Il teatro che sorprende e affascina torna sotto le falde dell'Etna
Sicignano uber alles. La scoppiettante genovese Laura Sicignano planata su Catania a raddrizzare la ria sorte dell’acciaccato Teatro Stabile Catanese nel ruolo di Direttore artistico - gradita come una rosa al naso dal C.d.A. del tormentato Ente etneo - riserva per se l’esordio registico della stagione teatrale 2019-2020 affrontando di petto Antigone, fortunatissima e rappresentatissima tragedia di Sofocle, giunta ancora una volta alla sua ennesima rappresentazione e riproposizione (irredimibile destino dei “classici”). L’erudita Sicignano, che ha curato traduzione e adattamento in tandem con Alessandra Vannucci, guida il “blasonato” team attoriale con mano soave, tentando di dare alla sua regia un personale “lubitsch touch”, scarnificando l’immane tragedia dell’imperioso Creonte inchiodato al suo “destino” di sovrano impossibilitato a recedere da un ordine da lui impartito, causa della rovina della sua famiglia (figlio e consorte si suicideranno) e del suo stesso potere. Un destino di maledettismo si abbatterà sinistro su tutti i personaggi (Antigone, Emone, Euridice e lo stesso Creonte), ma il modesto risultato - (per quanto applaudito dal generoso pubblico etneo) faticosamente raggiunto da una regia tradizionale priva di creatività - ne diluisce l’incalzare sottraendo alla tragedia il pathos necessario al coinvolgimento dello spettatore. In scena, calati alquanto sottotono nei rispettivi ruoli, i due protagonisti Sebastiano Lo Monaco (Creonte) e Barbara Moselli (Antigone); più sanguigna e convincente l’interpretazione di Egle Doria (Euridice), Silvio Laviano (primo soldato messaggero), Luca Iacono (Emone e quarto soldato), Franco Mirabella (Tiresia e terzo soldato), Pietro Pace (secondo soldato messaggero), Simone Luglio (guardia). Suggestive le musiche originali eseguite sul palcoscenico da Edmondo Romano; d’effetto il crollo finale della cupa scenografia di Guido Fiorato, anche curatore dei costumi. Fino al 27 ottobre.
Una coppia esausta di ultrasessantenni, torvi e incattiviti, ciabatta stancamente tra le stanze d’una casa nella quale si sono volontariamente segregati, ascoltando attraverso la tv gli agitati rimbombi del mondo esterno. Reazionari, “salviniani”, razzisti, cattolici controriformisti, incarnano l’ideal tipo contemporaneo dei “benpensanti” del Belpaese che il drammaturgo Nino Romeo descrive impietosamente nel suo ultimo lavoro Casa Casa, una prova d’amore portato in scena, con la sua meticolosa regia, alla Sala Chaplin di Catania; interpreti i rodati Graziana Maniscalco (da sempre sua compagna anche nella vita) e Nicola Costa, inedito tandem in amalgama ideale.Echi ioneschiani emergono soprattutto attraverso l’assurdo dialogare sulle banalità del quotidiano (la ritualità degli atti da compiere prima del riposo notturno, la mancata consegna dello yogurth…), mentre ipotetiche minacce esterne (e qui s’innesca il tema della paura dell’estraneo, del diverso, fomentato da politici sovranisti e populisti di casa nostra) ne minacciano la strascicata vita. Un “malo sentire” che l’autore dice d’essere in tutti noi “rimosso, nascosto, sublimato, riformato e riformulato”. Dopo un periodo d’assenza Casa Casa segna la rentrée “ufficiale” della coppia Romeo-Maniscalco nella città di Catania con questa “placida” tragedia familiare, in modo avulso anche “teatro civile” (laddove la denuncia investe la dimensione politica) dall’inevitabile conclusione cruenta, abitata da personaggi lontanamente imparentati con l’Estragone e Vladimiro beckettiani, dove però l’attesa di Godot è tragicamente anticipata da due colpi di pistola. Composizione musicale di Giuseppe Romeo che usa alcune hit canore francesi per accompagnare l’irreversibile degrado fisico e mentale dell’anziana coppia corrosa dall’inedia. Fino al 20 ottobre.
Si potrebbe titolare “Pillole di storia criminale della Chiesa” la pièce portata in scena al piccolo teatro “Del Canovaccio” di Catania (divenuto negli anni garanzia di spettacoli di livello superiore) dall’effervescente Chiara Mascalzoni, giovane e promettente attrice veronese, che in poco più di un’ora ha sciorinato - in serrato e travolgente monologo - nequizie e nefandezze dei Papi (assassini, pedofili, criminali e guerrafondai) della Santa cattolica e apostolica Chiesaromana. Sic transit gloria mundi, scritto e diretto da un “illuminato” Alberto Rizzi (per oltre due anni prodigatosi in ricerche storiche), riprende - dopo l’agghiacciante elencazione degli inenarrabili misfatti papali ad opera della mobilissima Mascalzoni - la fola della “Papessa”, un’immaginaria Elisabetta I salita al sacro soglio di Pietro, pretesto per un excursus maschilista all’interno dell’istituzione ecclesiastica, che (come è noto) categoricamente esclude dall’altissima carica “divina” il sesso femminile. “Donna porta dell’inferno e madre di tutte le miserie”, così San Paolo fulminava con violenti anatemi la demoniaca portatrice della seduzione, messaggera del re degli inferi, giunta sulla terra a corrompere e devastare l’implorante e ingenua creatura dell’altro sesso. La vera frottola propalata dalla sessuofobica Chiesa cattolica che per centinaia d’anni ha inchiodato le donne al ruolo subalterno o peggio a quello di “streghe”, finite nei roghi della Santa Inquisizione. Prodotto da “Ippogrifo” di Verona lo spettacolo (richiesto dal pubblico) ha inaugurato l’ottava stagione di “Palco Off” (diretto dall’agguerrita Francesca Vitale), che coraggiosamente del tutto priva di finanziamenti pubblici continua il suo percorso artistico. Fino al 20 ottobre.
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