Il ruolo del sindacato nella lotta per il lavoro

25 marzo 2014
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Cos’è la Sicilia del lavoro nell’anno sesto della grande crisi?  Esiste ancora una capacità del sindacato confederale siciliano di rappresentare con una logica unificante le complessità di un mondo del lavoro che si è frantumato? E quali le conseguenze della crisi finanziaria regionale che ha segnato la fine del modello di erogazione della spesa pubblica caratteristico dei  quasi settant’anni di autonomia speciale?  Un sindacato che la crisi più lunga del dopoguerra costringe nella trincea della difesa dell’occupazione  produttiva dai fenomeni massicci di deindustrializzazione e dalla sostanziale scomparsa degli investimenti nazionali ed esteri, è ancora un soggetto capace di elaborare idee e proposte per una stagione di cambiamento e di riforme che non siano libri dei sogni o scarichi di coscienza? Chi conosce la storia del sindacato siciliano, e della Cgil in particolare, sa quanto esso sia stato intrinsecamente collegato  ad un’idea di società e di lotta per realizzarla e contraddistinto dalla dimensione territoriale: ciò costituiva la particolare caratteristica confederale del sindacato nell’isola, a fronte della prevalenza della dimensione categoriale in altre aree del Paese. Emanuele Macaluso, del quale il Congresso regionale della Cgil celebra i novant’anni, fu a 23 il  segretario regionale di una  Cgil che partecipò, in un aspro e sanguinoso scontro con la mafia, alla ricostruzione della regione dopo le tragedie del secondo conflitto   mondiale;  ma egli  fu qualche anno dopo, ancor giovane dirigente comunista, il protagonista- insieme al presidente di Sicindustria Mimì La Cavera- della lotta contro i monopoli, cioè del tentativo di immaginare uno sviluppo industriale della Sicilia autonomo e diverso da quello imposto dal grande capitale internazionale. Intense furono anche le lotte operaie. Poco si ricorda, per esempio, che sul finire degli anni sessanta Cgil-Cisl-Uil  seppero affrontare e gestire la chiusura delle miniere di zolfo, una grande operazione di riconversione industriale che concluse la stagione della produzione di zolfo, nella quale la Sicilia era stata al  centro del commercio mondiale fino a dopo la prima guerra mondiale.  E, ancora, sullo scorcio di quegli anni settanta che tanto avrebbero pesato sulle sorti della prima repubblica,  va ricordato il progetto Sicilia che rappresentò il tentativo di offrire un versante sociale forte all’ampliamento della base produttiva e all’espansione della rappresentanza democratica. Non parlo degli anni Novanta (non si può esser giudici sereni di vicende vissute in prima persona) se non per ricordare l’intuizione- merito di Turi Zinna- che la struttura del bilancio della Regione era ormai incompatibile con qualsiasi ipotesi di sviluppo produttivo.  Qual è oggi l’asse attorno a cui ruota l’iniziativa di massa e la battaglia del sindacato siciliano? Per quanto siano apprezzabili i tentativi ed  appaiano  da far tremare i polsi le difficoltà presenti, si avverte una debolezza di proposta  che né  le prese di distanza dalla politica né i tentativi (qualche volta di successo) di trasformare singole strutture sindacali in lobbies capaci di assumere un ruolo decisivo nei partiti di riferimento riescono a nascondere.  I gruppi dirigenti fanno con serietà ed impegno ciò che possono:  ciò che manca è una visione strategica che non si limiti alla ripetizione delle formule nazionali, né scelga la via d’uscita del libro dei sogni, che spesso nella quotidianità  si intreccia con il   tentativo di tenere insieme contraddizioni corporative. Se posso usare una formula della cui banalità mi scuso, il sindacato siciliano non riesce a produrre cultura politica, tantomeno nel senso gramsciano del termine. Questione tanto più preoccupante perché  diversi esponenti politici , anche nelle Istituzioni, usano linguaggi intrisi di  demagogia e populismo e tendono ad occupare tutti gli spazi, scaricando le proprie contraddizioni su chi rappresenta lavoratori che dipendono dalla cassa regionale e, a volte, si connotano meno per la collocazione nel processo produttivo che per la fedeltà al patronage politico. Tutto ciò può rendere incolmabile il già troppo ampio divario tra gli insiders (ancorché appesi al bilancio regionale  ed alla leggina annuale dell’ARS) e le due o tre generazioni di giovani condannati a restare fuori dalla prospettiva del lavoro e destinati all’emigrazione o a sopravvivere grazie all’intreccio tra lavoro nero (o colorato delle varie gradazioni di grigio) e un welfare familiare destinato ad impoverirsi progressivamente. Come non temere che tale situazione abbia come corollario la crescita esponenziale dell’illegalità? Al contrario di quanti pontificano sull’irrilevanza dei corpi intermedi, sono convinto che solo sindacati ed associazioni forti e rappresentative sono una garanzia della ripresa di processi di crescita e di coesione economica e sociale. Senza di loro, sarà il populismo a prevalere,   finanche nelle sue eventuali versioni di “sinistra”.

Franco Garufi



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