fino al 24 novembre.
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