Il giovane Hitler e la prostituta volontaria in scena sotto l'Etna

Cultura | 24 febbraio 2019
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Buonismo sionista contro demonismo teutonico? Esteriorizzazione del collettivo “senso di colpa” del popolo ebreo? Lavacro auto assolutorio o spietata denuncia d’acquiescenza? Sottovalutazione, incomprensione, della nascente catastrofe antisemita? Paura o messianica attesa d’un mondo senza odio? Prediligendo il registro grottesco, per involarsi verso “verità” che una narrazione realista avrebbe reso più banali (la “banalità del male”) George Tabori ripercorre - fingendo fantasiosa preveggenza - l’incipit dell’ascesa di uno dei maggiori criminali che abbiano mai attraversato il pianeta, Adolf Hitler, risvegliando i tenebrosi fantasmi d’un passato non troppo remoto, spaventosamente vissuto dallo stesso autore in prima persona e carico d’insoluti interrogativi. Presentata per la prima volta in Germania nel maggio del 1987, “Mein kampf” - dell’ungherese (figlio di intellettuali ebrei) George Tabori (scrittore, drammaturgo, giornalista, sceneggiatore, regista) divenuta la sua opera più nota e ripetutamente portata sulle scene dei teatri di tutto il mondo - approda finalmente a Catania (al piccolo “Teatro del Canovaccio”, sempre più fucina d’ardite sperimentazioni), ad opera d’un avveduto Nicola Alberto Orofino - il più innovativo, apprezzato e ormai affermato regista della sempre sovrabbondante stagione teatrale etnea – che, diligente “soldato” del teatro contemporaneo, coraggiosamente la importa scuotendo le quinte teatrali cittadine con un innovativo uso della satira, qui spinta fino ad estremi confini, quanto mai necessaria contro le trappole d’una comoda convenzionalità. La difficoltà del testo, onusto di metafore, rimandi, opposizioni di weltanschauung, menzogne, vaneggiamenti, accompagna la pietas dell’ebreo Sholmo verso lo smarrito giovane Adolf, giunto a Braunau per tentare un esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti, assurdamente inascoltato nei suoi deliri antisemiti d’onnipotenza. Accolto fraternamente nel dimesso ospizio della signora Merschemeyer di Vicolo del Sangue a Vienna e maternamente protetto dall’ebreo Sholmo (chegli dona perfino il suo cappotto e l’aspetto mefistofelico, con baffetti e capelli lisci), Hitler andrà incontro ad una inarrestabile ascesa accompagnato dalla sua più diletta alleata, una sbeffeggiante e sbeffeggiata morte, alla fine unitasi in grottesco balletto agli allucinati protagonisti in una tetra atmosfera visionaria. Ormai giunto al potere, il fuher d’una Germania smarrita ed impazzita ringrazierà lo sbigottito Sholmo per averlo indotto alla carriera politica, mentre uno sgozzamento di galline prelude metaforicamente al genocidio degli ebrei. Coinvolgente, efficace e partecipata recitazione d’un pregevole team d’attori, molto apprezzati e conosciuti dal numeroso pubblico etneo (Giovanni Arezzo, Francesco Bernava, Egle Doria, Luca Fiorino, Alice Sgroi), che la “pirotecnica” e fantasiosamente sbrigliata regia dell’incontenibile Orofino conduce abilmente per oltre due ore in questo bizzarro “kabarett” (sottotitolo scelto dallo stesso regista in omaggio ad una rappresentazione di “satira sociale e politica”, anziché “cabaret” riservato agli spettacoli erotici). Da replicare.

Una casa di donne di Dacia Maraini. Confessioni di una giovane prostituta, tale divenuta volontariamente, che a scorno di cervellotiche spiegazioni socio-psichiche (sfruttamento “capitalistico” del corpo, ingiustizie d’un mondo sbagliato, traumi infantili…) interpreta e intrattiene l’antica “professione” con l’allegria di una vera musa, esistente quasi per diritto ereditario. L’universo maschile, incerta meteora, temporaneo, anonimo, tenero o violento, percorre la sua vita di copule mercenarie - narrata senza astio (anche nei confronti della madre, ex prostituta) - finché un’inaspettata inseminazione rendendola genitrice, le restituisce il ruolo primario, quello di prosieguo della specie umana, che sembra sottrarla a quello di mero strumento di piacere. Monologo scattante, vivido, che una scintillante Ottavia Orticello interpreta decisa con allegrezza (e talvolta con malcelata malinconia), diretta da un ispirato Jacopo Squizzato che traccia con fermezza un’insolita figura di meretrice. 

 di Franco La Magna

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