Il doppio esordio di Dante Alighieri nel cinema in bianco e nero

Cultura | 18 marzo 2021
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            Uno strano destino colpisce il primo film italiano concepito su Dante Alighieri. Annunciato in pompa magna già nel 1909 L’inferno (uscito però nel 1911) regia di Adolfo Padovan e Francesco Bertolini, prodotto senza troppo badare a spese dalla Milano Films, viene preceduto dal più modesto L’inferno (1911) regia di Giuseppe Berardi, prodotto dalla più piccola Helios di Velletri. Uno dei tanti casi di concorrenza commerciale non proprio adamantina. Ad interpretare il ruolo del sommo poeta nel film della Milano viene chiamato l’attore etneo Salvatore Alzelmo Papa, noto artisticamente come Salvatore Papa (Calatabiano, Catania 1875 – Bologna 1955, presso la casa di riposo Lyda Borelli), che dopo aver lasciato la propria terra d’origine, negli stessi anni della golden age produttiva catanese e palermitana riuscirà per oltre un decennio a brillare di luce propria nel firmamento del cinema muto nazionale.                                                                                                                   Di lui, attore di formazione teatrale, oltre alle interpretazioni cinematografiche,  di cui quella di Dante Alighieri resta la più rilevante, si ricorda anche una sola coregia, quella del film bellico Sotto il bacio del fuoco (1915) firmato insieme a Emilio Roncarolo (già direttore della fotografia de L’inferno) e prodotto dalla Vomero Film di Napoli. Del film una critica patriottica, al passo con i tempi, così ne esalta l’eroismo delle nostre truppe contrapponendolo alla “barbarie” degli austriaci: “...possiamo dire che Sotto il bacio di fuoco... ci si presenta sotto un aspetto felicissimo e quale uno di quei lavori che formano la fortuna di un oculato esclusivista. Raccontare la trama? Ci sembra superfluo. Si tratta dell’eroismo delle nostre genti, dello spirito di sacrificio di un’irredenta e d’un irredento, della lotta atroce fra la viltà e la barbarie dello straniero e fra il coraggio e la gentilezza dei nostri. I nostri soldati sono degli eroi e lo sappiamo: gli austriaci sono dei barbari, e ne abbiamo le prove tutti i giorni…»[1].

          Attore dunque prevalentemente teatrale, come molti colleghi prestatosi momentaneamente anche al cinema, tra il 1909 e il 1917 Papa interpreta oltre una dozzina di film, tra cui il più noto resta appunto L’inferno (Saggi dall’inferno dantesco 1911, diviso in tre parti e lungo 1200 m.) regia di Padovan e Bertolini (con la collaborazione di Giuseppe De Liguoro, anche interprete nei panni di tre personaggi, fotografia di Emilio Roncarolo), tratto dalla prima cantica della Divina Commedia, primo film che riesce ad ottenere l’iscrizione al “Pubblico Registro delle opere protette” (l’edizione completa è del marzo 1911), premiato con la medaglia d’oro al primo concorso cinematografico mondiale.                                                       Nel film, ricorda Maria Adriana Prolo “la pellicola più importante della casa in quel periodo...furono usati trucchi arditissimi…Per impersonare Dante e Virgilio erano stati scelti due provetti rocciatori, Salvatore Papa e Arturo Pirovano, e la maggior parte delle scene furono girate nel canalone Porta sulla Grigna Meridionale. Tranne qualche riserva fatta per le scene dei lussuriosi che erano troppo palesemente dei pupazzetti ai quali, oltre alla pena stabilita da Dante, era stata aggiunta quella di muoversi a scatti tra le fiamme, e per quelle dei giganti che non apparivano tali, la riduzione della Milano Film fu giudicata ‘un autentico capolavoro’ ”[2]                 Apprendiamo così, se la critica non s’inganna, della passione di Papa per la montagna, che nel frattempo aveva sposato Maria Colombo la sorella di due attori teatrali siciliani Eugenio e Lindoro Colombo, dalla quale in seguito si separò. Il film fu lanciato, sia in Italia che all’estero, con grande battage pubblicitario con una serie di insolite iniziative (come le anteprime riservate a giornalisti e autorità, mostre, stampa di opuscoli…)[3] dal partenopeo Goffredo Lombardo che “inaugurò il nuovo sistema di distribuzione basato non sulla vendita o il noleggio delle copie, ma sulla concessione di diritti in esclusiva per zone e Paesi: sistema che nel giro di qualche anno sarebbe diventato usuale per i più importanti film a lungometraggio… Negli Stati Uniti venne importato e distribuito in 5 bobine...L’inferno fece si che per la prima volta si aprissero al cinema i maggiori teatri e i prezzi d’ingresso salirono fino a 2,50 dollari; in occasione del lancio del film, le vetrine delle librerie americane si riempirono di copie della ‘Divina Commedia’ le cui vendite aumentarono in maniera significativa”[4].

         Unanime il consenso della critica italiana che parla di “visioni sublimi...delle visioni in cui abbiamo campo di notare la grandiosità tutta del lavoro cinematografico...”[5] e ancora di nulla “di più nobile, di più artistico, di più bello, come nei quadri, ove le visioni più salienti dell’inferno vi appariscono in tutta la loro grandezza e la loro possanza...E se Gustavo Doré ha scritto, con la matita del disegnatore, il migliore commento grafico al Divino Poema, questa cinematografia ha fatto rivivere l’opera di Doré”[6].

         Con abile, ma tutt’altro che leale mossa pubblicitaria l’uscita del film della Milano fu dunque, come detto, anticipata di qualche mese da un omonimo L’inferno (altro titolo Visioni dell’inferno) della Casa di produzione Helios di Velletri, girato in tempi brevissimi e tratto sempre dalla prima cantica della “Divina Commedia”, regia di Giuseppe Berardi che interpreta altresì il personaggio di Dante. “La Helios ha un solo torto, quello di aver voluto sfruttare intempestivamente L’inferno, già annunziato da tempo dalla Milano Film. Il lavoro presentato sotto questa cattiva luce non ottenne il successo che specie alcuni quadri si sarebbero meritati...”[7]. Seguito da una serie di aspre polemiche il film della Helios, molto più modesto di quello della Milano, riuscì comunque a precedere di qualche mese l’uscita di quello diretto da Padovan e Bertolini in molti paesi (fu anch’esso distribuito in tutto il mondo), nonostante la produzione quest’ultimo avesse messo in atto una serie di annunci al pubblico, avvertendolo della “imitazione” (accusa prontamente respinta dalla Helios) fabbricata a danno del proprio film e la stessa denuncia di concorrenza sleale da parte dello stesso Gustavo Lombardo, che in una vibrante recensione polemica apparsa su “Lux” nel gennaio del 1911 inveisce furiosamente contro il film ritenuto colmo di “balorda comicità”, “di mal riuscita parodia”, di “scenari di carta”, giudicando la presenza del protagonista nei panni di “un Dante...diciamo così, cretino. Minuscolo, dal viso visibilmente e comicamente truccato”, in conclusione di “opera indegna non soltanto di Dante e del suo poema, ma anche della cinematografia, intesa come arte riproduttrice della vita…”.

         Altra apparizione di Dante si registra in un film di poco successivo che ne ricostruisce (con buona dose d’inventiva) gli anni della gioventù. Il film, Dante e Beatrice (altro titolo La vita di Dante, 1913, fotografia di Giovanni Vitrotti), è prodotto dall’Ambrosio di Torino e vanta la regia del romano Mario Caserini, uno dei più prolifici e importanti registi del cinema muto italiano, attivo nelle principali case di produzione nazionali e lui stesso tra i fondatori della Film Artistica Gloria (1913), deceduto purtroppo prematuramente. Nel ruolo di Dante appare Oreste Grandi, uno degli interpreti di punta dell’Ambrosio e al suo fianco Fernanda Negri Pouget, attrice romana già molto nota, proveniente dall’Accademia di Santa Cecilia. Una critica scandalizzata appunta gli strali sui presunti libertinaggi del sommo poeta “...che s’inoltra in una bettola, dalla quale conduce una...divetta, con la quale passeggia tendosela strettamente a braccetto, quando s’imbatte in Beatrice...Il poeta scriveva l’immortale poema avendo vicino – questo è il colmo – la nota divetta che avrebbe voluto distoglierlo dal lavoro, e che Dante severamente riprende...”[8].

         Infine Dante nella vita e tempi suoi (1922) regia di Domenico Gaido, prodotto e distribuito dalla V.I.S. di Firenze, ritrae il poeta (interpretato da Guido Maraffi) al tempo della Firenze dei Guelfi Neri di Corso Donati (Armando Cresti) vittoriosi sui Ghibellini, tra i quali egli stesso guerreggia incitando alla lotta la fazione alla quale appartiene. Una sinossi intricata di amore e morte, che si conclude con la morte di Corso Donati in battaglia e con quella dello stesso Dante, ammalatosi di malaria mentre si trova a Ravenna nel tentativo di scongiurare la guerra contro i veneziani. L’ultima sequenza si chiude con il figlio del poeta che ritrova, dopo una miracolistica visione notturna, l’opera somma del padre celata in una finestra. Beatrice è interpretata da Perla Lottini. Il fluviale film, quasi 3700 metri - uno dei film più lunghi di tutto il cinema muto italiano - fu concepito per celebrare il sesto centenario dantesco, ma iniziata nel 1920 la tribolata lavorazione subì varie interruzioni, che ne fece slittare la prima proiezione pubblica verso la fine del 1922. Già inserito in vari programmi di proiezioni (scuole, collegi…) l’opera arrivò a Roma addirittura nel 1925, dopo varie recensioni critiche tutt’altro che esaltanti[9].

 



[1] Guepe, «La Cine-Fono», Napoli, 1-15 dicembre 1915, in Vittorio  Martinelli, Il cinema muto italiano 1915 (seconda parte), Biblioteca di B&N, Nuova Eri Edizioni RAI, 1992 Centro Sperimentale di Cinematografia, p. 216.

[2]     Maria Adriana Prolo, Storia del cinema muto italiano, Poligono Società Editrice, Milano, 1951, volume I (i successivi annunciati non sono mai stati pubblicati), p. 42

[3]     A Napoli, ricorda sempre la Prolo, il film fu proiettato alla presenza di Benedetto Croce e Roberto Bracco, mentre Matilde Serao lo recensì con toni entusiastici sul “Giorno”.

[4]     Aldo Bernardini-Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano 1911 ( prima parte),   Biblioteca di B&N, Nuova Eri Edizioni RAI, 1992, Centro Sperimentale di Cinematografia, 1995,  pp. 247-248

[5]     Veritas, “La Vita Cinematografica”, Torino, 5 aprile 1911, n. 6

[6]     “Il Giorno”, Napoli, 2 marzo 1911.

[7]     Ego, “La CineFono e La Rivista Fono-Cinematografica”, Napoli, 20 maggio 1911, n. 158.

[8]     Il Rondone in “La Vita Cinematografica”, Torino, 15 aprile 1913.

[9]     V. Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano 1922-1923, Biblioteca di B&N, Nuova ERI edizioni RAI, 1996 Centro Sperimentale di Cinematografia, pp. 39-41.

 di Franco La Magna

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