Il silenzio non fu d'oro
di Angelo Pizzuto
Buster Keaton: testardamente triste per
offese ancestrali e tenute ‘in serbo’, per lacrime già ‘tutte piante’
sino ad essiccarne le ghiandole. Incompreso in versione ‘lumpen’,
come figlio spurio del melenso romanzo di Florence Montgomery. La presenza su
questa terra come precipizio d’una estrema ‘ingiustizia’ (Gorgia da Lentini).
Il più vicino all’ eterna Crisi della ‘sensibilità europea’ -post
romantica- fra gli interpreti
hollywoodiani e la loro presunta età dell’oro. L’uomo non senza qualità, ma
dalle qualità espropriate, deturpate, esodate dall’esubero dei poteri fisici e
metafisici. Avremmo dovuto capirlo, se non fossimo stati bambini, quando
venne arruolato in Italia per “Due marines e un generale” (con Franchi e
Ingrassia più congruo onorario).
Non so se l’abbia detto Bartès, ma fa lo stesso “Tre
scatti fotografici, in tre fasi diverse della vita di un uomo… possono
dartebe la visione d’insieme” – L’ incipit del film è un’immagine
lattea, sfocata, dunque priva di contorni demarcativi. Un’opera aperta, forse-
poi messa a fuoco su dettagli del viso del Keaton giovane,
mite, mesto, ma non dimesso: anzi fiero di una propria
inesplicabile diversità (dalle ‘belve’ del cinema muto, ove “non vinse alcuna
guerra” né giocò “di boxe”). Buster disarmato per
autodeterminazione, (u)morale rifiuto della barbara furia (equivocando
Nietzche?) che sonnecchia nel ventre di chiunque abbia patito stenti,
iniquità, sopruso. E poi quei suoi ‘occhi a pàmpana’, vividi di
risentimento trattenuto, sorvegliato, persino ‘angelico’- ma non
declinati al perdono. Sapere e tenere tutto per sè, scegliendo il mutismo
(che tutto ascolta) come spiazzante arma di difesa, di introversa e
retroflessa stima di se stessi.
La ‘cinepresa dello sguardo’, che è nelle ‘corde’
(tattili, percettive, olfattive) di Danilo Amione coglie
tutto con defilata (impalpabile) sobrietà, illuminazione intellettiva,
dono di sintesi (nella brevità del piano sequenza che si consolida sua cifra
poetica), come nel precedente omaggio ad Antonioni, attraverso il metodo della
metonimia e della sineddoche (quando il particolare rimanda al suo
contesto) .
Keaton fotografato di spalle, con cappello stretto e
sgualcito, a fianco di un rettangolo (quadro o specchio opaco?); Keaton che
osserva Keaton e ne resta sbigottito; Keaton dietro le sbarre,
reali e allegoriche, con camicia slacciata e cravatta lisa, striminzita-
mani aggrappate al ferro per esigua forza sfinita. Stoicismo,
desistenza, resistenza di Sisifo o Giobbe. Poi l’uomo
anziano, ripreso da Beckett nel suo unico “Film” del ’65 (in fondo, un altro
“Atto senza parole”): corrusco, profonde occhiaie, consunto dal
disinganno - copricapo inamovibile, infeltrito, sino alla muffa. Buster
nostro contemporaneo e “Cameraman” di avamposto: ancora ad occhi fermi, inerti
ma accusatori, come la vittima al sollievo del patibolo. Immenso,
inarrivabile, post-moderno. Tra i più grandi, ‘ignari’ filosofi dell’immagine e
dell’immaginario che in tanti vorrebbero ‘liquefarci’ e ridurre a videogame.
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