Il Genio di Sciascia in un labirinto di fandonie
Pubblicato nel 1963, “Il Consiglio d’Egitto è il primo romanzo storico di Leonardo Sciascia che, al fine di trarne un apologo socio-politico, si avvale di una tecnica evocativa, di uno stile espositivo avviato a solidificarsi in opere successive (“Recitazione della controversia liparitana”, “Bronte”) : ovvero servirsi di un’ambientazione databile in tempi “passati” (e mai passati) della tradizione, della ‘diceria’ siciliana con il con il preciso scopo di stigmatizzare gli opportunismi, i trasformismi, i vuoti di insana memoria tipici di un “immoto presente”- cui poco incide o rifrange il mutamento della cornice storica-ambientale, nel tedioso tramandarsi di usi e costumi isolani, sotto rinnovate spoglie di tornaconto clerico-nobiliare, ‘rigenerate’ ad ogni strappo epocale come fossero Araba Fenice
Con il sarcasmo, l’ironia, il gusto per l’iperbole e il paradosso che sono le affilate armi (morali, ma disincantate) dello scrittore di Racalmuto qui si narra della bizzara vicenda occorsa al palermitano abate Vella. Il quale, patendo delle scarse prebende vescovili, sul finire del 1700, ebbe (su apocrifa fonte narrativa) la “ pensata” di buggerare gli intellettuali conterranei -e anche parte di quelli europei- falsificando la traduzione di un codice islamico (fantasiosamente rinvenuto), per poi costruirne, di sua testa immaginifica, una versione “totalmente nuova” e attendibile. Per un ‘candido’ esercizio di impostura svolto unicamente a trarre benefici personali e riscattare il suo oggettivo stato di indigenza.
“La truffa,
perché questo è il reato commesso, ha dell’incredibile, ma è
d’obbligo precisare che questo religioso ebbe l’indubbia capacità
di attrarre l’ interesse dei nobili siciliani -mediante il primo
codice (Il Consiglio di Sicilia)- mentre con il secondo (Il
Consiglio d’Egitto) capovolse la situazione, con principi e baroni
timorosi di perdere i loro secolari privilegi a vantaggio del Re”-
rilevo da un volume di critica letteraria.
In altri termini: la
trovata, estemporanea e sanguigna, di un prete birbante e
spregiudicato, inserita nel contesto dell’epoca, offre la
rilevanza d’un intreccio fra l’inganno ‘elevato ad arcana
rivelazione’ e il tentativo (cronologicamente successivo) di
modernizzare la Sicilia mediante l’opera dell’illuminato
Viceré Caracciolo. .
****
Mentre, e di
fatto, i fuochi della Rivoluzione francese, lo spirito libertario
(ed egualitario) che la stessa diffondeva finirono per rinsaldare,
nell’isola, i legami fra il monarca e i suoi vassalli, spezzando e
seppellendo ogni tentativo di svecchiamento. Il cui scotto sarà poi
pagato, e per secoli, sia dagli agitatori in buona fede della ‘cosa
pubblica’, sia dai profittatori (il moderno mafiascismo) della
vetusta, affollata, astutamente inestricabile “questione
merdionale”
E’ quindi sul solco del più fertile, impeccabilmente connotato teatro naturalista di Sicilia (che ben dispiega la sua collaudata vocazione alla didattica dissacrante, coloristica, smaliziata, quasi fosse “nu cuntu” ritrovato) che “Il Consiglio d’Egitto” nell’edizione a cura di Guglielmo Ferro (a vent’anni da quella resa celebre dall’interpretazione del padre, Turi Ferro) allieta, coinvolge, istruisce lo spettatore del Teatro Quirino, e di altri spazi nazionali (in attesa della tournée estiva e d’una ripresa autunnale), ponendosi quale martellante, sferzante, ilaro-tragedia “sul discorrere e narrare del Potere”. Allorchè, oltre al ceto nobiliare, è il clero ad avere(o ambire ad..) le mani in pasta sui beni e sui privilegi ‘di questo mondo’, riservando ai derelitti “la sola avventura della cabala”, alimentata da ignoranza e superstizione: di cui anche, e soprattutto, ieri come oggi, la conoscenza della lingua araba da parte dell’abate Vella si rivelerà grimaldello di truffa e fandonie. Nemmeno a fin di bene, ma essenzialmente a proprio vantaggio, individuale e ‘ad excludendum’, nonostante i voti religiosi e la millantata urgenza della missione terrena (per quel bene dei diseredati, di cui egli si considera “unico e solo” esemplare)
Nel suo “castello di menzogne e boiate”, architettato a dovere sino al mirabolante raggiro del Cardinale di Palermo, la drammaturgica struttura dello spettacolo è avallata da una scenografia essenziale ma funzionale: ‘spianato’ spazio scenico a ‘strati progressivi’ di (s)velature che poco concedono alle isolane icone di memoria barocca (diversamente dallo sfoggio dei bei costumi). Sulle quali l’abate Vella del sapido (‘cervello fino’ di) Enrico Guarneri naviga, arraffa, si destreggia (presumo per scelta registica) come un epigono di un improbabile ’hildago’ , assecondato ad arte da una sorta di ‘folletto’ o monaco praticante (poliedrico e pimpante Antonello Capodici). E tutta la valida compagnia ‘incorniciata’ a dovere da un sipario che, innalzandosi, si spande su ambienti simili a un “sinedrio di sapienti”, gabbatin dall’autorevolezza (effimera) dei loro ruoli sociali.
Ps Da Il Consiglio d’Egitto è tratto anche un ottimo film del 2002, diretto da Emidio Greco, con Silvio Orlando Roberto Herlizka e Tommaso Rgagno
*****
“Il Consiglio
d’Egitto”
di Leonardo
Sciascia
con Enrico Guarneri, Ileana Rigano Francesca
Ferro Rosario Minardi Vincenzo Volo
Rosario Marco Amato Pietro Barbaro
Ciccio Abela Gianni Fontanarosa
Antonello
Capodici Mario Fontanarosa scene Salvo Manciagli
costumi Riccardo Cappello
Regia Guglielmo Ferro Pt
Prduzioni
Teatro Quirino di
Roma – Con tournée estiva e ripresa autunnale al Teatro Abc di
Catania
Ultimi articoli
- La marcia del 1983, si rinnova la sfida alla mafia
- Bagheria, consiglio
aperto sulla “marcia” - La nuova Cortina
di ferro grande campo
di battaglia - La riforma agraria che mancò gli obiettivi / 2
- Mattarella, leggi
di svolta dall'incontro
con il Pci - Mattarella fermato
per le aperture al Pci - La legalità vero antidoto per la cultura mafiosa
- Natale, un po' di rabbia
e tanta speranza
nella cesta degli auguri - Lotte e sconfitte
nelle campagne siciliane
al tempo di Ovazza / 1 - La legge bavaglio imbriglia l'informazione