Il grande risiko: l’inarrestabile rotta di collisione tra le superpotenze
Con il termine risiko si indica un gioco da tavolo che si fonda sulla simulazione di un conflitto internazionale per il dominio del mondo, con complessi giochi di alleanze. Estensivamente, in ambito economico e politico, si ricorre alla parola risiko per indicare una complessa strategia di alleanze e scontri, in un quadro in evoluzione continua.
Archiviato il quadriennio delle sgradevoli pagliacciate di Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti recuperano il rapporto con gli alleati della Nato e con l’Unione europea mentre si fa ogni giorno più evidente che la competizione con la Russia e, soprattutto, con la Cina diventa conflittuale e potenzialmente esplosiva. Nel mondo pandemico, dove i vaccini diventano armi strategiche preziose per stabilire nuovi assetti e nuove alleanze, cosa sta maturando, cosa si profila all’orizzonte? Pechino e Washington andranno allo scontro? Quale sarà in questo contesto nei prossimi anni il ruolo della Nato? L’Unione europea fa una fatica tremenda a sintetizzare in una sola posizione 27 politiche estere diverse. Ebbene, nel braccio di ferro tra Stati Uniti e Russia, armati fino ai denti, l’Unione europea avrà voce in capitolo e peso politico-decisionale o resterà prigioniera dei distinguo e del conseguenziale mix di ritardo e immobilismo al quale la costringono gli stati aderenti quando si tratta di politica estera e di sicurezza?
Cercheremo risposte a questi interrogativi di cruciale importanza per il mondo nei prossimi anni, forse già nei prossimi mesi, attraverso la riproposizione di undici analisi tematiche appositamente selezionate. Tutte – tranne una – pubblicate su Affainternazionali.it, periodico dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), uno dei più accreditati think tank operanti in Italia su questi temi (chi firma questo articolo è “socio individuale” dello IAI). Dagli autorevoli contributi emerge non solo un aggiornamento che arriva fino ad appena qualche settimana fa, ossia al tour del presidente americano Buiden in Europa, ma anche un robusto apporto analitico su scenari in corso o che si aprono.
1.Gli Usa di Biden e la Russia di Putin? Sempre più ai ferri corti
L’ambigua relazione fra Trump e Putin è stata spazzata via dalla nuova amministrazione democratica americana. Con quali prospettive? Nona Mikhelidze, responsabile del programma “Europa orientale e Eurasia” dello IAI le ha passate in rassegna in un approfondimento intitolato “Con Biden le relazioni tra Usa e Russia sono destinate a peggiorare”. Occhio alla data della pubblicazione: 15 gennaio 2021. A sei mesi da quella analisi della ricercatrice di origini georgiane quasi tutte le previsioni stanno trovando conferma.
“Negli ultimi anni le relazioni tra Stati Uniti e Russia si sono progressivamente deteriorate a causa di diverse crisi cominciate con l’invasione russa poi con l’ancora vivo conflitto in Ucraina, la guerra ibrida del Cremlino contro l’Occidente, fino alla sua presunta interferenza nella politica interna e soprattutto nelle elezioni dei Paesi dell’asse transatlantico.
Nel 2014, gli Stati Uniti imposero sanzioni punitive contro la Russia, provando ad aumentarle e potenziarle di anno in anno, arrivando così a colpire il Nord Stream 2 – il gasdotto che porta gas dalla Russia alla Germania – nel 2019. “Il Congresso degli Stati Uniti è letteralmente sopraffatto dal desiderio di fare di tutto per distruggere le relazioni Usa-Russia”, commentò allora il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov.
La situazione è ulteriormente peggiorata dopo il caso Skripal nel 2018 e in modo simile, nei mesi scorsi, dopo l’avvelenamento di Alexey Navalny con l’agente nervino novichok. A fine 2020, poi, Washington ha affermato che un gruppo di hacker sostenuto dall’agenzia di intelligence russa Svr avrebbe effettuato un grave attacco informatico al governo federale degli Stati Uniti.
A fronte di questo contesto, quale potrebbe essere la politica estera degli Stati Uniti con Joe Biden alla Casa Bianca nei confronti della Russia? E come potrebbe rispondere Mosca?
La democrazia torna in agenda
“Inviterò i miei colleghi, i leader democratici di tutto il mondo a riportare il rafforzamento della democrazia nell’agenda globale… Vladimir Putin vuole credere, e farlo credere a chiunque altro, che l’idea liberale è ‘obsoleta’. Ma lo fa perché ha paura del suo potere”: parole di Joe Biden nell’editoriale-saggio “Why America Must Lead Again”, pubblicato l’anno scorso su Foreign Affairs, sostenendo inoltre che la lotta alla corruzione, la difesa dall’autoritarismo e la promozione dei diritti umani nel mondo saranno alcune delle principali priorità dell’agenda di politica estera della sua amministrazione.
I suoi alleati nella promozione della democrazia saranno non solo quei governi nazionali che la pensano allo stesso modo, ma anche e forse soprattutto le organizzazioni della società civile e gli attivisti per i diritti umani. In questo contesto, Biden ha promesso di “imporre costi effettivi alla Russia per la sua violazione delle norme internazionali e di stare con la società civile russa, che si è coraggiosamente schierata più volte contro il sistema autoritario cleptocratico del presidente Vladimir Putin”.
Nel campo della promozione della democrazia, la prima linea del “campo di battaglia” dove si fronteggeranno la nuova amministrazione statunitense e la Russia sarà estesa anche allo spazio post-sovietico e includerà almeno Ucraina, Bielorussia e Georgia.
Già come vice di Barack Obama, Joe Biden si era occupato delle relazioni Usa-Ucraina e aveva visitato il Paese in sei occasioni. Molto attivo nella promozione delle riforme anticorruzione, si è battuto con forza a sostegno dello stato di diritto. Durante la scorsa campagna elettorale, il democratico ha promesso di aumentare l’assistenza all’Ucraina, compreso il supporto militare. Quindi, ci si può solo aspettare un ulteriore consolidamento delle relazioni con Kiev non solo nella promozione della democrazia e nel processo di attuazione delle riforme, ma anche nel campo della sicurezza.
Sarà applicata una maggiore enfasi sulla democrazia anche in Georgia, dove è al potere un regime oligarchico, e in Bielorussia, al centro di mesi di continue proteste contro la dittatura di Aleksandr Lukashenko. Biden si è già espresso a sostegno del popolo bielorusso, criticando Mosca per aver aiutato l’autocrate a mantenere il potere.
Secondo Biden, dunque, e per sua stessa ammissione, la democratizzazione dello spazio post-sovietico “servirebbe da potente contro-esempio al dominio del governo cleptocratico e autoritario di Mosca e ne delegittimerebbe l’autorità sul lungo termine”.
La reazione di Mosca
Un Biden volenteroso di riportare la democrazia nell’agenda globale metterà però in bilico le relazioni tra Washington e Mosca. Già nel 2012, Putin si era convinto che l’Occidente si stesse preparando a rovesciare il suo governo e a porre fine alla sua leadership. E allo stesso modo ha condannato le “rivoluzioni colorate” nel vicinato russo e ha sostenuto che ci fosse Washington dietro gli eventi Euro-Maidan del 2013-2014, visti da lui solo come un colpo di Stato e un tentativo incostituzionale per far cadere il governo filo-russo di Kiev.
In generale, la promozione della democrazia da parte degli Stati Uniti è stata interpretata dal Cremlino come un’ingerenza americana nella sfera di influenza russa, imposta con l’obiettivo di stabilire far salire al potere governi filo-statunitensi e, successivamente, di innescare un cambio di regime anche in Russia. Di tutta risposta, Putin ha creato la propria narrativa attorno alla democrazia russa, che ha le proprie tradizioni di autogoverno e non è un’incarnazione di standard imposti dall’estero.
In vista delle imminenti elezioni parlamentari del 2021 in Russia – e dato il deterioramento del contesto socio-economico nel Paese -, il Cremlino ha già preso qualche cautela, iniziando a limitare la vita politica e le attività dei cittadini. Putin ha appena firmato un nuovo disegno di legge sugli “agenti stranieri”, per indicare come tali le ong, i media, i giornalisti e gli attivisti per i diritti umani che ricevono sovvenzioni dall’estero; tutte realtà sospettate di essere coinvolte “negli interessi di uno Stato straniero”. Con le nuove controverse restrizioni sono state imposte anche limitazioni alle manifestazioni pubbliche ed è stato criminalizzato anche il blocco delle strade in segno di protesta.
Un quadro cupo all’orizzonte
Così, mentre Joe Biden si prepara a guidare la comunità transatlantica nella promozione dei valori occidentali, il Cremlino inizia a irrigidire il proprio sistema autoritario. Considerando che nessuna delle due parti comprometterà i suoi principi e interessi geopolitici, ci si può solo immaginare un quadro cupo, pieno di crisi politiche e diplomatiche tra i due Paesi.
Detto questo, non si possono escludere collaborazioni e accordi occasionali. La proroga del Trattato New Start sulla riduzione delle testate nucleari di Usa e Russia, in scadenza nel febbraio di quest’anno, potrebbe essere il primo esempio”.
2.Se produci e distribuisci vaccini domini il mondo pandemizzato
Esiste una “geopolitica del contagio”. Gianluca Ansalone – manager del settore farmaceutico che in passato ha svolto incarichi istituzionali in Presidenza del Consiglio, Copasir, Presidenza della Repubblica, docente di Geopolitica nell’Università di Roma e Tor Vergata e al Campus biomedico – ne ricostruisce i percorsi in un saggio pubblicato il 25 maggio 2021. Titolo: “Vaccini, ricerca e salute sono i fili di una nuova cortina di ferro”.
“Due notizie stanno segnando in questa fase la corsa verso l’uscita dalla pandemia. La prima è concentrata in un numero: +18%, ovvero la crescita del Pil cinese nel primo trimestre del 2021. La seconda riguarda le dichiarazioni recenti di Anthony Fauci, il capo dei virologi americani e scienziato di fama mondiale, e dello stesso presidente degli Stati Uniti, Joe Biden.
Il primo ha dichiarato che non appena il Paese avrà raggiunto la nota “immunità di gregge” sarà pronto ad esportare i propri vaccini, privilegiando però non gli alleati tradizionali (della Nato, ad esempio), ma i Paesi a medio e basso reddito del pianeta. Gli ha fatto eco il comandante in capo definendo l’America “l’arsenale del mondo dei vaccini”.
Semmai ve ne fosse bisogno, siamo di fronte all’evidenza che questa pandemia, sotto il profilo strategico, è sicuramente paragonabile ad un conflitto, che il mondo va dirigendosi verso una divisione in sfere di influenza, così come accadde a Yalta, e che vaccini, ricerca e salute saranno i fili di una nuova cortina di ferro.
La domanda chiave è però la seguente: quale delle due notizie è più rilevante?
Affrontare la pandemia: Cina e Stati Uniti
La prima, ovvero l’impressionante ripresa economica cinese, ci parla di un Paese che ha messo in campo una serrata attività di monitoraggio dei contagi e di duro soffocamento dei focolai, associato ad una sofisticata narrativa anche mediatica e ad un’immediata proiezione di soft power sanitario globale, la cosiddetta “diplomazia della mascherina”. Ma Pechino, che punta ad usare la pandemia come un acceleratore nella ricerca del primato economico e strategico mondiale, ha ancora un gigantesco problema di solidità delle proprie armi scientifiche. Il mondo è già inondato dei due vaccini cinesi (Sinovac e Sinopharm, ndr) ma la loro efficacia è assolutamente discutibile e soprattutto la popolazione interna ha ancora tassi di immunità molto bassi.
Negli Stati Uniti, invece, siamo di fronte al primo passo della progressiva uscita dall’emergenza. Sotto il profilo sanitario ed economico la strada è ancora lunga. Ma la notizia del riallineamento totale tra scienza e politica, anche nella definizione degli interessi strategici, è degna di nota ed avrà implicazioni molto rilevanti per la ridefinizione del nuovo ordine globale.
La prima fase della pandemia ha infatti fatto emergere le capacità di reazione, tra loro molto diverse, tra le democrazie e le autocrazie. Le prime hanno visto andare in frantumi il già debole rapporto di fiducia tra politica, cittadini e scienza. I cittadini non hanno compreso le misure restrittive imposte dalla politica; la politica ha troppo spesso ignorato il rigore del metodo scientifico. E la scienza ha provato a rivolgersi direttamente ai cittadini con risultati altalenanti.
Vent’anni di crisi
Questo drammatico cortocircuito, già in atto ben prima che la pandemia di Covid-19 colpisse le nostre comunità, è forse la rappresentazione più efficace della difficoltà delle democrazie contemporanee, fiaccate ed indebolite da una sequenza impressionante di crisi in un lasso di tempo molto ristretto.
11 settembre 2001, crisi finanziaria del 2008 e la pandemia in cui siamo immersi sono crisi che vanno lette assieme e che disegnano la parabola di un’onda lunga di instabilità che porterà a breve ad una totale ridefinizione dei pesi geopolitici e delle aree di influenza. Sono crisi senz’altro diverse ma accomunate da almeno due elementi: la loro natura asimmetrica, ovvero di minacce non statali in grado però di produrre effetti sistemici simili a quelli di conflitti convenzionali, e la capacità di porsi come agenti politici di cambiamento sugli assetti interni e sulla mappa globale.
Oggi siamo immersi nella più grave crisi globale dal secondo Dopoguerra. Ne usciremo di certo. Grazie al progresso delle scienze saremo liberi da questo virus. Grazie al ruolo dell’industria farmaceutica potremo garantire questa libertà su scala planetaria. Grazie alla resilienza delle comunità umane avremo l’entusiasmo e la voglia giusta per ripartire.
Quale sarà la prossima minaccia?
Ma il mondo è già profondamente cambiato e ormai vent’anni del nuovo secolo ci dicono che dovremo affrontare nuove minacce e nuove crisi a distanza di pochissimo tempo. Cominciamo quindi ad occuparci della prossima. Già prima della pandemia eravamo immersi in cambiamenti strutturali che abbiamo fatto fatica a cogliere o che abbiamo preferito non vedere. Mai prima l’umanità aveva vissuto ben tre crisi sistemiche in appena un ventennio: l’11 settembre 2001, la crisi finanziaria del 2008, l’emergenza sanitaria del 2020/2021.
Sarà il salto di specie di un nuovo, potente virus? Se così sarà potremo almeno dirci pronti a gestirne l’arrivo e le possibili evoluzioni. Sarà un attacco cibernetico su vasta scala, in grado di mettere in ginocchio le nostre economie, la nostra società, la nostra sicurezza? Dobbiamo costruire un’alleanza globale per la smilitarizzazione del cyberspazio e per la difesa congiunta, sul modello della Nato.
Sarà l’implosione di alcuni modelli e l’inevitabile crisi sociale ed economica che colpirà soprattutto l’Occidente e le aree in via di sviluppo del pianeta dopo la pandemia? Dobbiamo pensare oggi a dare profondità strategica alle nostre decisioni, uscendo dalla logica insostenibile dei sussidi e creando le migliori condizioni per rendere i nostri territori competitivi ed attrattivi per i capitali, le merci, il sapere ed i talenti che torneranno a muoversi.
Sarà l’impatto della crisi climatica che già nel prossimo decennio potrà avere conseguenze devastanti non solo sull’ambiente ma anche sulla sicurezza delle Nazioni? Dobbiamo immediatamente creare un modello di adattamento a questo cambiamento ormai irreversibile e mettere in sicurezza i nostri sistemi, evitando di superare la soglia critica ed il punto di non ritorno di una catastrofe climatica su larga scala.
Sarà la competizione geostrategica delle autocrazie che, rinvigorite dalla debolezza delle democrazie fiaccate dal virus, approfitteranno per recriminare la leadership globale? Dobbiamo rafforzare i principi e modernizzare i sistemi democratici perché si dimostrino efficaci, competitivi e in grado di dettare l’agenda anche nel nuovo mondo.
Occorre riportare al centro il valore della competenza e la capacità di cogliere ed affrontare la complessità. Bisogna ricucire il rapporto di fiducia tra politica, scienza, cittadini e imprese.
Abbiamo appena combattuto una delle battaglie più dure e difficili della storia contemporanea contro un nemico invisibile. Se sarà servito ad affinare le armi della prevenzione, della cooperazione globale, della dissuasione e della compartecipazione di tutti, governi e cittadini, agli stessi obiettivi, allora questa crisi devastante non sarà passata invano. Viceversa, avremo solo ritardato il prossimo appuntamento con la Storia”.
3.L’Unione europea (prigioniera dell’unanimità delle decisioni) e la Russia. Passando per la Bielorussia
L’Unione europea fatica ad accreditarsi come un forte attore internazionale. Persino nei confronti della piccola Bielorussia che si permette un “dirottamento di Stato” di un aereo della irlandese - e quindi europea - Ryanair. L’analisi, del 26 maggio 2021, titolo “Non basterà il dossier Bielorussia a far diventare l’Ue un attore globale”, è firmata da Gianni Bonvicini, consigliere scientifico dello IAI.
“La bella addormentata si è risvegliata. Finalmente, nei confronti della Bielorussia e del suo dittatore Aleksandr Lukashenko, l’Ue ha agito con rapidità e ad “una voce sola”, come si usa dire in questi casi. D’altronde la mossa di Lukashenko di dirottare e fare atterrare forzatamente in Bielorussia un aereo di una compagnia irlandese, la Ryanair, in volo fra due capitali dell’Unione, Atene e Vilnius, è stato un atto talmente assurdo e criminale da non lasciare altra scelta ai capi di Stato e governo riuniti a Bruxelles se non quella di una dura condanna.
Con una buona dose di retorica la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha infatti definito il dirottamento come un “attacco alla sovranità europea”. Tutti i 27 leader Ue hanno quindi deciso di adottare nuove misure sanzionatorie nei confronti di esponenti politici e aziende bielorusse, nonché di vietare alla compagnia di bandiera Belavia sia il sorvolo che lo scalo nei Paesi dell’Ue e di richiedere agli operatori europei di non sorvolare lo spazio aereo bielorusso.
Naturalmente queste sono per ora solo le indicazioni di massima che il Consiglio europeo ha adottato sotto la forte pressione degli eventi. Occorreranno poi ulteriori passaggi negli altri organismi dell’Ue e nel Consiglio Affari esteri per rendere operative le misure. Ma la buona notizia, in ogni caso, è che l’Ue ha finalmente reagito. E non è cosa da poco, perché dietro l’azione criminale e la sfida di Lukashenko è facile intravvedere il sostegno della Russia, sia dal punto di vista operativo – con la sorveglianza ad Atene del dissidente giornalista Roman Protasevich, poi arrestato una volta atterrato in Bielorussia – sia e soprattutto dal punto di vista politico con un aperto sostegno al diritto del dittatore di Minsk di sopprimere la dissidenza nei suoi confronti. Un’abile operazione quella russa che tende a screditare Lukashenko agli occhi degli europei e allo stesso tempo renderlo sempre più dipendente da Mosca.
Vi è però da aggiungere che proprio la questione del dirottamento e dell’arresto di Protasevich ha finito con il rinviare il tema ben più delicato e divisivo delle relazioni (pessime) dell’Unione con la Russia, che pure era uno dei punti principali sul tavolo del Consiglio europeo. Si è infatti deciso di chiedere alla Commissione un rapporto sullo stato delle relazioni con Mosca, da discutere in una prossima occasione. Se quindi sul caso Protasevich l’Ue ha dimostrato compattezza e realismo, lo stesso non si può dire in tante altre occasioni.
Innanzitutto va sottolineato che la Bielorussia è un Paese di minimo interesse strategico ed economico per l’Ue e che i brogli elettorali delle elezioni dell’estate scorsa, seguite da furibonde repressioni della protesta, hanno reso indigeribile per tutti il regime dittatoriale di Lukashenko, già allora oggetto di pesanti sanzioni economiche e personali. Quindi era abbastanza facile muoversi sulla stessa linea di condanna.
Ciò tuttavia non riesce a nascondere la drammatica difficoltà dell’Ue di essere quel “global player” che la presidente della Commissione ha predicato fin dal primo giorno del suo insediamento e che si basa anche su numerosi documenti elaborati negli ultimi anni, ma mai realmente applicati nella realtà. In effetti, quando si tratta di prendere una semplice posizione comune su un fatto internazionale, gli ostacoli da superare sono molteplici.
È successo recentemente per una dichiarazione comune in favore del cessate il fuoco fra israeliani e palestinesi: è bastata la sola opposizione dell’Ungheria di Viktor Orbán per bloccarla. Ancora il premier di Budapest, da vera pecora nera dell’Ue, ha posto il veto su un’altra dichiarazione di condanna contro Pechino per le leggi liberticide su Hong Kong. Ma lo stesso è successo con Cipro, che l’anno scorso ha ritardato di ben tre mesi una condanna dell’Ue proprio contro Lukashenko per i brogli elettorali e per la repressione dell’opposizione. La ragione di Nicosia per questo rallentamento era quella ottenere dall’Ue analoghe sanzioni contro la Turchia per la sfida di Ankara nell’Egeo. Insomma, quale che sia la ragione, basta che un solo membro dei 27 ponga il veto o la sua minaccia per bloccare l’ambizione dell’Unione di giocare il ruolo di credibile attore internazionale.
Il guaio è che non è possibile avere una politica estera comune, se l’unanimità deve rimanere la regola principale. Neppure formule come quella della astensione costruttiva da parte di un paese, per lasciare che gli altri procedano uniti nelle loro decisioni, è mai realmente servita. La stessa Angela Merkel si è resa conto di questi limiti, tanto da proporre sia una specie di Consiglio di Sicurezza a rotazione fra Paesi membri per prendere decisioni più rapide e incisive, sia il ricorso al voto a maggioranza qualificata anche a livello di Consiglio europeo.
Insomma, per ora dobbiamo accontentarci della buona notizia di Bruxelles, ma è ben evidente che non sarà la Bielorussia a risolvere il problema di fondo dell’Ue di diventare davvero un attore globale in questo complesso e pericoloso mondo”.
4.Putin si annetterà di fatto la Bielorussia
Tra non molti mesi, qualche anno al massimo, Putin si annetterà di fatto la Bielorussia. Perché, come scrive il 26 maggio Nona Mikhelidze, “Lukashenko [è] nelle mani di Putin: Minsk dipende sempre di più dal Cremlino”.
“A giudicare dai numerosi commenti degli attivisti e della leader dell’opposizione bielorussa Sviatlana Tsikhanouskaya, l’operazione Ryanair sarebbe avvenuta con il coinvolgimento dell’intelligence russa. L’obiettivo del dirottamento dell’aereo di linea Atene-Vilnius su Minsk sarebbe stato quello di trasformare Aleksandr Lukashenko in un dittatore transnazionale che minaccia la sicurezza dei cittadini europei.
Il volo di Ryanair è stato affiancato da un Mig-29 dell’aviazione bielorussa e costretto ad atterrare a Minsk, rendendo la Bielorussia un Paese che minaccia la sicurezza nazionale e la stabilità internazionale dell’Occidente, che è chiamato a rispondere applicando una politica di pressione sistematica. Quella che Bruxelles credeva fosse una crisi interna all’improvviso si è trasformata in una crisi internazionale.
L’Europa non può quindi fare altro che rispondere duramente con sanzioni contro il regime, ma non solo. Le misure restrittive saranno applicate all’intera economia del Paese, mentre le conclusioni del Consiglio europeo del 24 maggio chiedono di attuare i provvedimenti necessari per vietare il sorvolo dello spazio aereo dell’Unione europea da parte delle compagnie di bandiera di Minsk, impedendo ai voli di queste compagnie di accedere agli aeroporti dell’Ue, e invitano gli operatori europei a non sorvolare lo spazio aereo bielorusso.
Un’operazione congiunta?
Bruxelles ha ovviamente chiesto il rilascio immediato di Roman Protasevich e della sua compagna Sofia Sapega. Ormai è diventata prassi che le sanzioni vengano utilizzate dall’Unione europea non come una misura strategica e preventiva, ma lo strumento per affrontare le crisi post-factum. L’assenza di una politica strategica dell’Ue verso la Bielorussia e la Russia, e più in generale la mancanza della fermezza sulle violazioni dei diritti umani nel mondo e nel suo vicinato, ha portato ad una percezione di impunità. Dopo il volo Malaysia Airlines 17, i vari avvelenamenti e le esplosioni dei depositi di armi sul suolo europeo ad opera intelligence straniere, il caso Ryanair non sorprende più.
Sembra infatti che questa sia state un’operazione congiunta dell’Fsb russo e del Kgb bielorusso, ha scritto su Twitter Ilya Yashin, una delle figure d’opposizione in Russia che cercando di candidarsi alle elezioni parlamentari di settembre. I sospetti di un’operazione congiunta si sono rafforzati dopo la notizia che quattro passeggeri del volo che da Atene si recava a Vilnius sarebbero sbarcati a Minsk senza mai ripartire per la Lituania.
La portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha accusato l’Occidente di ipocrisia, ricordando il caso dell’aereo del presidente boliviano Evo Morales, costretto ad atterrare a Vienna nel 2013 poiché si riteneva che a bordo ci fosse l’ex analista della Cia e collaboratore della Nsa statunitense Edward Snowden. In seguito il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha affermato che la Bielorussia ha trattato l’incidente con un approccio “assolutamente ragionevole”, invitando la comunità internazionale a “valutare la situazione con maggiore sobrietà”.
La presa di Putin
Al di là di ogni tipo di speculazione sul coinvolgimento russo e per non cadere in teorie complottiste, l’esito di questa vicenda ormai è chiaro: Lukashenko e la Bielorussia sono nelle mani di Putin, il quale porterà avanti una politica di maggiore integrazione del Paese nella sfera russa. Il cosiddetto Anschluss ora diventa più reale di quanto fosse qualche mese fa. Recentemente Lukashenko ha affermato che il dialogo sull’integrazione con la Russia sta procedendo a pieno ritmo.
Secondo il quotidiano russo Kommersant, Lukashenko e Putin hanno in programma un nuovo incontro venerdì 28 maggio. Kommersant cita diverse fonti riservate vicine a Minsk e al Cremlino che confermano che Lukashenko e Putin discuteranno dei piani di integrazione, ora chiamati programmi di unione.
La Bielorussia è già profondamente dipendente dal Cremlino e diversi dati dimostrano che nel 2021 i principali investitori nel Paese sono rappresentati da entità commerciali della Federazione russa. Le banche russe hanno elargito prestiti grazie ai quali sono stati investiti circa due miliardi di euro nell’economia bielorussa. Durante il primo trimestre del 2021, le esportazioni di merci bielorusse in Russia sono aumentate dell’8,3%, mentre le importazioni da Mosca sono aumentate del 32,7%. A causa della crescita prevalente delle importazioni il saldo negativo del commercio estero si è moltiplicato. Se nel 2020 era di -447 milioni di dollari, nei primi tre mesi del 2021 è arrivato -1373 milioni di dollari. Un aumento significativo delle importazioni ha portato quindi a un maggiore squilibrio nel commercio estero con la Russia.
La dipendenza di Minsk da Mosca – emersa da anni, ma rafforzata negli ultimi mesi e oggi ancor più dalla vicenda del volo Ryanair, per cui l’Ue sembra essere concentrata esclusivamente su come punire Lukashenko, senza considerare il fattore russo – che permette a Putin di portare avanti il processo di integrazione fra Bielorussia e Russia. E così anche alzare l’asticella in vista del prossimo summit con il presidente Usa Joe Biden, previsto a Ginevra il 16 giugno”.
5.I nuovi compiti su scala planetaria della Nato e i piccoli spazi dell’Italia
Approssimandosi il summit dei paesi della Nato a Bruxelles fissato il 14 giugno, il 5 giugno Alessandro Marrone, responsabile del programma “Difesa” dello IAI, scrive un articolo intitolato “L’Italia giochi a tutto campo nella partita per il futuro della Nato”.
“Il prossimo 14 giugno i capi di Stato e di governo dei Paesi Nato si riuniranno a Bruxelles per il primo summit alla presenza non virtuale di Joe Biden. L’incontro lancerà l’elaborazione di un nuovo Concetto Strategico, una partita importante per l’Alleanza che l’Italia dovrebbe giocare a tutto campo e non concentrandosi solo sul fianco sud.
Il Concetto Strategico in vigore è del 2010, ed è evidente la necessità di sostituirlo con un documento al passo con la realtà internazionale in una prospettiva decennale. Non a caso nel 2019 è stata lanciata l’iniziativa Nato2030, che ha visto anche l’elaborazione di un rapporto da parte del gruppo di esperti nominati dal segretario generale Jens Stoltenberg. Quest’ultimo sembra deciso a guidare l’elaborazione del nuovo Concetto Strategico, sfruttando il favorevole contesto transatlantico creato dall’insediamento dell’amministrazione democratica.
Dalle missioni fuori area alla trincea russa
Il documento del 2010 rifletteva all’epoca un ventennio di ambiziose operazioni di gestione delle crisi e stabilizzazione, dai Balcani all’Afghanistan, stabilendo tre core tasks: deterrenza & difesa, crisis management operations, e sicurezza cooperativa con un occhio ad allargamento, partenariati, e attività di controllo degli armamenti e non proliferazione. Un approccio apprezzato dall’Italia tradizionalmente attenta alla dimensione politica della Nato, e interessata ad un maggiore impegno alleato per la stabilità del Mediterraneo allargato tramite appunto missioni e partenariati.
La riflessione sul prossimo Concetto Strategico è oggi molto diversa. La deterrenza & difesa nei confronti della Russia è di fatto dal 2014 la priorità numero uno dell’Alleanza, sulla spinta di un consenso maggioritario tra gli alleati che va da Washington a Varsavia passando per Londra e Berlino. La prossima chiusura del ventennale impegno Nato in Afghanistan, costi quel che costi, sancisce politicamente e simbolicamente questo spostamento sostanziale dalle missioni alla trincea iniziato nel 2014.
La difesa dai cavalli di troia della Cina
Dal 2019 si è aggiunta all’agenda Nato la nuova priorità della Cina, identificata in modo bipartisan dall’establishment statunitense come il rivale mondiale numero uno. Un rivale che per l’amministrazione Biden va contenuto e contrastato serrando i ranghi dell’Occidente politico, dal Pacifico all’Atlantico. Ciò porta la Nato ad agire maggiormente nei domini cibernetico e spaziale dove è più forte e dirompente la corsa tecnologica. In particolare nel cyberspace vi è ormai da anni un continuo e crescente attrito attacco-difesa, parte di una più generale conflittualità sottotraccia e insidiosa – una sorta di guerra in tempo di pace.
Nell’ottica della “rivalità sistemica” con Pechino e Mosca delineata dal rapporto Nato 2030, va letta anche la rinnovata enfasi Nato sulla resilienza e la politica industriale e tecnologica, volta sia a preservare il vantaggio tecnologico delle Forze armate alleate, sia a ridurre la dipendenza da fornitori cinesi e l’influenza di Pechino sulle infrastrutture critiche dei Paesi alleati. Un’enfasi che sta portando la Nato a riflettere su standard anche nel campo delle telecomunicazioni chiaramente volti ad impedire cavalli di troia – cibernetici, tecnologici e finanziari – made in China, le cui allettanti offerte commerciali sono viste un po’ come i troiani più saggi vedevano il cavallo di legno secondo Virgilio: temo i greci anche quando recano doni.
La Cenerentola Mediterraneo e la partnership Nato-Ue
In questa agenda Nato la Cenerentola è il Mediterraneo allargato, così importante per l’Italia dalla sua dimensione marittima alla sempre maggiore presenza militare italiana in Sahel, Nord Africa e Medio Oriente. Che fare? Negli anni scorsi Roma ha investito ingente capitale politico e risorse militari per portare la Nato ad occuparsi maggiormente del fianco sud, ottenendo risultati non marginali, ma neanche pienamente soddisfacenti. Non sono in vista scarpette di cristallo per la Cenerentola mediterranea. Piuttosto, esistono una serie di limiti strutturali a quello che l’Alleanza può fare in Africa e Medio Oriente, e la radicata volontà degli Stati Uniti e della maggioranza degli Alleati di impegnarla ad est, dove è più efficace. Inoltre, i grandi Paesi membri più attivi a sud, ovvero Francia e Turchia, continuano a giocare la loro partita prevalentemente fuori dal quadro Nato.
Nel contesto dato, l’Italia dovrebbe da un lato insistere per massimizzare il limitato apporto che l’Alleanza può dare a sud, e dall’altro volgerlo realisticamente a sostegno di una maggiore proiezione militare europea, sia essa nel quadro Ue che tramite coalizioni ad hoc – in primis con Parigi – e azioni bilaterali. Una leadership Nato a est con un forte supporto dell’Unione, e viceversa una maggiore responsabilità europea a sud con un appoggio transatlantico, sarebbe la divisione del lavoro più realistica ed efficace per proteggersi a oriente e stabilizzare al meridione attuando una vera partnership strategica tra Nato e Ue.
Giocare le vere partite Nato
Allo stesso tempo, gli interessi italiani non si limitano al Mediterraneo allargato, ed è quindi necessario che l’Italia sia più attiva sui principali temi nell’agenda alleata non concentrando il proprio limitato capitale politico-militare solo sul fianco sud. Ad esempio per Roma è importante da molti punti di vista una ripresa del dialogo euro-atlantico con Mosca, a partire da non proliferazione e controllo degli armamenti, che dovrebbe andare di pari passo con una maggiore capacità delle strutture Nato di muovere assetti in Europa per dissuadere escalation russe.
In quanto seconda manifattura d’Europa, l’Italia ha tutto l’interesse a dire la sua sulla posizione Nato riguardo a politica industriale e tecnologica in chiave di resilienza. In particolare, nel campo spaziale Roma ha un’esperienza di oltre mezzo secolo ad alti livelli, mentre il dominio cibernetico rappresenta la nuova, combattuta frontiera da presidiare per la sicurezza nazionale. Trasversalmente ai vari dossier, la cooperazione Nato-Ue per l’Italia è un fattore abilitante che va ulteriormente sviluppato.
Il nuovo Concetto Strategico toccherà in varia misura tutti questi temi, molto più del Mediterraneo, e Roma dovrebbe giocare a tutto campo nelle vere partite Nato evitando la tentazione del catenaccio”.
6.La priorità degli Usa? La Cina. Europa e Nord Atlantico vengono dopo
Per gli Stati Uniti ogni mese che passa deve essere reso funzionale alla competizione/scontro con la Cina. La stessa Nato dovrebbe essere pronta a questa evenienza anche in teatri geograficamente così lontani. Certo, le frontiere dell’Europa non brillano per tranquillità ed anche di questo gli Usa sono chiamati ad occuparsi. A cominciare dall’incontro in agenda nella neutrale Ginevra, come ai vecchi tempi della Guerra Fredda, tra Biden e Putin. Mentre Pechino e Mosca – le due superpotenze autocratiche per definizione, epilogo del comunismo reale - stringono sempre più le loro relazioni non solo economiche ma strategiche e militari in funzione antioccidentale ed anti-paesi democratici. L’analisi, pubblicata l’8 giugno, dal titolo “Al via la tournée in Europa, ma le priorità di Biden non sono nel Vecchio continente” è firmata dal professore Stefano Silvestri che dello IAI è stato presidente per dodici anni.
“Dopo aver ricevuto i premier della Corea del Sud e del Giappone alla Casa Bianca, Joe Biden approfitta di una serie di grandi scadenze per venire a fare un giro in Europa. Venerdì, sabato e domenica parteciperà al G7 nel Regno Unito, il lunedì e martedì successivi sarà a Bruxelles, prima per il Consiglio Atlantico e poi per il vertice tra gli Usa e l’Unione europea, ed infine mercoledì farà un salto in Svizzera, a Ginevra, per incontrare in campo neutro Vladimir Putin. Cosa aspettarsi da tutto ciò?
Il risultato minimo, quello che tutti danno per scontato, ma resta comunque significativo, sarà la chiusura ufficiale dell’era Trump, che aveva portato i rapporti transatlantici sull’orlo della rottura. Ma sarà anche necessario guardare al futuro, e su questo le incertezze crescono. Il nuovo presidente americano intende mantenere e rafforzare la grande rete globale di alleanze, multilaterali e bilaterali, del suo Paese, ritenendo, a giusto titolo, che esse siano un grande patrimonio politico e un ineguagliabile moltiplicatore della forza americana. È però anche evidente che le sue priorità non sono in Europa.
A capo di un Paese politicamente spaccato in due, il normale funzionamento della democrazia americana (governata perlopiù dal centro, sulla base di accordi bipartisan) sembra ormai impossibile, limitando fortemente la capacità di conseguire grandi risultati e minando alla base la credibilità e la resilienza del modello americano. Il primo e più importante obiettivo di Biden è dunque quello di recuperare, almeno in parte, la tradizionale capacità del presidente di ottenere il necessario consenso del Congresso per le sue maggiori iniziative.
Questioni quali il futuro della democrazia e dello stato di diritto, il raggiungimento dei maggiori obiettivi ambientali e climatici, la lotta alla corruzione e in più in generale la riaffermazione dei grandi valori fondanti del sistema “occidentale”, a partire dai diritti umani, dipendono dalla capacità di Biden di penetrare l’attuale spaccatura ideologica e massimalista tra maggioranza e opposizione.
La seconda priorità di Biden è invece la Cina, una delle pochissime questioni sulle quali sembra esserci un certo livello di consenso bipartisan. Nessuno mette in dubbio il fatto che la Cina è ormai il grande rivale strategico degli Stati Uniti, anche se l’approccio di Biden è molto più articolato di quello scelto da Donald Trump. L’America conferma quindi lo spostamento del baricentro della sua politica internazionale dall’Atlantico al Pacifico, anche se rimane impegnata in Europa.
Le discussioni tra i leader del G7, nella pittoresca baia di St. Ives in Cornovaglia, consentiranno di comprendere meglio cosa esattamente Biden si aspetta dagli alleati, sul piano globale. Ma i primi segnali sembrano piuttosto rassicuranti, in particolare per l’Ue. La forte presa di iniziativa della titolare del dicastero del Tesoro americano, Janet Yellen, alla riunione dei ministri finanziari del G7, che ha portato all’accordo di massima sulla tassazione minima globale degli utili delle multinazionali è perfettamente nelle corde delle istituzioni europee, anche se vede l’opposizione di alcuni paradisi fiscali anche interni all’Ue. Per questa strada Washington contribuisce al necessario completamento del mercato unico europeo.
Analogamente ci si aspetta un nuovo impulso per fissare più ambiziosi obiettivi di politica ambientale, in linea con le iniziative delineate in ambito europeo. Queste linee di azione rientrano per Biden all’interno di un comune discorso ideale sul modello democratico “occidentale”, a volte semplificato con lo slogan di “Lega delle democrazie” in competizione con il modello autoritario promosso dalle grandi potenze “eredi” del comunismo come la Russia e soprattutto la Cina.
Questa impostazione potrebbe creare qualche problema ad un’Europa troppo concentrata solo sulla difesa dei suoi interessi commerciali, che certamente includono sia la Russia (specie nel settore energetico) sia la Cina un po’ ad ogni livello delle catene produttive e commerciali. Anche in questo caso, però, la linea della Casa Bianca sembra piuttosto prudente. Così, ad esempio, Biden sembra aver rinunciato a chiedere la chiusura del gasdotto Nord Stream 2, privilegiando il mantenimento di buoni rapporti con Berlino (magari anche con l’aspettativa di una scelta di dipendenza decrescente della Germania dalle esportazioni russe che renda il gasdotto molto meno importante, economicamente e politicamente). Più significativa sembra invece la pressione per ridurre la dipendenza europea dalla tecnologia e dai capitali cinesi. Ma anche in questo caso le preoccupazioni americane trovano una eco crescente in Europa, in particolare dopo aver constatato la propensione cinese ad usare politicamente il ricatto economico per ostacolare le decisioni comuni europee.
Nel complesso, quindi, dovremmo aspettarci una serie di incontri produttivi che, se accompagnati da una analoga disponibilità al dialogo da parte europea, dovrebbero risanare le fratture del precedente quadriennio e rimettere i rapporti transatlantici in carreggiata. Rimane però un dubbio non indifferente, e non fa centro a Pechino, quanto a Mosca (ed in misura minore ad Ankara).
L’Europa ha a che fare con una periferia e delle frontiere, ad est e a sud, molto agitate e complesse, da cui arrivano notevoli rischi e minacce, nonché problematiche (come quelle migratorie, del controllo delle crisi e dei diritti umanitari) di difficile gestione. In quest’area è molto attiva la Russia, in primo luogo militarmente, e cresce l’iniziativa indipendente di alcune potenze regionali, come la Turchia, molto restie, se non del tutto contrarie, a fare “gioco di squadra”. Purtroppo queste sono anche le aree che vedono il maggior disimpegno americano, confermato dall’attuale presidente. Ma sono anche aree da cui l’Europa non può realmente isolarsi e che quindi richiedono un qualche chiarimento con Washington.
Di cosa parleranno Biden e Putin a Ginevra? Questo è forse il maggior interrogativo di questa visita europea del nuovo presidente americano. Non sembra che Biden voglia tentare una molto improbabile manovra di distacco di Mosca da Pechino o altre manovre di riavvicinamento ad un leader che ha qualificato come “assassino”. Certamente affronterà il tema del controllo degli armamenti nucleari e forse anche quello, su cui Russia e Usa sono in largo accordo, della non proliferazione nucleare (e quindi anche dell’Iran e della Corea del Nord).
Ma sul piano politico più generale, dall’Ucraina al Caucaso, dalla Siria alla Libia, cosa si diranno? Quali che siano le loro posizioni, le conseguenze dovranno essere gestite dall’Europa”.
7.Obiettivi degli Usa
Ancora una analisi su strategie e aspettative della nuova amministrazione americana nella missione in Europa di Biden del mese scorso (G7 in Cornovaglia – vertice Nato a Bruxelles – Vertice Ue-Usa - Bilaterale con Putin a Ginevra) nella valutazione dell’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dello IAI (“Dal G7 all’Ue passando per la Nato: una missione per rilanciare il multilateralismo”, 9 giugno 2021).
“Nel suo primo viaggio all’estero, il presidente americano Joe Biden sarà impegnato per circa una settimana in Europa, a partire dal 10 giugno. Il lungo periplo europeo è solo in parte una scelta imposta dal calendario di alcuni incontri internazionali. Corrisponde però anche al desiderio del presidente americano di restituire centralità all’Europa nella nuova agenda di politica estera americana.
In un articolo a sua firma uscito qualche giorno fa sul Washington Post, Biden ha sinteticamente indicato le sue aspettative per i vari vertici in cui sarà impegnato in Europa. Con il suo incontro con il primo ministro britannico Boris Johnson alla vigilia del G7, Biden si propone di rilanciare la “relazione speciale” con il Regno Unito dopo la Brexit. Con la partecipazione al Vertice del G7 in Cornovaglia, il presidente americano intende valorizzare il ruolo delle maggiori democrazie del mondo e consolidare alcune significative convergenze su un certo numero di sfide globali: dal rilancio dell’economia su basi sostenibili nella fase post-Covid al contrasto del cambiamento climatico, dalla lotta alle pandemie alla tassazione delle multinazionali.
Il Vertice della Nato a Bruxelles sarà l’occasione per confermare l’impegno americano sulla perdurante validità dell’articolo 5 del Trattato e sulla sicurezza degli alleati, ma anche per sensibilizzare gli europei sulle priorità americane (i rapporti con la Cina e le nuove minacce non convenzionali). L’incontro con i vertici delle istituzioni dell’Unione europea dovrebbe consentire di verificare solidarietà e convergenze sulle sfide globali e sui rapporti con Pechino e Mosca. E infine il vertice bilaterale di Ginevra con il presidente russo Vladimir Putin, l’incontro che riserva maggiori incognite, servirà per verificare se e in quali condizioni si potrà proseguire nei confronti della Russia sul doppio binario della deterrenza e del dialogo.
Per Biden, quindi, una lunga missione in Europa all’insegna del rilancio del dialogo e del multilateralismo e di un ritrovato rapporto con gli europei. L’idea di fondo di questa prima uscita sulla scena internazionale di Biden è quella di trasmettere un chiaro e rassicurante messaggio: dopo la parentesi destabilizzante dei quattro anni di Trump alla Casa Bianca, gli Usa sono tornati a fare la loro parte e ad assumersi le loro responsabilità sulla scena internazionale, in un quadro di dialogo e concertazione con i partner naturali dell’America.
Difficile però attendersi risultati spettacolari, anche perché in certe occasioni i contatti personali e la stessa partecipazione in persona contano più delle conclusioni (che vengono negoziate minuziosamente e in anticipo). Non sarà neppure tutto in discesa. E non mancheranno temi controversi o questioni su cui la piena sintonia con gli europei è ancora da realizzare.
Al G7, ad esempio, si confermerà l’impegno per una tassa minima globale sui profitti delle grandi multinazionali. Ma le difficoltà verranno in seguito quando si andranno a definire i dettagli (ancora problematici) di questo solenne impegno di principio. E quando soprattutto si cercherà di estendere l’accordo (per ora solo di principio) ad altri Paesi finora non coinvolti nella intesa. Sempre al G7, in materia di cambiamento climatico si potrà registrare il ritorno degli Usa negli Accordi di Parigi; e non dovrebbe essere troppo complicato in quella sede concordare obiettivi ambiziosi. Ma la vera sfida sarà quella di coinvolgere su questi obiettivi altri grandi Paesi non membri del G7, ma responsabili di significative quote di emissioni di carbonio; o di trovare convergenze in materia di distribuzione dei costi della transizione energetica.
Il Vertice della Nato potrà prendere atto con soddisfazione del rinnovato impegno americano in materia di sicurezza collettiva dell’Alleanza; e dovrebbe senza difficoltà concordare un mandato per l’elaborazione di un nuovo “concetto strategico” per l’Alleanza, che tenga conto del nuovo contesto internazionale e delle nuove sfide non convenzionali (dalla sicurezza cyber, all’intelligenza artificiale alle guerre informatiche). Potrebbe essere più problematico convincere gli alleati europei ad assumersi pienamente le loro responsabilità in materia di difesa e di relativi bilanci. E resta da verificare quanto Biden voglia utilizzare anche la Nato per coinvolgere gli europei in una strategia condivisa di contenimento della Cina; e quanto gli europei si manifestino disponibili a coinvolgere la Nato in un confronto a tutto campo con la Cina.
Nell’incontro con i presidenti del Consiglio europeo e della Commissione verrà certamente riconosciuto che il dialogo con questa Amministrazione americana è più facile e costruttivo che con la precedente. E che i risultati già cominciano a vedersi, ad esempio con le ritrovate convergenze sul cambiamento clima, sul ruolo del Wto, o sulla tassazione delle grandi società. Ma tra Bruxelles e Washington restano differenze di sensibilità su vari temi. Sui contenziosi commerciali siamo in presenza di una tregua più che di una accordo vero proprio. Cina e Russia sono considerate in Europa Paesi complessi e sfidanti, distanti anni luce in tema di valori e principi, ma anche partner economici importanti e interlocutori non rinunciabili per crisi regionali e sfide globali. E gli europei restano scettici sull’idea, cara a Biden, di un fronte unito (o di una stabile alleanza) delle democrazie contro le autocrazie. Permangono poi divergenze sulla sospensione dei brevetti sui vaccini, e diffidenze reciproche in materia di regolamentazione di tecnologie digitali e “disruptive”, e di intelligenza artificiale.
Ma sarà il bilaterale con Putin a costituire l’occasione più impegnativa per Biden; e le premesse lasciano poco spazio ad ottimismi di facciata. Il trattamento delle opposizioni interne, il sostegno al regime autoritario di Lukashenko, l’assenza di progressi sul conflitto nelle province orientali dell’Ucraina, le interferenze russe su processi democratici interni negli Stati Uniti, sono state occasioni anche recenti di scontro con Mosca, e sono altrettante conferme della distanza che separa la Russia di Putin dagli Stati Uniti (e dall’Occidente più in generale). Difficile accreditare eccessive aspettative per questo incontro.
Ma sarà comunque importante che i due presidenti si vedano, evitino che le divergenze su questioni di principio blocchino il dialogo, e magari riescano a concordare un’agenda minima di impegni di reciproco interesse: dall’avvio di una interlocuzione sulla stabilità strategica, ad una ripresa dei negoziati su disarmo e controllo degli armamenti nucleari (a partire dall’incerto destino dell’Accordo Inf); dalla definizione di un percorso che consenta di conferire maggiore stabilità e prevedibilità alle relazioni bilaterali complessive, all’impegno per una maggiore collaborazione su crisi regionali e sfide globali”.
8.La definitiva “centralità” dello scacchiere indo-pacifico e la Cina “minaccia numero uno”
In contemporanea con la puntata in Europa di Biden il segretario americano alla Difesa John Lloyd Austin notifica una direttiva al Pentagono il cui testo mette nero su bianco che per gli Stati Uniti la Cina costituisce la principale minaccia. Quasi una sorta di proclama, di chiamata alle armi. L’analisi di Gianluca Di Feo su “La Repubblica” il 9 giugno 2021. Titolo: “Usa, il Pentagono: la Cina è la minaccia numero uno”.
“La guerra globale contro il terrorismo è archiviata. Adesso l'America ha un nuovo nemico contro cui concentrare la sua preparazione militare: la Cina. Lo ha decretato il segretario alla Difesa, John Lloyd Austin con una direttiva trasmessa al Pentagono: un documento che dichiara Pechino "la minaccia numero uno".
È un passaggio epocale, che segna formalmente il cambiamento di un'era. Isis, Al Qaeda, Iran e persino la Russia di Putin passano in secondo piano. D'ora in poi l'attenzione del Pentagono sarà focalizzata sull'Estremo Oriente. Le ricadute geopolitiche, soprattutto sull'Europa, saranno significative e tutte da valutare. "Lo sforzo che ho richiesto - ha dichiarato l'ex generale Austin - aumenterà la capacità di rivitalizzare la nostra rete di alleati, rendere più forte la deterrenza e accelerare lo sviluppo di nuovi concetti operativi, dello schieramento dei reparti e di una più moderna forza militare e civile". Tutto in funzione di ostacolare la crescita della potenza cinese.
In pratica, il segretario della Difesa ha fatto sue le conclusioni della Task Force China, creata per valutare la trasformazione del complesso militare di Pechino e quanto sia diventato pericoloso per l'interesse nazionale statunitense. Arrivando alla conclusione che il futuro della sicurezza americana dipende completamente dal confronto con la Cina.
Il testo del documento è segreto. Ma dal Pentagono fanno sapere che i primi effetti riguarderanno le alleanze, con la definitiva centralità dello scacchiere indo-pacifico. D'ora in poi accordi, forniture ed esercitazioni saranno soprattutto in quell'area, con l'obiettivo di recuperare lo svantaggio accumulato nei venti anni di impegno contro il terrorismo islamista. Nazioni come Singapore, Malesia, Giappone, Corea del Sud e soprattutto l'India diventano strategiche, mentre verranno rivitalizzati i rapporti storici con Australia e Nuova Zelanda. Ovviamente, a beneficiarne di più sarà Taiwan, che potrebbe recuperare il ruolo di partner preferenziale tramontato dagli anni Ottanta in poi.
Ci sarà poi una revisione completa delle tattiche, per affrontare le nuove dimensioni della sfera militare. Ad esempio, le operazioni cyber e quelle di "guerra elettromagnetica" che andranno a fare parte di una dottrina integrata. L'America ha capito che non bastano mezzi moderni ma servono idee e modi diversi di concepire l'azione militare. Questo perché la Repubblica Popolare ha non soltanto migliorato e accresciuto le sue forze armate ma ha elaborato una visione innovativa nell'approccio ai conflitti.
Per questo viene richiesta anche una "rivoluzione culturale". La direttiva prevede che tutta la formazione dei militari venga rivista in base a questa priorità: dall'addestramento allo sviluppo delle carriere. Niente più corsi di arabo e centri studi sulla cultura islamica, basta con i poligoni che simulano i villaggi iracheni e i corsi contro le "bombe improvvisate" dei miliziani. Si tornerà alle manovre campali di intere divisioni, con un coordinamento sempre più forte tra Esercito e Marina. Non a caso, i primi ad essere stati convertiti alla nuova missione sono i Marines, che stanno radicalmente cambiando l'organizzazione dei reparti tornando al compito di "truppe da sbarco", passando dai deserti che le hanno viste in azione dal 1991 agli atolli dove combatterono i loro nonni.
Impossibile prevedere quale sarà la reazione di Pechino. Di sicuro, la direttiva aumenterà la tensione nel Pacifico, aumentando il pericolo di incidenti. Il presidente Biden però è disposto a correre il rischio di un'escalation. Davanti ai soldati Usa della base inglese di Mildenlhal, negli stessi minuti in cui veniva diffusa la decisione del Pentagono, ha dichiarato: "L'America è tornata e le democrazie sono unite per affrontare le sfide del futuro".
9.Schiarite nelle relazioni tra Usa e Ue (affossate da Trump) e la Nato che rinasce
Un consuntivo dei contatti in Europa del presidente Biden nell’approfondimento del 16 giugno a firma di Gianpiero Gramaglia, consigliere scientifico dello IAI. Titolo: “Biden l’europeo: dalla pace Ue-Usa alla Nato risorta”.
“Una Ue in pace (con gli Usa) e una Nato che pareva da rottamare “rinata”: il bilancio dello “sbarco in Europa” da presidente di Joe Biden è largamente positivo. Dopo 17 anni di contenziosi – c’era George W. Bush alla Casa Bianca quando il conflitto cominciò, tra dazi e compensazioni – è tregua nei cieli tra Unione europea e Stati Uniti: Bruxelles e Washington sospendono la guerra dei sussidi ad Airbus e Boeing. Ricevendo il presidente Biden, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si mostra fiduciosa che l’intesa appena raggiunta preluda all’archiviazione d’un altro annoso e ricorrente conflitto commerciale transatlantico, quello sull’acciaio.
Mettendo il conflitto in naftalina per cinque anni, Usa e Ue si prendono il tempo per negoziare: è quanto basta per accantonare il timore che, come già avvenuto in passato, Bruxelles e Washington continuino a penalizzarsi a vicenda, imponendo dazi e compensazioni su beni di ogni tipo, dal vino e dai prodotti agro-alimentari italiani e francesi alle moto Harley-Davidson.
Nulla di essenziale: punture di spillo, ma fastidiose. Dandosi cinque anni, inoltre, l’Amministrazione Biden e l’attuale Commissione europea si mettono al riparo dal riacutizzarsi dei contenziosi: la tregua durerà fin oltre i loro confini temporali; se la pace non sarà stata suggellata prima, chi ci sarà vedrà.
I due messaggi di Biden l’europeo
Il senso è che Usa e Ue non hanno energie da perdere in beghe reciproche. Alla sua prima missione europea, il presidente Biden ha detto e ripetuto ai suoi interlocutori, partner e alleati, che i rivali sono altri e sono comuni: Russia e Cina, soprattutto quest’ultima, che s’accinge a diventare la prima potenza economica mondiale e che ha atteggiamenti espansionistici, non solo commerciali, ma anche diplomatici e militari.
La posizione dei 27 verso Pechino è meno ostile di quella degli Usa, ma c’è intesa sul fatto che le differenze sui valori – libertà, democrazia, diritti umani – sono profonde, anche se può esserci spazio per la collaborazione, ad esempio sulle questioni commerciali e nella lotta contro il riscaldamento globale.
Dal G7 sulle spiagge della Cornovaglia ai Vertici della Nato e con l’Ue a Bruxelles, Biden dà due semplici messaggi: il primo è rassicurante, “l’America è tornata”, il clima è cambiato, non è più l’ora delle sfuriate di Donald Trump contro il multilateralismo e contro gli alleati, roba da ‘divide et impera’; il secondo è combattivo, “Abbiamo nuove sfide, la Russia e la Cina”, che poi sono – a ben vedere – le sfide di sempre. Alla Russia di Vladimir Putin, Biden dedica l’ultima tappa del viaggio europeo, a Ginevra. La Cina di Xi Jinping, cerca di arginarla con un cordone di sicurezza.
L’Alleanza atlantica, un’araba fenice
L’hanno data per morta a più riprese, ma, 72 anni dopo, la Nato è sempre lì, la più lunga alleanza militare della storia – “e la più forte”, dice il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi -. Firmato a Washington il 4 aprile 1949, il Trattato dell’Atlantico Nord unisce Stati Uniti e Canada con i loro alleati europei. Vinta la Guerra Fredda, metaforicamente ‘neutralizzati’ in rapida successione Unione Sovietica, Patto di Varsavia e Comecon, la Nato pareva avere esaurito i suoi compiti. Negli Anni Novanta, però, le guerre nei Balcani, le missioni umanitarie, le operazioni ‘fuori zona’ le hanno fornito ragioni per restare in vita; e, dopo l’11 settembre 2001, quando per la prima e finora unica volta scattò l’articolo 5 del Trattato, è cominciata la “guerra al terrorismo”. L’articolo 5 vincola gli alleati alla mutua difesa in caso di attacco a uno di loro.
Con l’avvento di Trump alla presidenza, la rottamazione dell’Alleanza apparve, però, un’ipotesi non remota: il magnate, intollerante del multilateralismo, martellava gli alleati perché spendessero di più per la difesa e male sopportava i vincoli dell’articolo 5, che, invece, Biden dichiara ora “solidissimo e incrollabile”.
Forse, la Nato non avrebbe resistito ad altri quattro anni di Trump. Biden, invece, le ridà vitalità e fiducia e, soprattutto, quello di cui un’alleanza militare ha bisogno: un nemico, anzi due, la Russia e la Cina. “La Nato è importantissima: se non ci fosse, la si dovrebbe inventare”, dice il presidente americano al segretario generale Jens Stoltenberg.
Una Ue complementare ma con leader a termine
Al tavolo della Nato, lunedì, s’è parlato di Russia, Cina, cyber-sicurezza, cambiamento climatico. Temi analoghi, più le questioni commerciali, martedì, al tavolo dell’Ue. Biden scopre le carte: “Penso che abbiamo grandi opportunità di lavorare strettamente sia con l’Ue che con la Nato. C’è un predominante interesse degli Usa ad avere ottimi rapporti” con entrambe. Funzionari e diplomatici gongolano. I progetti di ‘Europa della Difesa’, cui le mattane di Trump davano concretezza, sono già tornati nei cassetti: c’è il virus da debellare, l’economia da rilanciare, il Next Generation EU da realizzare; difesa e sicurezza non sono questioni prioritarie, se l’alleato è questo qui.
Gioca a favore di Biden anche il fatto di essere l’unico, fra i Grandi, a essere certo del posto fra un anno: Angela Merkel è al passo dell’addio, Emmanuel Macron è atteso dalle presidenziali della primavera 2022, Draghi ha le incognite delle scadenze della politica italiana. ‘Uncle Joe’ e von der Leyen sono i perni della nuova alleanza tra Usa e Ue.
Intervenendo alla Nato, proprio Draghi rileva il ruolo centrale dell’Alleanza atlantica nella difesa e nella sicurezza europea, prospettandone “un rapporto complementare” con l’Unione europea: Nato e Ue – afferma Draghi – si rafforzano a vicenda, la coesione della Nato è una garanzia collettiva, lo spettro d’azione dell’Alleanza deve essere ampio e uno dei focus deve esserne il Mediterraneo.
Biden incassa gli attestati d’atlantismo di Draghi e di molti altri leader. E cerca di arginare la fretta di Polonia e Paesi Baltici per l’adesione alla Nato dell’Ucraina – il presidente Volodymyr Zelensky assicura che “Kiev dimostra ogni giorno di essere pronta” -: un’accelerazione in tal senso sarebbe pessimo viatico agli sviluppi delle relazioni con Mosca. Solo quel guastafeste del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che si lamenta di non avere ricevuto appoggio nella lotta ai terroristi, come lui chiama i suoi oppositori, rovina un po’ il clima”.
10.La Nato nei prossimi dieci anni
Quale sarà la proiezione strategico-militare della Nato nel decennio da poco iniziato? Ne scrive il 16 giugno, con il ricorso a parecchie originali metafore calcistiche, evidentemente ispirate dagli Europei che si giocano negli stadi, Alessandro Marrone in un focus intitolato “Nato 2030: la partita comincia adesso”.
“Il primo vertice Nato con il presidente Usa Joe Biden ha segnato il calcio di inizio della partita sul futuro dell’Alleanza nel prossimo decennio, con l’agenda Nato 2030 e l’avvio ufficiale dell’elaborazione di un nuovo Concetto Strategico da approvare nel prossimo summit previsto in Spagna nel 2022.
L’amministrazione Biden ha portato ad un rilancio delle ambizioni Nato e ad un consolidamento della rete di alleanze, anche tramite il G7 nel Regno Unito, che sta aprendo una riflessione su un nuovo adattamento dell’Alleanza. E la circostanza degli Europei di calcio offre alcune buone metafore per comprendere con un pizzico di ironia l’attuale situazione euro-atlantica.
Con la Cina si parte dal catenaccio…
Lunedì 14 giugno a Bruxelles è diventato chiaro che la squadra degli alleati giocherà un campionato lungo e difficile con avversari in ottima forma come la Cina, che gode di grandi risorse economiche, una forte coesione interna ed una tattica di gioco consolidata. La serie di passaggi cinesi in campo spaziale, cyber, ed in generale tecnologico e industriale, mira a sfiancare l’avversario mantenendo la propria rete inviolata.
A Bruxelles la Nato ha iniziato a riflettere sul proprio modello di gioco con Pechino, e non è giunta a una conclusione definitiva. Il nuovo Concetto Strategico servirà anche a prendere le misure dell’avversario, anzi del rivale sistemico, e a valutare diverse opzioni. In primo luogo c’è il catenaccio, ovvero la difesa del proprio vantaggio tecnologico dalla penetrazione cinese puntando sulla resilienza dei singoli giocatori. Ma qui la responsabilità è a livello dei singoli Paesi, dove si decidono gli investimenti e le normative, e dell’Unione europea. In ogni caso l’allenatore – il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg, ed il capitano – il leader Usa Biden – certamente sproneranno gli Alleati ad avere una difesa all’altezza, specie sui fianchi da dove arriveranno attacchi indiretti ma insidiosi, e la Nato diventerà sempre più il forum dove si discute la strategia anche su questi aspetti.
… per puntare sulle ali nell’Indo-Pacifico
Al tempo stesso, rispetto a Cina e Russia, il vertice di Bruxelles ha rilanciato fortemente anche un’idea di alleanze globali, un lavoro ai fianchi in tutta l’area del cosiddetto “Indo-Pacifico” – termine entrato recentemente e velocemente nel dibattito euro-atlantico. Il comunicato finale del vertice auspica vecchi e nuovi partenariati, nominando esplicitamente Asia, Africa e America Latina, in nome di un sostegno globale all’ordine internazionale basato sullo stato di diritto.
Si tratta di uno schema di gioco più offensivo in termini politici, diplomatici e simbolici, ma non militari, volto a riaffermare e promuovere un modello occidentale fatto di diritti umani, democrazia e rispetto del diritto internazionale. Un modello che motivi alleati e partner culturalmente affini dentro e fuori l’area euro-atlantica, in alternativa al modello autoritario rappresentato da Pechino e Mosca. Insomma, si punta anche sulle ali destre e sinistre contando che prima o poi qualche cross al centro vada in rete.
Con la Russia non basta palla lunga e pedalare
La Russia è l’altra testa di serie del campionato che giocherà la Nato nel prossimo decennio. La squadra di Mosca è ben nota agli alleati da oltre 70 anni, eppure riesce spesso a sorprendere cogliendo in contropiede, segnando in zona Cesarini, e quando è alle strette salvandosi in calcio d’angolo. Il capitano Vladimir Putin è un veterano delle partite con la Nato, e spesso dimostra un buon possesso di palla mantenendo l’iniziativa dalla Bielorussia al Mediterraneo passando ovviamente per l’Ucraina. Dal 2014 la Nato ha dovuto sostanzialmente ricorrere al vecchio motto “palla lunga e pedalare” per recuperare una partita iniziata malissimo.
Anche qui la squadra alleata con il nuovo Concetto Strategico dovrebbe rivedere lo schema di gioco. Se i big match del prossimo decennio sono con la Cina, vale davvero la pena sfiancarsi con i contrasti molto fisici e fallosi della Russia? O non è il caso di fare melina e puntare a un pareggio con Mosca che alla fine può andare bene a tutti?
Fuor di metafora, fermo restando la ferma condanna occidentale delle azioni russe e la solidità della deterrenza e difesa degli stati membri Nato da qualsiasi attacco o anche solo intimidazione russa, è davvero il caso di insistere sull’avvicinamento di Kiev all’Alleanza atlantica come fatto anche nel summit di ieri? Non sarebbe meglio puntare gradualmente ma con costanza ad un accordo complessivo sulla sicurezza pan-europea in cui ad esempio un’Ucraina neutrale rappresenti un elemento di stabilità e sicurezza per sé, la Nato e la Russia? Un accordo del genere potrebbe essere facilitato da intese settoriali su controllo degli armamenti convenzionali e nucleari e sulla non-proliferazione, e tale processo avrebbe il duplice vantaggio di ridurre la tensione sul fianco est e di smettere di spingere la Russia ad allearsi e allenarsi con la Cina.
Cambiare schema di gioco sul Mediterraneo
Nel comunicato finale del vertice il Mediterraneo allargato è trattato in pochi punti, non tra i primi, ed in termini non incisivi – a parte la conferma dei progressi dell’hub per il sud di Napoli fortemente voluto dall’Italia.
Al di là dell’ermeneutica del testo, il comunicato ed il vertice riflettono il graduale disimpegno americano dal Nord Africa e Medio Oriente – vedasi ritiro dall’Afghanistan – iniziato da Obama e Trump per concentrarsi sulla Cina. E riflettono anche la priorità data dai tanti alleati del nord ed est Europa alla Russia, nonché la radicata tendenza di Francia e Turchia a giocare le proprie partite nazionali a sud fuori dal quadro Nato.
Tutto ciò richiede sempre più all’Italia un doppio cambio di passo. Da un lato, giocare a tutto campo nell’agenda Nato su temi quali Russia, controllo degli armamenti, spazio, cyber, resilienza, politica industriale e tecnologica, perché impattano fortemente e a vari livelli sugli interessi nazionali.
Dall’altro lato, lavorare per la stabilizzazione del Mediterraneo allargato sia in ambito Nato, nei limiti strutturali dati, sia e soprattutto in ambito europeo, tramite l’Ue e formati ad hoc, perché una cooperazione Nato-Ue a trazione europea è l’unico schema di gioco con cui si potrà portare a casa qualche risultato.
11.Le “relazioni pericolose” tra Russia e Stati Uniti
Una interessante valutazione di Anna Zafesova, giornalista russa che dal 2005 vive e lavora in Italia (“Biden-Putin: una stretta di mano per suggellare relazioni mai così complicate”, 17 giugno 2021) sul precario stato dei rapporti tra Mosca e Washington. Con una conclusione che si commenta da sola: “I patti sono stati chiari, e l’inimicizia promette di essere lunga”.
Con la progressiva destabilizzazione nei rapporti tra Usa e Russia ed, ancor più, tra Usa e Cina nei cieli del pianeta prevale il grigio cenere, gravido di terrorizzanti nubifragi. Il risiko da gioco da tavolo fondato sulla simulazione di un conflitto globale per il dominio del mondo rischia giorno dopo giorno di diventare una realtà concreta nella quale – appunto per il dominio sul mondo – possono sfoderarsi talmente tanti arsenali da rendere il pianeta un deserto senza forme di vita, radioattivo.
“ “Un dialogo senza distensione”: la definizione del politologo Dmitry Trenin di Carnegie Moscow è molto azzeccata per descrivere l’obiettivo che si poneva il Cremlino per il vertice tra Vladimir Putin e Joe Biden a Ginevra, il 16 giugno. Nessuno a Mosca sperava più in un “big deal”, dopo la delusione di Donald Trump; e i tentativi di “reset” tra Barack Obama e Dmitry Medvedev sono ormai un’imbarazzante ricordo per entrambe le parti.
Nel 2021, nell’ottavo anno del suo isolamento post-Crimea, Putin non sbaglia a definire lo stato delle relazioni russo-americane “al livello più basso della storia”, e infatti i due unici risultati più o meno reali del rapidissimo vertice – il rientro dei rispettivi ambasciatori nelle loro sedi, e una dichiarazione che riconosce la responsabilità comune delle due potenze nucleari per la stabilità strategica – sono il minimo indispensabile, oltre il quale si potrebbe parlare di una guerra nemmeno tanto più fredda.
Le linee rosse
Anche il “meglio guardarsi in faccia” di Biden è stato una constatazione di attese molto limitate: i summit in cui i leader russo e americano facevano a gara ad affascinare l’interlocutore, mostrargli la propria amicizia e sfoggiare la sintonia reciproca appartengono a un passato che sembra ormai quasi impossibile. Già la scelta del territorio neutrale di Ginevra, sede di innumerevoli round di negoziati sovietico-americani dai tempi di Brezhnev a quelli di Gorbaciov, indicava chiaramente che non si trattava di un incontro tra partner o colleghi: era un appuntamento tra nemici, e all’ordine del giorno più che una agenda di cose da fare insieme c’era una lista di “red line” da non oltrepassare.
Il problema è che, tra nemici, non ci sono molti terreni in comune, e la rapidità con la quale il summit si è concluso – meno di tre ore di colloqui, tra faccia a faccia e tavolo allargato alle delegazioni – l’ha dimostrato. Russia e Usa non hanno interessi economici comuni, gli scambi culturali sono praticamente congelati, nei conflitti internazionali si trovano spesso sulle linee del fronte opposte, e Mosca non ha da offrire influenze particolari (anche se Putin si è portato dietro il suo emissario speciale in Siria Alexander Lavrentiev, e quello in Ucraina Dmitry Kozak, forse nella speranza di aprire dei sotto-negoziati regionali).
Un dialogo tra nemici è possibile, ma presuppone compromessi, e pragmatismo nell’ammettere i propri limiti: come ha fatto notare con un certo sarcasmo Biden, “se hai migliaia di chilometri di confine con la Cina, e un’economia debole, non ti metti a fare una guerra fredda”. Forse è stato questo atteggiamento a spingere Putin ad accorciare i tempi dei colloqui, per buttarsi tra le braccia della stampa internazionale in una performance insolitamente lunga, quasi interamente dedicata a ribadire i punti fissi della propaganda russa, e ad accusare gli Stati Uniti di “aver dichiarato per legge la Russia come nemico”.
Propaganda russa
Washington è stata accusata di aver sponsorizzato l’opposizione russa, di “uccidere gente per le strade” nelle città americane e nei raid in Iraq e in Afghanistan, di aver sponsorizzato il “colpo di Stato sanguinario” in Ucraina e di lanciare cyber-attacchi contro la Russia. Parte di queste esternazioni erano il classico “whataboutism” della propaganda ancora sovietica, per ribattere senza rispondere in merito alle critiche sui diritti umani e repressione delle libertà. Altri erano più originali, come il paragone tra il movimento Black Lives Matters e l’opposizione di Alexey Navalny, che nella visione di Putin sono entrambi animati da estremisti criminali: il primo ha “lanciato pogrom per i quali compatiamo il popolo americano” e il secondo “insegnava pubblicamente a fare le Molotov”.
Affermazioni che hanno fatto interrogare molti commentatori sulle fonti di informazioni utilizzate dal presidente russo. Che su Navalny – ostinandosi a non chiamarlo per nome, ma “quel signore” – si è mostrato particolarmente infastidito, accusandolo “essere andato all’estero per cure mediche”, e quindi di essere tornato in Russia pur sapendo quello che lo attendeva: “Ha scelto consapevolmente di venire arrestato, ha ottenuto quello che voleva”. Nessuna menzione dell’avvelenamento, ed è colpa dell’oppositore aver voluto tornare in patria: se è vero, come sostengono alcune fonti moscovite, che Biden e Putin avessero parlato di scambiarlo con detenuti russi negli Usa, la reazione del presidente russo non promette bene per l’esito della trattativa.
Patti chiari, inimicizia lunga
A tratti si era creata l’impressione che per Putin fosse stata più importante la scena mediatica offerta dal summit del summit stesso. D’altra parte, il margine di manovra russo è molto più ridotto di quello americano, e non soltanto per la debolezza economica e geopolitica ribadita gentilmente da Biden: se tutta la propaganda, e tutta la diplomazia, per anni, vengono incentrate sull’antiamericanismo, un “dialogo senza distensione” diventa problematico. L’intransigenza rende impossibile un compromesso, e considerare un vertice soltanto come un’occasione per ribadire di avere ragione non è una tattica promettente. Le “red line” del Cremlino – innanzitutto l’Ucraina nella Nato, come promesso da Biden pochi giorni prima – sono state affrontate solo “di sfuggita”, perché “non c’è nulla da discutere”.
Le “red line” americane sono state enunciate ad alta voce, come la promessa del padrone della Casa Bianca che la morte in carcere di Navalny avrebbe “conseguenze devastanti” per la Russia. I patti sono stati chiari, e l’inimicizia promette di essere lunga”.
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