Il naturale pessimismo sulla Sicilia e il suo futuro
Si, sono davvero pessimista sulla Sicilia e sul suo futuro prossimo. Sto leggendo in questi giorni alcuni documenti sulla programmazione dei fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020, le sole risorse disponibili su cui far leva per la ripartenza dell'economia siciliana. Mentre l'attenzione del mondo politico regionale è centrata sui nomi dei probabili assessori del Crocetta IV, la situazione siciliana con otto miliardi di debiti accertati il bilancio della regione ormai ridotto al lumicino ( e in ogni caso impegnato per intero nel tentativo di mettere in equilibrio almeno la spesa corrente),la persistente fibrillazione politica, si fa sempre più drammatica. L'unico atto rivoluzionario sarebbe chiamare al capezzale del malato quelli che con gli anglicismi di moda si chiamano stakeholders, cioè tutti i soggetti interessati a tirar l'isola fuori dalle secche e stabilire una road map (ho preso anch'io il vizio degli anglicismi, ma come potrei essere da meno, quando nei documenti di programmazione si legge di sviluppo “culture driven”?)che permetta di individuare un certo numero di azioni di sviluppo da realizzare nei prossimi anni e, soprattutto, stabilire chi fa che cosa.
La condizione necessaria è che la dialettica tra le forze politiche non utilizzi come corpi contundenti i dati statistici, brutto vizio tutto italiano che in Sicilia raggiunge livelli parossistici. Ogni giorno ha la sua statistica e, di conseguenza, la sua polemica. Se le cifre sono negative, si manifesta immediatamente una sorta di soddisfazione masochistica nel dimostrare che la Sicilia sta peggio di tutti e che la colpa è del mai abbastanza vituperato presidente della Regione. Il quale ha tanti difetti e colpe, ma non può diventare l'agnello sacrificale di problemi che l'isola si trascina dietro da decenni; quasi un rito che scarica sul capro espiatorio colpe e responsabilità che hanno radici profonde nei ceti dirigenti della Sicilia. E non mi riferisco solo al ceto politico. A Crocetta, semmai c'è da imputare, colpa gravissima per chi aveva proclamato la “rivoluzione”, che in questi tra anni all'indubbia buona volontà ha fatto riscontro una altrettanto evidente incapacità di modificare i meccanismi di funzionamento della macchina regionale. Oggi, se è consentito citare l'antico proverbio “'a squagghiata d'a nivi si vidunu i pirtusa”. Anzi più che “pirtusa”, voragini: il bilancio della Regione è ridotto a stato ridotto a mero artificio contabile e negli ultimi dieci anni si è pensato esclusivamente a gestire l'ordinaria amministrazione senza alcuna disegno di politiche pubbliche per lo sviluppo. Non è una situazione solo siciliana: tutto il Sud si è ritrovato impastoiato tra le deformazioni del regionalismo, l'eclissi dell'intervento pubblico relegato ai soli fondi strutturali, passati nel giudizio della pubblica opinione da panacea di tutti i mali a causa principale delle distorsioni della spesa nel Mezzogiorno. Tesi entrambe sbagliate, specie quando ai ritardi si sono aggiunti i disastri provocati dalla grande recessione e la sostanziale scomparsa del Sud dall'agenda dei governi nazionali che si sono succeduti nel tempo.
Non è vero, quindi, che la Sicilia stia decisamente peggio delle altre grandi regioni meridionali (Puglia esclusa), ma risulta invece veridico che i problemi siciliani sono aggravati dall'uso dissennato dell'autonomia speciale. Siamo ormai al punto di non ritorno e la crisi devastante delle finanze regionali va affrontata con un taglio radicalmente innovativo, prendendo atto dell'insostenibilità dello squilibrio tra spesa per investimenti e spesa corrente che caratterizza, ormai a partire dagli anni '80 dello scorso secolo, il bilancio della Regione In un volume RES del 2010, Carlo Trigilia ha dimostrato che mentre negli anni intercorsi fra il 1967 e il 1978 la spesa in conto capitale risulta essere sempre superiore a quella corrente della regione, a partire dal 1979 quest'ultima componente registra una vera e propria esplosione, raggiungendo nel 2007 una misura superiore all'85% dell'intera spesa regionale. Inoltre, in termini reali, la spesa in conto capitale non ha mostrato alcun segnale di dinamismo a partire dalla seconda metà degli anni '90 (P.F.Asso e C.Trigilia, a cura, Remare controcorrente).
La storia dell'autonomia siciliana non ha solo tratti ignobili; mai come oggi si avverte l'urgenza di una discussione di merito sui motivi politici e storici che portarono allo Statuto del 1946, alla parabola di una regione “quasi stato”, al rapido crollo delle illusioni sulla “regione imprenditrice”, alla crisi della politica siciliana che coincise in gran parte con la vicenda dell'attacco violento di Cosa Nostra corleonese agli assetti politico-istituzionali in quella che Salvatore Lupo ha definito “vertigine di onnipotenza”. La ricostruzione del sistema politico siciliano dopo le stragi e dopo la “grande slavina “ di Tangentopoli ha seguito per certi versi la tendenza generale alla personalizzazione della politica, mantenendo però intatti gli apparati clientelari che facevano capo a quanto sopravviveva dei vecchi partiti, in un equilibrio nuovo tra Palermo e Roma nel quale si usava l'autonomia come una sorta di “zona franca”che consentiva di conservare pressoché intatti gli strumenti di governo finanziario e gestionale della macchina regionale. Da qui trovano origini la gran parte delle distorsioni dell'autonomia speciale che divennero sempre più gravi man mano che di quell'assetto veniva meno il carburante della disponibilità quasi illimitata di risorse pubbliche che fino a quel momento aveva alimentato il Moloch di palazzo d'Orleans.
Il ceto politico ha continuato a comportarsi come se quella cesura non fosse avvenuta ed ha continuato ad illudere i propri rappresentati sulla capacità di reggere un sistema che ormai viveva nutrendosi cannibalescamente delle proprie carni. In tale situazione la presenza di illustri tecnici di provenienza romana, o addirittura importati da Università anglosassoni, ad occuparsi dei fondi strutturali non ha impedito che essi diventassero una riserva di politiche clientelari da spalmare sul territorio e da giustapporre, senza alcun elemento di riforma, ad un'amministrazione che continuava imperterrita ad erogare salari, retribuzioni, prebende ad oltre centomila siciliani. Ciò ha prodotto anche una distorsione nella rappresentanza delle forze sociali: sempre più le rivendicazioni sono rimaste intrappolate tra le branche della forbice che costringe a rivendicare da un alto una generosa quanto generica richiesta di investimenti atti a favorire lo sviluppo, dall'altro a difendere un assetto della spesa pubblica che consentisse la tutela dei rappresentati, dai dipendenti regionali, ai precari della pubblica amministrazione, ai forestali, ai dipendenti delle Partecipate regionali, provinciali, e così via.
Senza soldi, però, non si canta messa e bisogna perciò sottomettersi alla contraddizione tra la denuncia contro l'utilizzo delle risorse europee e nazionali per lo sviluppo come bancomat per far fronte alle necessità della spesa corrente e la richiesta, spesso contemporanea, di utilizzare quote di quegli stessi fondi per coprire i vuoti nelle poste del bilancio regionale destinate al soddisfacimento delle esigenze, legittime, di quelle categorie. Un'aporia, in tempi di vacche magre, che porterà inevitabilmente, man mano che le risorse diminuiranno, alla guerra tra i poveri. Se la rappresentanza sociale ha evidenti problemi, quella politica- tramontati i partiti di massa identitari- si è frantumata a livello territoriale ed ha finito per guardare al vincente romeno di turno come alla fonte di legittimazione dl proprio potere: non voglio creare equivoci perché si tratta di due realtà profondamente diverse. Ma la corsa attuale a collocarsi nel PD di Renzi ricorda troppo da vicino l'assalto al treno del vincitore nella Sicilia del 61 a 0: processi di tale natura, nella misura in cui stendono una coltre di conformismo su posizioni politiche che restano diverse, sono dannosi per la democrazia e finiscono per favorire le tendenze populiste radicate nella storia dell'isola. Ciò determinerà un ulteriore affievolimento della credibilità delle istituzioni autonomistiche, al quale non ha senso reagire con l'antico e deleterio rivendicazionismo nei confronti dello stato centrale: se l'ARS approva leggi mal impostate e peggio scritte è una pezza a colori lamentare la violazione dei sacri principi autonomistici quando il Consiglio dei ministri le impugna. Certamente, vanno ridefiniti i rapporti fiscali e finanziari tra Palermo e Roma, ma attenzione a non cadere dalla padella nella brace, come insegna qualche recente sentenza della Corte Costituzionale.
La Sicilia del secondo decennio del 2000 ha esigenza di confrontarsi con la dimensione europea e mediterranea e contribuire alla costruzione di un'Europa federale, invece di inseguire antiche e desuete rivendicazioni della parte più reazionaria dei suoi gruppi dirigenti. Solo in quest'ambito ha senso una rilettura in chiave contemporanea ed un rilancio della Regione, altrimenti cadavere insepolto che ammorba l'intera atmosfera siciliana.
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