Il riduzionismo piace alla mafia

Società | 11 febbraio 2015
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L'assassinio di un procuratore della Repubblica in servizio è un fatto di eccezionale gravità. E se la responsabilità del delitto è ascrivibile a boss 'ndranghetisti, c' è la prova che là dove l' omicidio è stato commesso l'organizzazione criminale è presente e operante. Questa considerazione (scontata nella sua tragicità) si è tradotta in realtà storica il 26 giugno 1983 a Torino, quando - sulla porta di casa - venne ucciso Bruno Caccia, procuratore della Repubblica, "colpevole" di essere giusto e rigoroso nello svolgimento delle sue funzioni.

I mandanti di questo spietato omicidio abitavano in una villa/cascina di San Sebastiano Po (poi confiscata e oggi intestata proprio a Bruno Caccia).

Dunque, in Torino e provincia la 'ndrangheta esiste almeno fin dai primi Anni Ottanta. Altri "indicatori" significativi sono stati acquisiti successivamente, in particolare lo scioglimento per mafia del Comune di Bardonecchia, avvenuto nel 1995.

Eppure, quando nel 2008 il presidente della Commissione parlamentare Forgione, con una motivatissima relazione, denunciò gli insediamenti 'ndranghetisti in Piemonte e in altre zone del centro/nord, furono in molti - anche da pulpiti piuttosto autorevoli - che lo presero a male parole, proclamandosi totalmente increduli e scettici.

Poi vi furono, in Piemonte, numerose indagini - lunghe e approfondite - grazie alle quali divenne chiaro che Bruno Caccia non lo avevano ucciso dei marziani alieni, occasionalmente richiamati dall' appeal delle contrade piemontesi, perché in realtà la 'ndrangheta aveva anche qui strutture ben organizzate.

I risultati delle indagini hanno consentito ai Pm di contestare il reato previsto dall' art. 416 bis c.p. (associazione mafiosa).

Quest' accusa è stata ripetutamente e ampiamente confermata da più magistrati giudicanti, con sentenze di condanna pronunciate in primo grado e in appello in tutti i procedimenti originati dalle inchieste (Minotauro, Albachiara, Colpo di coda, Esilio). I giudici torinesi si sono espressi nel senso della configurabilità del 416-bis 14 volte (salvo errori), perciò ben oltre la soglia della cosiddetta "doppia conforme" (due sentenze che decidono in maniera uguale) che l' esperienza insegna essere il binario giusto per avere verdetti solidi.

In questo contesto stupisce il controcanto della Procura generale presso la Cassazione di Roma che ha chiesto l' annullamento con rinvio di un cospicuo "pacchetto" di condanne inflitte in un ramo del processo Minotauro. A parte il fatto che non è bello spiazzare così le difese (se l' accusa si mostra tanto generosa disperdendo come cenere al vento condanne conformi di primo e secondo grado, cosa resta agli avvocati? Forse chiedere la solenne beatificazione degli imputati?), va apprezzato l' intervento su La Stampa di Enzo Ciconte - uno dei più qualificati studiosi delle mafie al Nord - secondo cui "c' è un problema che riguarda la cultura di magistrati che si attardano nella lettura tradizionale del fenomeno ('ndrangheta) come se questo fosse rimasto inchiodato alle caratteristiche di un tempo e ai territori dove è storicamente nato", mentre "è necessario andare oltre gli stereotipi ed essere aperti a comprendere la verità e la complessità" della vicenda.

CISONO due modi per interpretare il ruolo di magistrato. Quello burocratico-formalistico, chiuso in una sorta di individualismo elitario, di fatto poco incline a un vero e significativo confronto con il faticoso lavoro - spesso di anni - dei magistrati che hanno operato in "presa diretta" con le vicende da decidere. Oppure quello che si fa carico anche del risultato complessivo dell' azione giudiziaria, specie quando si è trovata la password per aprire la porta segreta di una pericolosa organizzazione.

Quello che non considera la mafia come un problema solo di ordine pubblico - violenza e sangue -; e non dimentica il suo Dna di straordinaria, ancorché per lo più sotterranea, capacità di irresistibile condizionamento (per il solo, formidabile fatto di esistere!), che ha trasformato l' associazione mafiosa in un vero e proprio sistema di potere criminale sul piano economico, politico e sociale.

Sullo sfondo si staglia il rischio di arretrare nel contrasto investigativo-giudiziario della mafia. Sia perché, moltiplicando i requisiti del 416 bis fino a escluderlo, si trasforma questo strumento in "cerbottana" innocua contro un "carro-armato" (copyright di Giovanni Falcone).

Sia perché è certamente tramontata la stagione ambigua di quel Pg della Cassazione (Giuseppe Guido Lo Schiavo) che mentre contribuiva al film di Pietro Germi In nome della legge, scriveva negando di fatto la mafia, che "(non) disprezza polizia e magistratura"; anzi "ha sempre rispettato la magistratura e la giustizia e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l' opera del giudice". Il riduzionismo - non meno del negazionismo - fa obiettivamente comodo alla mafia.



 di Gian Carlo Caselli

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