Il paradosso siciliano: meno risorse, più libertà
Dopo la tempesta nel bicchier d’acqua originata dalla presunta telefonata tra il presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta, e il dottore Matteo Tutino resta per intero il dramma siciliano cui la stampa nazionale, così pronta a riempire pagine sulla trascrizione di una intercettazione, non dedica un rigo. La lunga crisi che ha devastato il potere d’acquisto, le attese di una vita migliore di un intero popolo è oggetto di rilevazioni statistiche non certo di campagne correttive coraggiose e originali.
Così, mentre il Presidente del Consiglio rimprovera al Presidente della Regione di non approntare valide misure ai problemi siciliani, c’è da domandarsi cosa il Presidente del Consiglio stia mettendo in moto per risollevare la Sicilia. Dal recente passato emergono in tutta la loro crudezza una serie di fatti: 1) la politica in Sicilia non conta quasi nulla; 2) le grandi decisioni, meglio chiamarle le grandi incertezze o inerzie, sono dominate, controllate, inspirate dal legame incestuoso tra ceto burocratico e imprenditoriale che preferisce non far nulla, o salvaguardare i propri privilegi, piuttosto che correggere o mitigare le enormi diseguaglianze che attraversano l’Isola.
Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, predecessori di Crocetta, sono responsabili di avere elevato a perfezione scientifica un sistema clientelare di distribuzione-dissipazione delle risorse. Un sistema che ha stipato gli uffici pubblici di decine di miglia di dipendenti inutili, drenando preziose risorse dagli impieghi produttivi.
Se gli Ato rifiuti e gli Ato idrici si sono trasformati in gigantesche sacche di inefficienza e malcostume, ebbene, ciò si deve alle “politiche” attuate dai due presidenti. Se le forniture medicali e la spesa farmaceutica sono l’idrovora che costringe il bilancio della Regione a destinare pochi spiccioli agli investimenti, questa è la conseguenza anche dell’azione dei due presidenti precedenti e dei loro cortigiani.
Crocetta, presidente per caso, frutto della guerra fratricida del
centrodestra, ha scelto la strada più comoda: galleggiare sull’esistente
e dove ha dovuto mostrare la forza lo ha fatto solo perché costretto
dai mezzi economici sempre più rarefatti e meno
disponibili per le grandi scorrerie della politica e della burocrazia.
E arriviamo al nodo cruciale. Nel passato abbiamo creduto e fortemente
sperato che l’uomo adatto al comando potesse imprimere una virata così
radicale da mettere il percorso dello sviluppo siciliano lungo la giusta
rotta e intravedere finalmente orizzonti meno
infausti. Dopo la fase lunga e buia degli anni del dominio mafioso,
appena disturbato dall’azione di alcuni uomini giusti, è arrivata la
stagione dei sindaci nuovi e coraggiosi degli anni ’90, ma anche questa
novità accolta con tante attese è svanita lasciando
solo tenui cambiamenti. Accanto a buoni propositi si sono accompagnati
vecchie pratiche. I Comuni governati da questi uomini si sono riempiti
di personale che rendeva poco o nulla nei servizi preposti e costringeva
a immobilizzare grandi risorse.
Anche i sindaci degli anni Dieci del nuovo Millennio alla stessa stregua dei predecessori di venti anni prima rischiano di passare alla cronache come l’ennesima occasione mancata. Ma la novità vera, il contesto o le circostanze che, pur nella loro drammaticità, possono davvero incubare il cambiamento non risiede nel decisionismo di un uomo, nel carisma di una innovatrice. L’elemento che può provocare la demolizione di incrostazioni vecchie di decenni, di rendite tramandate da generazioni, di una cultura del fare votata a disfare, è la contrazione drammatica delle risorse disponibili.
Una classe di governo abituata a usare larghi mezzi per sfamare i propri smodati appetiti ha aperto la borsa e vi ha trovato pochi spiccioli.
Come la rivoluzione francese si è originata dalla dissipazione dei regnanti unita alla penuria drammatica di risorse, anche il rivolgimento siciliano si è messo in cammino dopo che le risorse clientelari che addomesticavano il dissenso si sono atrofizzate fino a scomparire. Sarebbe altrimenti stato possibile l’opera di demolizione del moloch formazione? Oppure mettere in discussione l’abnorme numero dei forestali siciliani? O le altissime spese di alcuni settori della sanità che nulla hanno a che vedere con i servizi sanitari sempre più carenti offerti alla popolazione dell’Isola ?
Nella vandea siciliana, feudo indiscusso prima democristiano poi berlusconiano, è in atto un potente smottamento elettorale su cui l’informazione preferisce sorvolare. Questa libertà di protesta, questo movimento tellurico è conseguenza della rottura delle catene clientelari. Non avendo più denari da investire sull’acquisto del consenso, una pessima classe politico-burocratica è costretta a tagliare o sfoltire i rami che l’hanno fino adesso sostenuta.
Il paradosso siciliano sta tutto qui. La liberazione dagli ottusi dominatori che l’hanno impoverita e resa fortemente diseguale sta arrivando non dai giganteschi investimenti comunitari o dai trasferimenti nazionali (su cui nel tempo abbiamo registrato primati di incapacità di utilizzo), ma dalla penuria delle risorse economiche che sta prosciugando la palude dei favori. Un’Isola che ama definirsi nazione e un popolo dalla pazienza smisurata hanno smesso di seguire i pifferai di turno e li guardano finalmente per quello che sono sempre stati: dei magistrali imbroglioni.
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