Il miraggio della terra in Sicilia, dalle occupazioni alla scomparsa delle lucciole
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Salvatore Nicosia (presidente dell’Istituto Gramsci Siciliano) all’ultimo libro di Giuseppe Oddo, Il miraggio della terra in Sicilia. Dallo sbarco alleato alla scomparsa delle lucciole (1943-1969), Istituto Poligrafico Europeo Casa Editrice, Palermo, 2021 (640 pagine - 25,00 euro) da maggio in libreria.
Questo volume costituisce l’ultimo e definitivo segmento di una ricerca che, sotto il titolo comprensivo Il miraggio della terra in Sicilia, si è articolata in quattro tappe: dalle leggi di eversione dell’asse gesuitico in Sicilia (1767) alla fine del Regno delle Due Sicilie (1860); dall’annessione della Sicilia al Regno Sabaudo allo scioglimento dei Fasci dei lavoratori (1894); dalla grande migrazione transoceanica alla caduta del fascismo (1943); e infine quest’ultimo tratto, dal 1943 alla pasoliniana “scomparsa delle lucciole”, cioè la crisi, nel decennio Sessanta, della civiltà contadina tradizionale: anni a noi più vicini attraversati da lotte contadine organizzate, da riforme agrarie estorte e presto vanificate, e da una nuova imponente ondata migratoria, questa volta verso le zone industriali dell’Italia settentrionale prima, e dell’Europa centrale poi.
Il miraggio della terra affonda le proprie radici in uno squilibrio che appare ingiustificato e intollerabile già sul fondamento di una visione filosofica e persino religiosa: un “bene comune dell’umanità”, certamente non assegnato a nessuno come cosa propria, viene sottoposto nel corso del tempo a processi di appropriazione personale che hanno prodotto l’opposizione, nelle società, tra nullatenenti e proprietari, tra lavoratori e rentiers, tra la disumana fatica di strappare alla terra i suoi prodotti e il parassitario godimento degli stessi: e cioè ingiustizia sociale, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, condizioni esistenziali intollerabilmente inique.
Tale è appunto la situazione dell’agricoltura nella Sicilia postbellica, soprattutto nelle zone dell’interno, caratterizzate dalla concentrazione di grandi proprietà – li chiamano ancora fèura, e in effetti conservano molti elementi di attardato feudalesimo – nelle mani di un numero limitato di proprietari per lo più inurbati, assenti ma concretamente rappresentati sul campo da gabelloti, campieri e soprastanti.
Gravita sul latifondo, in degradanti condizioni di vita e di lavoro, la massa ricattabile e precaria dei senzaterra, braccianti salariati alla giornata (jurnatari), mezzadri (mitateri), affittuari (tirraggeri), salariati annuali (annalori), ragazzi di fatica (garzuna), tutti in balia di patti consuetudinari privi di qualsiasi fondamento giuridico, e della mafia che in quel contesto svolge, d’intesa col proprietario, una funzione repressiva delle tensioni sociali che inevitabilmente scaturiscono da arbitrari rapporti di produzione.
Nel clima della conquistata democrazia dopo la lunga notte fascista dei diritti e della giustizia sociale, il processo di trasformazione di quella realtà arcaica si impone alla coscienza del Paese, già a partire dai primi governi di unità nazionale, come un compito ineludibile, e l’idea dilagante di “liberazione” investe lo stesso mondo contadino, sottraendolo all’atavica passività inerente alla solitudine e all’isolamento del lavoro dei campi. Nel suo lento, tormentato e drammatico dipanarsi lungo due decenni, il movimento di liberazione contadino trova l’elemento promotore nelle forze politiche democratiche, partiti e sindacati; si avvale del contributo di una dirigenza “intellettuale” spesso di estrazione contadina; sperimenta – accanto ai più solidi e nazionalmente strutturati organismi (Confederterra, Federbracciati, Camere del lavoro, etc.) – forme di autorganizzazione in relazione ad obiettivi contingenti e specifici (Consigli di feudo, Leghe contadine, Commissione delle terre incolte, Comitati per l’attuazione della riforma agraria, Comitati di solidarietà democratica, Cooperative agricole a centinaia); ricorre alle più varie modalità di lotta e di mobilitazione (scioperi “alla rovescia”, e naturalmente anche “alla diritta”), vertenze salariali, proclamazione di precarie (e confuse) repubbliche indipendenti, e soprattutto occupazioni simboliche (e reali) delle terre, con i mezzadri a cavallo armati di aratro, i braccianti a piedi armati di zappa, bandiere rosse al vento, e donne e bambini al seguito.
Le durature vicende di questa lotta, se hanno sullo sfondo remoto le grandi trasformazioni del paese nel dopoguerra (i governi di solidarietà nazionale, il referendum, la Costituzione, le decisive elezioni nazionali del 1948), si intrecciano da vicino con la specifica realtà siciliana del separatismo, del banditismo, dell’autonomia regionale e della mafia. Importanti provvedimenti legislativi assunti a livello nazionale trovano in Sicilia, nella realtà alla cui trasformazione sono specificamente destinati, un’accanita resistenza. I decreti Gullo (1944-1945), che prevedevano la concessione delle terre incolte o malcoltivate ai lavoratori, e introducevano nei rapporti di mezzadria una più equa divisione del prodotto (3/5 al contadino, 2/5 al proprietario), vengono furiosamente avversati e boicottati in tutti i modi dai proprietari, e soltanto con incursioni nell’aia al momento della spartenza dirigenti di partito e sindacalisti riescono qua e là a far rispettare la legge. Soprattutto nel clima di restaurazione politico-sociale dominante dopo la sconfitta del fronte democratico popolare (1948), alla virulenza della repressione poliziesca si affianca la via della resistenza giudiziaria, con le innumerevoli denunzie per “adunata sediziosa”, “turbamento dell’ordine pubblico”, “minaccia e resistenza a pubblici ufficiali”, “attentato al diritto di proprietà”, e i conseguenti processi, le condanne, la galera per i più “sovversivi”, e l’assassinio di decine e decine di dirigenti sindacali.
Analogo strenuo boicottaggio viene messo in atto per i vari provvedimenti legislativi di “riforma agraria” (fondamentale la legge regionale 27 dicembre 1950 n. 104, e successivi aggiustamenti e integrazioni) emanati dalla Regione siciliana: il limite posto dalla legge all’estensione della singola proprietà terriera (200 ettari) viene eluso attraverso massicci frazionamenti tra membri della famiglia proprietaria e vendite fittizie a prestanome; le terre espropriate sono in generale quelle più impervie e improduttive; il blocco agrario si rende protagonista di una resistenza alla legge e alla legalità che non esita a far ricorso all’intimidazione, al ricatto, all’omicidio e alla strage. Un filo di sangue attraversa le vicende della riforma dell’assetto proprietario in Sicilia, che videro schierati su fronti opposti proprietari e proletari, benestanti e marginali, dominanti e subalterni, ricchi e poveri, configurandosi così come una vera e propria lotta di classe.
Pur tra difficoltà di ogni genere, successi ottenuti e battaglie perse, le leggi di riforma agraria mutarono profondamente il sistema fondiario della Sicilia: si calcola che tra scorpori ed espropri dai grandi latifondi, e vendite agevolate, 400.000 ettari cambiarono proprietà creando centinaia di migliaia di nuovi coltivatori diretti. A governare il processo riformatore fu creato (1950) l’Ente per la riforma agraria in Sicilia (eras), un istituto di equivoco profilo e di scarsa operatività. Quando, esaurita ormai la riforma, mutò il nome in Ente per lo sviluppo agricolo (esa, 1965), il nuovo ente apparve come la nottola di Minerva, che inizia a volare quando le tenebre sono già scese. Ormai c’era era assai poco da programmare, sviluppare, costruire bacini, dighe, strade, allargare trazzere – così come era nelle intenzioni e nello statuto – perché i destinatari di tutta questa attività miglioratrice erano a poco a poco quasi scomparsi. Alla fine degli anni Sessanta le campagne della Sicilia interna erano letteralmente deserte, e abbandonati i terreni conquistati a prezzo di tante lotte e di sangue. In assenza di un più generale processo di ammodernamento degli arretrati sistemi colturali, di una sistematica meccanizzazione dei processi di produzione, di una incisiva politica creditizia, i senzaterra divenuti proprietari di nuda terra avevano cercato altrove, in compagnia di artigiani e di minatori, più tollerabili condizioni di esistenza; e le avevano trovate, in forma familiare, stabile e senza ritorno, nelle strutture produttive del Nord Italia; in forma singola e temporanea (giusto il tempo di arrivare all’età pensionabile, e rientrare vecchi in famiglia), e perciò con costi umani e sociali altissimi, in Germania, Svizzera, Belgio, Francia: sempre fornendo un contributo decisivo al “miracolo” economico del Paese o città accogliente. Solo i più restii all’avventura migratoria si erano acconciati ad occupare tutte le portinerie delle grandi città, mettendo spesso la loro sapienza agraria al servizio di terrazze e logge cittadine. Che nell’ex latifondo non si fossero create le condizioni di un nuovo e diverso sviluppo economico fu perfettamente chiaro alla mafia, che proprio in quegli anni si trasferì, alla ricerca di più redditizi impieghi, in città.
Questa, in estrema sintesi, l’ossatura delle vicende che Giuseppe Oddo ricostruisce in questo ultimo volume della sua saga contadina. Ma c’è, in questa sua indagine a tutto campo, assai più della narrazione specifica delle lotte per la terra, con i successi conseguiti e le sconfitte subite. L’ampia trattazione delle condizioni materiali di vita e di lavoro dei contadini all’interno di strutture tardofeudali costituisce un importante documento antropologico funzionale alla comprensione dell’inevitabilità che da quello stato di precarietà, sottomissione, sfruttamento, vessazione, arretratezza dei metodi di coltivazione e refrattarietà a qualsiasi processo innovativo, scaturisse prima o poi un movimento di liberazione. Una trattazione ‘monografica’ è riservata alla lunga battaglia di Danilo Dolci a Partinico, che per la singolarità del personaggio, esterno al mondo agricolo, e l’originalità dei metodi e delle iniziative poste in atto, ebbe risonanza internazionale. Ampio rilievo vi trova anche la vicenda politica e umana di Salvatore Carnevale, esemplare per la presa di coscienza di classe, il coraggio indomito di fronte alle minacce, la ferocia dell’esecuzione mafiosa, la solidarietà delle forze democratiche, le lungaggini e i depistaggi processuali, fino alla ‘canonica’ assoluzione dei responsabili per insufficienza di prove: un itinerario che, mutatis mutandis, e senza troppa tema di sbagliare, può essere applicato a molte tra le decine di vittime della violenza agrario-mafiosa per le quali – passate quasi inosservate in anni in cui uccidere un capolega o un segretario di Camera del lavoro (15 nel solo biennio 1947-48, oltre alle 13 vittime della strage di Portella, 1 maggio 1947) era evento non memorabile – non si dispone di fonti ugualmente dettagliate.
A differenza che nei primi tre volumi, l’autore non ha attinto, in questo quarto, alla sola documentazione archivistica o pubblicistica. La prossimità cronologica degli eventi narrati gli ha consentito di recuperare la testimonianza di tanti protagonisti ancora in vita, e di attingere non tanto alla sua memoria adolescenziale quanto piuttosto alla propria esperienza di dirigente sindacale in un’epoca immediatamente successiva che di quegli eventi conservava ancora il bruciante ricordo o viveva le problematiche conseguenze sociali e giudiziarie. Ha potuto così ripercorrere con la massima precisione la storia e la cronaca di quel movimento fatto di episodi piccoli e grandi che ha saputo ricomporre narrativamente in uno straordinario epos contadino. Se ha avuto la possibilità, il tempo, la tenacia, di portare a compimento una ricerca durata non un decennio, come documentano ufficialmente le date dei quattro volumi, ma “tutta la vita”, giunto alla conclusione l’autore può esclamare, con le parole dell’antico amanuense, ΤΕΛΟΣ ΚΑΙ ΤΩΙ ΘΕΩΙ ΔΟΞΑ.
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