Il giudice Rosario Livatino, la credibilità come meta
![](/public/rubrica/foto/big/07052021153506.jpg)
"Ma cu ci lu fici fari?"
Non avevo compiuto 26 anni quel 21 settembre 1990 e, ancora sconvolto per il duplice barbaro omicidio del Presidente Antonino Saetta e del figlio Stefano, apprendevo sgomento che in tanti, anziché condannare con fermezza, si affannavano a cercare una giustificazione all’ennesimo orrendo crimine ai danni di un servitore dello Stato.
Chissà di quale colpa doveva essersi macchiato il "povero" Livatino per meritare quella fine, si chiedevano in tanti, i benpensanti del mio paese.
Avevo superato gli orali del concorso in magistratura e, forte dell’esempio di quanti dimostravano che la mafia e l’illegalità non erano un destino ineluttabile, volevo rimanere a lavorare nella mia terra per contribuire a renderla più giusta e più libera.
L’idea che si potessero addirittura insinuare dubbi sull’operato di chi aveva perso la vita soltanto perché aveva osato svolgere il proprio dovere, non faceva che rafforzare la mia determinazione, aiutandomi a comprendere che non bastava combattere un sistema di potere criminale ma occorreva dimostrare anche l’ipocrisia di un atavico sistema di pensiero, sottomesso alla prevaricazione del più forte.
Ricordo che l’omicidio di Rosario Livatino ebbe l’effetto di generare un paradosso: proiettò la sua figura al di fuori del circoscritto ambito familiare e professionale nel quale egli l’aveva mantenuta, con l’umiltà e la riservatezza che lo caratterizzavano, per farla assurgere ad espressione universale di una visione moderna della giustizia, di uno stato di diritto forte, in grado di tutelare i cittadini, specie coloro che non hanno mezzi per rivendicare i loro diritti.
Ed anche la sua visione del ruolo del magistrato, è stata sempre volta a cogliere la "società che cambia", con la consapevolezza che l’applicazione della legge non è mai un’operazione burocratica e conformista, non potendo prescindere dalla comprensione del reale e dell’uomo.
Proprio in questo risiede l’attualità della figura di Rosario Livatino: nell’autentica libertà ed indipendenza con cui egli intese svolgere il suo ruolo, anche da ogni condizionamento interno allo stesso ordine giudiziario, nonché nell’assoluta imparzialità rispetto ai molteplici interessi leciti ed illeciti tra i quali si trovò ad operare.
Di fronte a questa figura, allora, non vale più la pena ricordare il commento "Ma cu ci lu fici fari?", espressione di appartenenza ad una cultura succube e contigua alla mafia, bensì l’eredità che il "giudice ragazzino" con la sua vita e la sua morte ci consegna: la credibilità, la fiducia nelle istituzioni, la speranza in uno Stato capace di smantellare la cultura mafiosa, con l’impegno quotidiano di chi con coraggio, fedeltà ai principi costituzionali e capacità di analisi della realtà, si pone al servizio degli altri.
Calogero Gaetano Paci
Procuratore della Repubblica Aggiunto – Reggio Calabria
Ultimi articoli
“Blocco stradale”, il reato che aggira la Costituzione
Assostampa e Odg premiano i cronisti siciliani
La mafia “sommersa”, un modello che intreccia tradizione e innovazione
Cancemi, prima della strage Falcone Riina incontrò "persone importanti”
Francesco Renda, lo storico della Sicilia e del movimento contadino
Il Progetto educativo antimafia, dalla droga la minaccia più grave
Pena di morte e diritti umani, Amnesty: mai tante esecuzioni nel mondo
“O la va o la spacca”, le riforme che preparano lo scempio legislativo della giustizia
Mafia & droga, come è cambiato il mercato degli stupefacenti
Emilio Miceli nuovo presidente del Centro studi Pio La Torre