Il pasticciaccio brutto in Afghanistan

Società | 17 agosto 2021
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La riconquista talebana dell’Afghanistan viene additata come un secondo Vietnam per gli Stati Uniti. In realtà deve considerarsi un Vietnam non solo per gli americani ma anche per la Nato e per l’Occidente. Al pari della Russia nella quale sono naufragati i sogni di conquista di Napoleone e di Hitler, a nessuno – Alessandro Magno, inglesi, sovietici, americani – è riuscito di tenere sotto controllo il territorio afghano. I dati divergono da una valutazione all’altra ma pare che in venti anni la missione militare americana sia costata quasi mille miliardi di dollari – le guerre moderne sono costosissime! – senza dimenticare quanto abbiamo sborsato noi italiani e gli altri paesi europei per equipaggiare i rispettivi contingenti impegnati nell’impervio, sassoso paese asiatico. Abbiamo pianto anche noi oltre cinquanta militari morti e trecento e passa feriti e mutilati. Abbiamo – chi più chi meno tutte le forze occidentali – profuso miliardi in costruzione di scuole, strade, ospedali, in addestramento dell’esercito governativo e delle forze locali di polizia. Risultato finale: l’esercito di Kabul si è arreso a, dicono, appena 60.000 talebani. Sciogliendosi come un ghiacciolo al sole. Senza sparare un colpo o quasi. In poche settimane, una volta messa in atto la ritirata dei contingenti occidentali, gli studenti coranici ossia i talebani sono arrivati nella capitale e si sono presi palazzo presidenziale e potere. Costringendo ad una fuga precipitosa, stile Saigon nel 1975, diplomatici americani ed europei, interpreti e collaboratori afghani, cooperanti delle Ong. Il presidente Ghani è stato tra i primi a disertare fuggendo nel vicino Uzbekistan. “Per evitare un bagno di sangue” si è giustificato. Può darsi. Ma intanto ha tagliato la corda. E centinaia di migliaia di afghani, donne soprattutto, che temono vendette e rappresaglie talebane tentano disperatamentedi abbandonare questo infelice paese. Gli elicotteri fanno la spola dai quartieri delle ambasciate all’aeroporto della capitale. Altro che riedizione delle scene che ricordiamo di Saigon nel 1975. Se possibile, sono ancora più drammatiche di quelle di allora.

Una batosta memorabile

Una batosta memorabile. Storica. Sulla quale vogliamo spendere alcune riflessioni.

Biden non la giudica tale. Già con Trump gli Usa volevano chiudere il costoso e sanguinoso capitolo afghano con quasi il 70 per cento degli americani favorevoli al ritiro. Venti anni di guerra e di perdite con risultati assai modesti rappresentano un costo insostenibile anche per il paese più ricco e potente del mondo. Pare che al recente Consiglio Nato di Bruxelles di giugno inglesi e italiani abbiano cercato di far capire ai decisori americani che occorrevano altri mesi di preparazione per evitare che si verificasse quello che si è puntualmente verificato. A Washington però l’amministrazione Biden utilizzava altri elementi di valutazione: se gli afghani non hanno intenzione di opporsi seriamente ai talebani inutile restare due o sei mesi in più, succeda quel che succeda. Anche perché gli Usa non ritengono più prioritaria per la loro politica estera e per la loro sicurezza nazionale quell’area asiatica.

Chi sono i talebani? Nell’Afghanistan tribale dove tutto viene ricondotto all’architettura sociale della tribù di appartenenza l’errore più pacchiano che si poteva commettere, e che si è commesso, consiste nell’idea di “esportarvi” la democrazia. In realtà la democrazia come la intendiamo storicamente noi non si esporta in contesti che da secoli la sconoscono e non scalpitano affatto per abbeverarsene. L’uomo greco di 2.500 anni fa era un conto, l’uomo afghano di ieri e di oggi è un altro conto. Né dobbiamo farci fuorviare dalla definizione stessa di “studenti delle scuole coraniche” che accompagna i talebani, quanto meno nella loro originaria fase costitutiva di un ventennio fa. Le scuole coraniche, le cosiddette “mandrase”, in alcuni contesti territoriali non rappresentano il meglio della cultura islamica. Al contrario, sin da giovanissimi coloro che le frequentano imparano a memoria buona parte del Corano. Spesso acriticamente e senza contributi di altre letture e conoscenze. L’intero mondo culturale rischia con modalitàdel genere di racchiudersi in questa pratica didattica. Ossessivamente, fanaticamente, potentemente. Così si finisce per formare non raffinati teologi e studiosi del Corano ma più che altro fondamentalisti, combattenti della Guerra Santa, ossia della Jihad, e applicatori alla virgola della Shari’a. Ovvero del complesso di regole di vita e di comportamento “dettato da Dio” per la condotta morale, religiosa e giuridica dei suoi fedeli. Il guaio è che alcune delle pratiche classiche della Shari’a contengono gravissime violazioni dei diritti umani. Ma agli studenti coranici più oltranzisti - e i talebani sono sicuramente tra costoro - poco importa se il loro apprendimento letterale andava bene, consentiteci il beneficio del dubbio, forse milletrecento, mille anni fa: tutto quello che sul piano comportamentale e giuridico c’è da sapere e da fare, senza adattamenti, senza compromessi con un mondo che è corso ben più veloce, è contenuto in quel libro, in quelle conoscenze, in quelle pratica di indottrinamento religiosa e insieme politica estremistica e fondamentalista. E’ dogmaticamente così e basta, non si discute né sia dialoga con chicchessia. E se è necessario per imporla si imbraccia un fucile e si combatte. Punto e basta.

 

Sia mai che nello scenario poteva mancare la Cina?…

I talebani già da qualche mese – a latere rispetto ai lunghi e non molto fruttuosi colloqui con gli americani e ai tentativi di soluzione politico-diplomatica avviati a Doha nel Qatar – tessevano una loro rete di relazioni (meglio: negoziavano una loro polizza di assicurazione) nella quale un posto di rilievo assume – guarda un po’ chi c’è… - la Cina. A Pechino non interessa più di tanto se i nuovi padroni talebani vieteranno alle bambine di andare a scuola, alle donne di diplomarsi, laurearsi, lavorare o se obbligheranno ragazzine dodicenni otredicenni se non addirittura bambine più piccole a sposare uomini adulti e vecchi bavosi. In nome della realpolitik (“Facciamo affari, vi costruiamo in pochissimi anni opere pubbliche, strade, ferrovie, ponti, dighe e via discorrendo,fabbriche ma non pestateci i piedi e non esportate la Jihad tra i musulmani che vivono in Cina”) Pechino firmerà a Kabul contratti a decine come fa in tutti i continenti. Anche la Russia prima o poi, più prima che poi, riconoscerà il neo Emirato Islamico dell’Afghanistan sperando che questa vittoria dell’islam più retrivo, medievale ed oscurantista non contagi le repubbliche asiatiche ex sovietiche di popolazione musulmana che fanno da cuscinetto tra l’area afghana e la Russia e meno che meno contagile popolazioni musulmane della Russia. Non è un caso che le tre ambasciate rimaste aperte in queste ore convulse a Kabul mentre le altre hanno sbaraccato siano quelle di Cina, Russia e Turchia. Non appena comincerà ad esaurirsi l’enorme arsenale di materiale bellico consegnato da Usa e Nato ai corrotti e vigliacchi comandi dell’esercito di Kabul e che ora passa, perfettamente nuovo ed integro, nelle mani dei nuovi governanti talebani, Mosca e Pechino non disdegneranno di rimpinguare ed ammodernare con tanto di lauto guadagno miliardario l’arsenale dei nuovi padroni del paese. Senza troppi scrupoli. E pazienza se l’intera nazione afghana sarà riportata indietro non di anni ma di secoli quanto a lancette dell’orologio. Si sa, gli affari sono affari.

 

I rischi che si profilano all’orizzonte

Tra i rischi che più si profilano all’orizzonte ne elenchiamo alcuni. L’Iran è scita, l’Afghanistan sunnita. Sarebbero da definire nemici. In ogni caso dall’Irak all’Iran, all’Afghanistan, al Pakistan si sta creando in Asia una vastissima cintura territoriale caratterizzata da un crescente estremismo statuale islamico. Con varie declinazioni ed interpretazioni nazionali e religiose ma tutte improntate all’esportazione dell’islam più duro e puro possibile. Come dire: un concentrato di micce pronte a dare fuoco alla santabarbara in ogni occasione. Saranno tutti da approfondire i rapporti che instaureranno l’Iran della teocrazia degli ayatollah e il nuovo (si fa per dire) Afghanistan dei talebani. Rapporti che hanno tutta l’aria di una gara a mettersi in gioco a chi è più integralista ed estremista dell’altro.

La società afghana a meno di improbabili rivisitazioni del credo politico-religioso talebano ripiomberà nell’oscurantismo. Pare che a Kabul siano già iniziati i rastrellamenti casa per casa alla ricerca dei collaboratori degli occidentali e dei precedenti governi. Le donne saranno obbligate a tornare ad essere incassate nel tragico sarcofago del burqa, non saranno più né persone né presenze. Si ripiomberà nell’oscurantismo più nero dove scuola, musica, arte, diritti delle donne e dei minori come li intendiamo noi corrono il concretissimo rischio di venire additati in modo sbrigativo come manifestazioni di blasfemia e dove fioccheranno le condanne della “polizia religiosa” e dei tribunali che applicheranno la Shari’a. Kabul e le altre province non saranno davvero luoghi da sogno dove vivere. Non c’eda stupirsi se in queste ore centinaia di migliaia se non milioni di disperati, profughi già da adesso, tentano di lasciarsi alle spalle il loro paese.

La vittoria talebana darà spinta e ripresa a tutte le tendenze estremistiche dell’islam sanguinosamente impostesi in Africa (in Somalia, Nigeria, Ciad, Mali e in tanti altri paesi) e in Asia. E’ l’Onu stesso a mettere in guardia a proposito della protezione che il nuovo Emirato comincia a (ri)concedere ad Al Qaeda, chiamiamola così, versione 2.0. E sono tanti gli analisti i quali temono che la vittoria talebana darà fiato ad una temuta recrudescenza di attacchi terroristici ad opera di cosiddette “cellule in sonno” o cosiddetti “cani sciolti” in Europa, America, Asia ed Oceania. Nella convinzione che tutto ciò che viene etichettato come “diverso” – lo stile di vita occidentale, la cultura non a marchio fondamentalista islamico – si può battere ed abbattere combattendo. Bella prospettiva.

 

Con gli Usa battibili e perdenti aumenta il rischio di braccio di ferro con la Cina

Ed esiste un altro sinistro convincimento che potrebbe accelerare il previsto, più che possibile, “scontro finale” tra Pechino e Washington, con la compartecipazione di Mosca sempre più attratta nell’orbita cinese. Dopo i figuroni degli Usa in Vietnam, in Siria ed Iraq e ora in Afghanistan i cinesi potrebbero sempre più coltivare una pericolosa “sindrome di autoconvincimento”. Convincersi sempre più, cioè, che gli americani, tanto rissosi ed elefantiaci nei moniti e negli atteggiamenti, siano in realtà sul terreno di battaglia un gigante dai piedi d’argilla, una specie di tigre di carta che si potrebbe provare a sfidare in campo aperto. Magari sui mari asiatici e non solo. Magari mettendo in atto la tanto agognata invasione da parte delle forze di Pechino dell’isola indipendente ribelle di Taiwan da riannettere alla madrepatria. Operare dunque un secondo colpo ora che è già stata ridotta all’obbedienza forzata Hong Kong. Sarebbe un azzardo rischiosissimo oltre che una sottovalutazione imperdonabile che davvero spalancherebbe le porte allo scatenamento della Terza Guerra Mondiale.

Che pasticcio, mister president Trump e mister president Biden. E, prima ancora, presidente Bush figlio e presidente Obama. Non c’è che dire: una ritirata, questa dall’Afghanistan, che probabilmente un gruppo di bambini avrebbe saputo pianificare meglio dei cervelloni e delle alte sfere di Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Pentagono, Cia.


 di Pino Scorciapino

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