Il nuovo (dis)ordine internazionale dopo Kabul
Dopo il fallimento, vera e propria sconfitta, di Usa e Nato in Afghanistan con il repentino crollo del corrotto governo di Kabul per venti anni sostenuto dagli occidentali ed il precipitoso abbandono del paese nelle mani dei talebani un nuovo (dis)ordine internazionale con un nuovo sistema tripolare sembra prendere corpo in questo complicato 2021.
Conclusa la Seconda guerra mondiale, per decenni siamo vissuti nel bipolarismo Stati Uniti – Unione Sovietica con le rispettive cornici di alleanze più o meno imposte: Nato da una parte e Patto di Varsavia dall’altra. Oltre che sulla Nato gli Usa hanno potuto contare su alleanze formali grosso modo ritagliate sul modello della Nato in Asia e su tanta mano libera nel “recinto di casa”, il continente americano. Il bipolarismo storico tra le due superpotenze non ha coinvolto tutte le aree geopolitiche e non ha occupato tutti gli spazi statuali. Per anni infatti un consistente fronte di nazioni ha animato lo schieramento dei paesi definiti “Non allineati”che ha avuto nel leader jugoslavo Josip Broz Tito uno degli esponenti di punta.
Con il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e lo sfaldamento dell’Unione Sovietica negli anni ’90 del secolo scorso si avvia una fase che vede a lungo come superpotenza globale unica gli Stati Uniti. Lustro dopo lustro però sempre più tallonati da vicino da una superpotenza emergente, la Repubblica popolare cinese. Fino ad arrivare alla geometria variabile in atto: a) il tripolarismo militare Stati Uniti, Russia, Cina, di gran lunga le superpotenze più armate e “nuclearizzate” del mondo, e b) il bipolarismo economico Usa-Cina nel quale assolutamente più modesta rispetto alla straripante aggressività di questi due attori si conferma la cifra della Russia.
Anche nell’assetto recente sperimentato non mancano indipendenze di contesto come abbiamo visto a proposito dei “Non allineati” nel secolo scorso. E’ il caso di “battitori liberi” o di vere e proprie destabilizzanti “schegge impazzite” che rendono ancora più instabili equilibri come quello tripolare militare. Chiaro il riferimento alla Corea del Nord. Non sono mancate al contempo aggregazioni che sembravano aprire le porte a nuovi assetti in grado di incidere sul bipolarismo economico a prevalente impronta americana e cinese. E’ stato il caso per un breve arco temporale agli inizi di questo secolo dei paesi “Brics” (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Un fronte competitivo rispetto a Stati Uniti ed Unione Europeache però ancora più di americani e vecchio continente ha sofferto le conseguenze prima della crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008 e mai riassorbita del tutto ed ora degli effetti della pandemia. Sul piano strategico e della geopolitica resistono le relazioni privilegiate tra Usa e Israele così come tra Usa e petrodollaricrazie della penisola arabica mentre non mancano relazioni altrettanto speciali tra Russia e Cuba e Russia e Siria di Assad. Dal canto suo la Cina, senza sparare un colpo, con il suo spettacolare attivismo finanziario, economico, realizzativo/infrastrutturale, grazie a prestiti che non potranno mai essere rimborsati, ha stretto il cappio al collo di decine di paesi africani, praticamente all’intero continente. Sempre più “cosa nostra” di Pechino.
Rimane inattaccabile in tutta la sua potenza distruttiva inimmaginabile il tripolarismo militare nucleare di Usa, Cina e Russia ma nuove ripartizioni si disegnano con impressionante velocità negli ultimi anni.A partire da un modello sistemico a ragione sempre più accreditato. Proviamo a spiegarlo. Il mondo può essere analizzato seguendo una precisa linea di aggregazione ideologico-strategica: democrazie da una parte ed autocrazie dall’altra, le seconde spesso ma non sempre eredi del comunismo reale. Se non fosse per il sempre presente livello di minacciosità degli Usa (poi spesso costretto a fare i conti con la realtà sul campo…) il bipolarismo tra democrazie ed autocrazie potrebbe anche configurarsi come bipolarismo tra stati non aggressivi e non minacciosi e stati aggressivi e minacciosi. Non ci sembra che l’Italia o la Spagna o il Portogallo o la Norvegia costituiscano una minaccia per le nazioni vicine mentre lo stesso non può dirsi di Corea del Nord, Iran, Cina, Russia. L’elenco delle autocrazie è lungo, da Cuba al Venezuela alla sempre più invadente Turchia di Erdogan, scheggia impazzita nella Nato. Della quale rimane a far parte solo per due motivi strettamente collegati: perché controlla il Bosforo, e quindi il transito delle navi russe da e per il Mar Nero, e perché di conseguenza gli americani la vogliono nella Nato. Anche l’Europa Unita al suo interno deve fare i conti con pruriti autocratici in Ungheria e Polonia nonché con qualche disallineamento rispetto ai principi ispiratori del patto europeo in altri stati come l’Austria, la Repubblica ceca, la Slovacchia.
Il nuovo sistema tripolare del dopo Afghanistan 2021
Cosa cambia negli equilibri e nelle polarizzazioni ideologiche e strategiche dopo il disimpegno americano e la fuga precipitosa da Kabul di Usa e Occidente dell’agosto 2021, insanguinata dall’infernale attentato kamikaze della costola locale dell’Isis? Cambia tanto. Perché – sempre fermo restando il tripolarismo nucleare/militare Usa-Russia-Cina con lo sgradito e imprevedibile incomodo della Corea del Nord, con la quale comunque la Cina tiene sempre aperto un canale di dialogo e in qualche modo fa opera di mediazione e moderazione – sembra acquisire terreno un nuovo assetto ideologico/strategico con il quale il mondo dovrà fare i conti nei prossimi anni. Si tratta di un aggiornamento, di una severa variazione sul tema (o variante, per usare un termine ricorrente nel linguaggio in tempi di pandemia) rispetto al bipolarismo democrazie/autocrazie modello di riferimento negli ultimi anni fino allo scorso agosto.
Infatti siamo in presenza adesso di un nuovo assetto tripolare riconducibile a tre gruppi di attori statuali:
1) le Democrazie;
2)le Democrature autarchiche con tendenze totalitarie;
3) le Islamocrazie coattive.
Delle prime e delle seconde abbiamo già scritto. Nel primo gruppo si ritrovano i paesi definiti “occidentali”di Europa e Nord America e le democrazie non autarchiche o militarizzate del Centro e Sud America ma anche paesi asiatici (come Giappone, Corea del Sud, India) e dell’Oceania (Australia, Nuova Zelanda). Per un momento – nell’incandescente passaggio dall’amministrazione Trump all’amministrazione Biden – abbiamo persino temuto che si verificasse la più impensabile delle alterazioni e cioè che gli Usa scivolassero in una autocrazia con tanto di scontro civile interno.
La definizione che utilizziamo per le autocrazie – “democrature autarchiche con tendenze totalitarie” – intende rimarcare come sia sempre in agguato la tentazione di trasformare una più o meno libera elezione nella perpetuazione del potere. Modificando allo scopo carte costituzionali, aumentando il numero dei mandati presidenziali fino all’obiettivo tanto sospirato della carica a vita, truccando elezioni, restringendo gli spazi di confronto democratico, schiacciando le opposizioni. Se chiedete a Putin, Erdogan, Maduro, Orban e compagnia cantando (l’elenco è lungo, in Africa spesso finisce per diventare un percorso ordinario) avrebbero tante esperienze ed argomenti sul tema da organizzare fior di lectio magistralis.
La vera novità del dopo Kabul è costituita dal terzo polo. Presente in nuce non da anni ma da decenni. Ora prepotentemente rilanciato, potremmo affermare esploso nella sua certificata pienezza. Dal modesto peso militare, economico, tecnologico (solo l’Iran è in grado di produrre sistemi d’arma di notevole rilevanza strategica, missili in particolare, in attesa di dotarsi dei tanto agognati ordigni atomici con cui armarli) ma dal dirompente peso ideologico e strategico. Liquidato Bin Laden -fondatore di Al Qaeda e mente l’11 settembre 2001 dell’attacco alle Torri Gemelle di New York, al Pentagono e del fallito attacco alla Casa Bianca - neutralizzata la velleitaria esperienza statuale dell’Isis in Siria, Iraq, Kurdistan, avevamo erroneamente retrocesso la composita onda fondamentalista islamica dalla vetta della classifica dei maggiori rischi per la sicurezza mondiale a diverse posizioni più in basso, dopo pandemia, disastro climatico, crisi economico-finanziaria ed altre insidie. Andate a contenere adesso l’autostima, o più correttamente l’autoesaltazione, dell’islamismo estremista afghano! Con legittimo orgoglio può dimostrare di aver rimandato indietro con la coda tra le gambe - seppure in epoche, in contesti, con forze sul terreno di ispirazione molto diversa – tra metà 1988 ed inizi del 1989 l’Unione Sovietica che aveva invaso il paese nel 1979 e nel 2021 gli Usa ed i loro alleati presenti in armi a Kabul nelle province afghane per 19 anni e 44 settimane! Ovvero le due più impressionanti superpotenze militari della storia. E andate a contenere l’effetto emulativo e moltiplicatore che tale successo avrà su quelle che negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si definivano “le masse arabe” e che potremmo ridefinire ora in modo più estensivo e pertinente “le masse islamiche”. In particolare le più sensibili al tema della difesa, dell’imposizione, dell’esportazione dell’ortodossia più rigida dell’islam e della prevalenza della religione di Maometto su quelle – a loro modo di vedere incomplete, non definitive – fondate su Vecchio e Nuovo Testamento.
L’islamismo militante che sembrava in difficoltà riprenderà vigore nei paesi musulmani e con altrettanto forza nei paesi non musulmani di immigrazione. Non si tratta di un nuovo disegno. Già nel 1989 uno dei più noti ideologi del pensiero jihadista, il palestinese Abdullah Azzan, teorizzava la delirante tesi che la vittoriosa guerra agli infedeli (sovietici) in Afghanistan avrebbe segnato l’inizio della jihad globale portando alla sottomissione del mondo intero all’islam. I talebani – lo ricordiamo – hanno governato l’Afghanistan una prima volta dal 1996 al 2001 quando è iniziato l’intervento “punitivo” per aver trasformato il paese in un santuario del terrorismo, in particolare per l’ospitalità generosamente concessa ad Al Qaeda ed a Bin Laden, successivamente riparato nel vicino Pakistan.
Nella critica feroce di queste settimane alla caporetto occidentale in Afghanistan negoziata da Trump e continuata fino alla sua precipitosa conclusione da Biden dobbiamo anche mettere in conto i costi delle operazioni “EnduringFreedom” e “Isaf”. Non solo è ormai evidente che democrazia e libertà non si esportano in paesi come l’Afghanistan. Ma vanno considerati i costi in vite umane. In venti anni gli Stati Uniti hanno contato oltre 2.300 morti tra i loro soldati in scontri armati, esplosioni di mine, incidenti stradali, abbattimenti o incidenti di mezzi aerei. E nel complesso quasi un altro migliaio di morti in evenienze analoghe hanno contato gli altri 29 stati che hanno dato vita alla coalizione. Membri della Nato più altri paesi come Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Giordania, Georgia.
Se non sono mancate le aperture in campo sociale in questi venti anni a seguito dell’intervento della coalizione, specie nell’istruzione e nei diritti delle donne, è altrettanto vero che dai media non abbiamo ricevuto dati ed analisiattendibili a proposito di domande cruciali. Ad esempio: il consenso di cui godono i talebani nel paese nella sua composita interezzaè maggioritario o minoritario? non è che gli afghani nella loro chiusura socio-religiosa sono dalla parte dei talebani più di quanto noi riteniamo? nelle province e nei villaggi più interni quanti sono coloro che non li vedono come fumo negli occhi e non li osteggiano? in quelle aree nei venti anni di “occupazione” straniera i diritti delle donne hanno denotatoconcreti segnali di cambiamento o si è rimasti fermi al burqa ed alla cancellazione della donna dalla vita civile, al suo seppellimento a schiava di casa emacchina sfornafigli?
La caratteristica del polo islamizzatore coattivo è che non si fonda solo sulle strutture statuali (come è ad esempio il caso dell’Iran: “esporta” la sua rivoluzione teocratica nei paesi dell’area mediorientale ed allaccia nel mondo rapporti privilegiati con i paesi dichiaratamente nemici del modello politico-economico democratico-occidentale, in particolare ostili agli americani come Cuba, Venezuela, Corea del Nord) ma si fonda anche o forse soprattutto su gruppi e formazioni armate, spesso in feroce contrasto le une con le altre, con canoni organizzativi e finalità tattiche non coincidenti. E’ noto che Isis e gran parte dei talebani, tranne alcune frange del movimento, sono nemici. Ed è noto che mentre l’Isis aspira con la jihiad globale ad un califfato universale, i secondi puntano – con successo, come abbiamo visto – a due obiettivi: l’indipendenza dello stato afghano e l’applicazione della shari’a. Con le sue ossessioni sessuofobiche nei confronti delle donne, da segregare in casa come esseri umani di seconda categoria senza possibilità di studio, lavoro, pratica sportiva, e le sue ossessioniartefobiche, annullando cioè tutto ciò che costituisce arte, musica, teatro, spettacolo, cultura non rigidamente islamica. Sfugge totalmente a questa fanatica visione oscurantista un dato di fatto reale e generalizzato: nel mondo i paesi più ricchi, più evoluti, più moderni, più liberi, meglio governati sono quelli dove le donne hanno conquistato il massimo di potere politico e il massimo di libertà, diritti politici, diritti sociali ed economici.
Restando aIl’arroccamento oscurantista islamico, il dato di fatto inoppugnabile è che queste diverse visioni tra talebani ed Isis – ma anche altri movimenti ideologico-religiosi scendono in campo - si traducono comunque in una feroce, forsennata lotta tra entrambi i gruppi per sancire chi è più estremista o più intransigente, chi applicherà con maggiore furia rigorista la shari’a. Strano paese l’Afghanistan, mai dominato da conquistatori esterni ma sempre dilaniato da lotte intestine etniche, tribali, ideologiche, religiose, settarie. Prevedibile che nei mesi e negli anni a venire, anche con la vittoria del movimento talebano che ha richiamato in questi giorni al governo del paese ed alla guida di ministeri chiave a Kabul fior di terroristi e ricercati, quella nazione continuerà ad essere sempre terreno di scontri e guerre civili. Così come luogo di diaspora nel mondo di centinaia di migliaia se non milioni di profughi. Intenzionati a lasciare un paese dove in questi giorni si è alle prese con una travolgente crisi economica e persino alimentare oltre che con una feroce repressione anche delle più marginali libertà. In altre parole alle prese con la repressione della dignità dell’essere umano, specie se di sesso femminile.
Anche i rapporti tra Isis ed Al Qaeda in altri contesti statuali non hanno brillato per idillio. Al Qaeda invece si è complimentata con i vincitori di Kabul.
Questo arcipelago di conflitti ed estremismo ora torna più che mai a costituire un modello, un richiamo per chissà quante migliaia di giovani e nuovi combattenti. Ridando slancio a chissà quanti nuove Al Shabaab somali e BokoHaram nigeriane in Africa.BokoHaram significa letteralmente “l’educazione occidentale è vietata” o “sacrilega” o “un peccato”. Avevamo sottovalutato, se non del tutto dimenticato, che cellule, gruppuscoli e gruppi armati più consistenti formati da centinaia di combattenti “affiliati” all’Isis o ad Al Qaeda sono presenti in quasi tutti i paesi dell’Africa e in quasi tutti i paesi musulmani del Medio Oriente e dell’Asia centrale. Così come nell’area dell’Oceano Indiano, in Indonesia, nelle Filippine. Con “cellule dormienti”e “lupi solitari” presenti anche in Europa.
Un polo dunque non solo statualizzato, fondamentalista al punto di piegarsi ad ogni sacrificio – nel caso dei kamikaze anche della vita – pur di imporre con la forza la propria dottrina. Un terzo polo aggressivo, deciso a tutto, nel quale continueranno- assieme alle lotte per imporre la propria specifica ortodossia - le secolari, sanguinose lotte tra sunniti e sciti. E nel quale il fronte militante dei gruppi o militante delle etnie o militante tribale costituisce solo una delle punte di attacco. Perché completano il modello del terzo polo potenze regionali e stati aggressivi bene armati come l’Iran così come stati particolarmente attivi e potenti sul piano finanziario e diplomatico. Quest’ultimo aspetto va approfondito. Ci riferiamo ad entità statuali della penisola arabica: Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti. Non sono interpreti di un fondamentalismo militante, non sono direttamente impegnati nella jihad. Al contrario, la temono per i loro equilibri di politica interna e per la loro stessa sopravvivenza ma sono sempre in grado di “flirtare” e staccare assegni milionari (anche per tenerseli buoni) a gruppi che la jihad e comunque la lotta armata per imporre l’islam più integralista la praticano sporcandosi le mani sul terreno. Nell’islam il confine tra religione e politica è così indistinto che, come per noi cristiani “Parigi val bene una messa”, per loro finanziare tutto e il contrario di tutto va sempre bene: finanziare nelle loro capitali e città il massimo della scintillante espansione urbana di chiara derivazione occidentale e della modernità efinanziare al contempo i movimenti più oscurantisti intransigentemente antioccidentali. O quanto meno dialogare con loro. Prendiamo il Qatar, piccolo stato sul piano demografico ma potenza regionale attivissima finanziariamente e diplomaticamente. Uno sconcertante esempio di doppiopesismo. Alleato strategico della Turchia, il Qatar a Doha ospita la più grande base militare americana del Medio Oriente e contemporaneamente intrattiene rapporti con i talebani, intessuti sulla comune radice sunnita, ed ha ospitato molti rifugiati talebani. Anche Pakistan e Turchia, in gran parte sunnita il primo e nella totalità il secondo, intrattengono relazioni con i talebani. Il Pakistan, stato campione di ambiguità soprattutto nelle sue sfere dei servizi segreti e militari, addirittura “flirta” sia con i talebani che con l’Isis del Khorasan (Isis-K). Ossia con il gruppo ostile ai talebani che ha progettato ed eseguito l’attentato terroristico di fine agosto nel gate d’accesso all’aeroporto di Kabul. Gesto sanguinario pari se non superiore alle più infami stragi perpetrate dai nazisti.
Europa voce mancante
Nella nuova tripolarità cha abbiamo provato a teorizzare non emerge certo un ruolo contrale della vecchia Europa. Dopo Kabul 2021 è sempre più diffusa l’opinione che gli alleati europei che fanno parte della Nato dovrebbero svincolarsi dalla subalternità agli Stati Uniti e costituire nell’Alleanza Atlantica una seconda gamba ben più autorevole e attiva di quanto finora avvenuto. Con maggiore capacità di azione e di intervento, specie nelle emergenze. Sotto sotto comincia ad affiorare una neppure troppo celata diffidenza nei confronti degli Stati Uniti, sempre più restii alla funzione di “gendarmi del mondo” e nostri protettori per definizione. Non è più così. Il caso Afghanistan ma anche il caso Kurdistan nella voragine siriana (gli alleati curdi abbandonati al loro destino da Trump nel 2019) hanno suonato più di un campanello di allarme nelle capitali europee: gli Usa manifestano una attitudine sempre più spiccata a mollare gli alleati senza farsene troppo cruccio quando qualcuno a Washington decide che non conviene più “perché non è rilevante per la sicurezza nazionale degli Usa”. E se il “caro leader” russo Putin (“caro leader” è l’appellativo con il quale in Corea del Nord veniva salutato il dittatore Kim Jong-il) in Europa provasse ad approfittare di questa tentazione isolazionista americana? E’ trascorso poco più di un secolo dall’intervento in direzione diametralmente oppostadegli Usa in Europa nella Prima guerra mondiale nel 1917 che ha sancito la dimensione mondiale della potenza americana.
Oltre al, definiamolo così, ramo europeo della famiglia Nato, l’altra famiglia che si fatica ad individuare attiva, protagonista, è l’Unione Europea. Non pervenuta.Facciamo nostre tra le sempre più numerose voci che si levano le parole come al solito sensate del Presidente della Repubblica pronunciate a Ventotene domenica 30 agosto 2021 in occasione delle celebrazioni per gli ottanta anni del “Manifesto” di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Appassionato documentoche nel 1941 aveva posto le fondamenta dell’Unione Europea. Ha detto Mattarella: “[Quanto accaduto in Afghanistan] ha messo in evidenza la scarsa capacità di incidenza dell’Unione Europea, totalmente assente negli eventi. E’ indispensabile assicurare subito gli strumentidi politica estera e di difesa comune. La Nato è importante ma oggi è richiesto che l’Unione Europea abbia una maggiore capacità di presenza nella politica estera e di difesa. Questa prospettiva è importante anche per gli Stati Uniti”.
Parole che coincidono poco con quelle pronunciate dal presidente americano JoeBidenil giorno dopo. In uno dei tanti interventi per giustificare il precipitoso abbandono americano dell’Afghanistan, non precisamente concordato con gli alleati europei presenti sul terreno. Ha sostenuto Biden: “La nostra strategia deve cambiare. Non avevamo bisogno di continuare una guerra di terra (…) Il mondo sta cambiando, dobbiamo affrontare le sfide di questo secolo e la competizione con la Cina o la Russia, continuando a combattere il terrorismo (…) Per l’America è stata la decisione più saggia”. Discorso “programmatico” importante: per gli Stati Uniti la priorità nei prossimi decenni sarà il “triello” con Mosca e Pechino (definizione che vuole rivangare la geniale trovata scenica del regista Sergio Leone nella parte finale del film “Il buono, il brutto, il cattivo”). Il “triello” richiederà il massimo sforzo, la massima concentrazione, la massima determinazione. Che sia guerra cibernetica sulle reti e di attacchi sui sistemi informatici da cui dipende ogni aspetto della vita di ogni essere umano, cyberwar, o che sia guerra con missili (anche atomici?) e cannoni sulla terraferma e soprattutto sui mari. Il mondo è avvertito. XiJimping e Putin sono avvertiti.
Sono decenni che si parla della necessità d’una maggiore coesione tra gli stati europei in campo politico-federativo e militare. L’unico risultato finora conseguito, esattamente in direzione opposta, è stata la Brexit. Ossia la più improvvida e scellerata decisione che si poteva architettare. Sia per la Gran Bretagna – come dimostrano ogni giorno in modo inequivoco tutte le analisi economiche e sociali in quel paese – sia per l’Unione Europea. Nella nuova tripolarità del dopo Kabul le democrazie occidentali dell’Europa rischiano solo di essere ancora una volta teatro della recrudescenza di attentati ad opera dell’esercito non istituzionalizzato, terroristico, del polo islamizzatore coattivo. Impegnato più che mai come sarà sia nei paesi islamici che nei paesi non islamici nella contesa a chi dimostra al mondo a suon di esplosioni e stragi kamikaze di essere più fondamentalistaed integralista dell’altro. Più duro e puro, come si diceva da noi negli anni di piombo a proposito di sedicenti rivoluzionari che altro non erano che terroristi con le mani sporche di sangue.
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