Il Mezzogiorno piagnone non c'è più, è morto

Economia | 24 agosto 2016
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Lo Stato in ritirata dal Sud” è il titolo del lungo ed interessante “fondo” che lo storico Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato sul Corriere della Sera del 19 agosto. “il Mezzogiorno appare sempre di più un mondo a parte ...per l'assenza consolidata di ogni prospettiva di sviluppo, per gli elevatissimi tassi di disoccupazione, per il crollo demografico...per l'insediamento ormai egemone in molti ambiti delle organizzazioni malavitose...per l'indice carente di tutti i servizi...per le dimensioni e l'inefficienza delle sue burocrazie, per la qualità disastrosa di quasi tutte le sue classi politiche...con un'atmosfera sociale ancora dominata ...dal familismo dai rapporti clientelari, dalla raccomandazione.

” Quali le cause? “Non è questione di risorse, afferma lo studioso, ma del venir meno dell'opera di omogeneizzazione culturale e dunque sociale che per un secolo l'esistenza dello Stato nazionale ha significato:” Questo il nocciolo di una tesi che viene poi variamente esemplificata a partire dalle recenti vicende della scuola (i cosiddetti  professori “deportati” ma anche la polemica che lo studioso romano ha condotto contro le modalità di svolgimento del recente concorso, in particolar modo per quanto riguarda gli insegnamenti di storia e filosofia) e delle Università meridionali. 

 Complice il “generale agosto” l'articolo non ha riscontrato l'attenzione che avrebbe meritato.  Ho avuto modo di leggere solo due reazioni (opposte anche se entrambe pubblicate su “la Sicilia”): un'anacronistica rivendicazione della mancata riparazione dei torti subiti dai siciliani da parte dei “conquistatori piemontesi”redatta da una firma storica del quotidiano catanese ed un'attenta ed intelligente analisi di Salvo Andò. Il costituzionalista giarrese, già dirigente del PSI e ministro della Difesa, sottolinea come i fenomeni degenerativi che investono il Sud sono solo quantitativamente maggiori che nel resto del paese ma sono composti della medesima sostanza.

E' l'Italia intera ad avere subito negli ultimi vent'anni un progressivo arretramento economico e sociale che ha allargato a dismisura, soprattutto in conseguenza della grande crisi iniziata nel 2008 il solco tra il Sud ed il resto del paese. Andò sottolinea l'opportunità di sfuggire alla tentazione di descrivere il Mezzogiorno come una landa omogeneamente desolata: assai più fruttuoso risulterebbe dettagliare l'analisi dando conto anche delle eccellenze che, nonostante tutto nelle nostre regioni esistono. Lettura certamente moderna che fa giustizia di un vecchio meridionalismo piagnone che ha tempo ha esaurito (ove mai l'abbia avuta) ogni sua funzione.

La tesi della sostanziale unicità dei problemi del sistema Italia è stata sostenuta da diversi autori (per esempio Gianfranco Viesti) e appare condivisibile. Su questo versante l'idea di Galli della Loggia del Mezzogiorno come sistema chiuso che si “condanna ad una grigia autarchia antropologica” non convince. In realtà il problema ha radici ben più profonde nel processo stesso di realizzazione  dell'unità e di costruzione dello stato nazionale.  

Secondo un altro storico, Paolo Macry, il modello di governance delineato dalla classe dirigente risorgimentale reggeva su una continua pratica di contrattazione tra governo e territori “attraverso un meccanismo informale di rappresentanza delle periferie e dei loro interessi ...(in sostanza)..il ceto politico nazionale offr(iva) alle periferie risorse in cambio di consenso”. Tale modello, tra alterne vicende attraverso perfino il ventennio fascista, ed entrò in crisi solo con la seconda metà del Novecento quando “i rapporti politici tra centro e periferie ...diventano insostenibili sul piano finanziario e strutturale e non riescono a produrre ed  allargare il consenso.

La conseguenza è che si modificano profondamente tanto i rapporti tra il centro e le periferie, quanto i rapporti tra le periferie avanzate e le periferie ritardate”. Se si utilizza questo schema, i due punti di cesura sono rappresentati dalla creazione della cassa del Mezzogiorno nel 1950, prima e forse unica operazione programmatoria che realizza in appena dieci anni il più importante ammodernamento delle infrastrutture fisiche e sociali del Mezzogiorno e l'attuazione nel 1970 della norma costituzionale sulle regioni. Non a caso, la crisi della Cassa è successiva alla legge di riforma del 1960 che riconsegna le scelte di politica industriale alla mediazione delle elites politiche territoriali e la vicenda della regioni a statuto ordinario  entra in crisi quando esse, anziché determinare un riassetto radicale dei poteri e delle funzioni tra  centro e periferie, finiscono per riprodurre moltiplicandoli i vizi dello stato accentrato.

 Dopo l'abborracciata riforma del titolo quinto della Costituzione nel 2001, i nuovi poteri assegnati alle Regioni si accavallarono con il progressivo scompaginamento del sistema politico conseguente a due fenomeni che avevano segnato gli anni Novanta del secolo scorso: la scomparsa dei grandi partiti nazionali e la personalizzazione delle leadership frutto anche dell'elezione diretta dei presidenti delle Regioni e dei sindaci. Andò coglie bene il vuoto di idee di lungo respiro e l'isterilimento della vita politica nei territori che hanno caratterizzato gli anni a noi più vicini.

A ciò si sono sommati il sorgere della cosiddetta questione settentrionale che ha distratto dal Sud interessi ed energie della politica nazionale e la scelta, compiuta da governi di diversi orientamenti politici, di risolvere il problema del finanziamento dello sviluppo del Mezzogiorno attraverso la “politica regionale europea”che ha avuto un ruolo importante ma spesso è diventata un alibi che i governi nazionali hanno utilizzato per sottrarsi alle proprie responsabilità. 

Su una cosa Galli ha certamente ragione: quello che lui definisce il frantumarsi nel localismo dello Stato nazionale sarebbe senza dubbio un dramma non solo per il Sud ma per l'intero paese.  Va tuttavia chiarito che non si tratta di tornare allo stato nazione che ha avuto un ruolo decisivo nella storia d'Europa ma anche  nelle tragedie del Vecchio Continente, quanto di ripensare la dimensione statuale nella chiave della costruzione di una nuova identità europea che è la vera scommessa su cui si gioca il futuro dei nostri figli.

 Esiste però un ruolo che lo stato può svolgere qui ed ora: quello di sforzarsi di essere promotore dello sviluppo attraverso una politica pubblica di  promozione della ricerca scientifica e dell'innovazione ed attraverso la costruzione di una domanda pubblica qualificata. E' il modo in cui la Germania di Schimdt una ventina anni or sono riuscì a rilanciare la propria economia e a far diventare una risorsa per la crescita lo shock della riunificazione. In una simile operazione il Sud diventerebbe non un problema, ma la principale risorsa per lo sviluppo dell'intera Italia.

E' proprio questa, purtroppo, la dimensione che ancora manca alla politica italiana e che l'asfittico dibattito politico si guarda bene dall'affrontare. Benvenuta allora la provocazione dello studioso romano,  se servirà a rimettere in moto una  macchina ferma per esaurimento fisico e mentale di coloro che dovrebbero condurla.

 di Franco Garufi

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