Il difficile e intenso rapporto tra mafia e informazione

Cultura | 7 settembre 2015
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Indagare e conoscere il rapporto tra le mafie e l’informazione, sia nei casi in cui le organizzazioni criminali esercitano l’intimidazione e la violenza nei confronti dei giornalisti che in quelli in cui la stampa si mostra contigua, compiacente o collusa con la criminalità organizzata. Un tentativo di condizionamento del lavoro dei cronisti che, in ogni caso, si ripercuote sulla libertà di informazione che vede l’Italia, nella classifica stilata da Reporters Sans Frontiéres, al 73esimo posto su 180 nazioni di tutto il mondo.  Con questo scopo il ‘Comitato Mafia, giornalisti e mondo dell’informazione’ della Commissione Antimafia ha audito 34 operatori del mondo dell’informazione e, lo scorso 5 agosto, la Commissione ha approvato la relazione che descrive la dimensione del fenomeno nel nostro Paese.  

Non solo avvertimenti simbolici - come pallottole recapitate a casa, bombe inesplose, lettere e telefonate minatorie - o vere e proprie violenze - quali aggressioni fisiche e danneggiamenti - ma le intimidazioni ai giornalisti percorrono anche la via delle querele temerarie e delle azioni legali di risarcimento pretestuose, esercitate o semplicemente minacciate, con l’obiettivo di imbavagliare o condizionare gli operatori dell’informazione “per influenzare l'opinione pubblica dato che la mafia è fatta anche di consenso”- ha osservato il giornalista de L'Espresso Lirio Abbate, sotto scorta da molti anni. In alcuni casi, come ha analizzato Enrico Bellavia di Repubblica, il tentativo di condizionamento si avvale di ‘felpati avvertimenti’ come quando “mi sono trovato con uomini che mi spiegavano che non avevo capito niente e che bisognava leggere le cose in un altro modo”. 

Secondo l’ultimo rapporto elaborato dall’osservatorio Ossigeno per l’informazione, le intimidazioni subite da 1.227 giornalisti fra il 2011 e il 2014 sono rappresentate per il 43% dagli avvertimenti, per il 21% da aggressioni e danneggiamenti, per il 36% da querele pretestuose e altri abusi del diritto. Le minacce che dal 2006 al 31 ottobre 2014 hanno riguardato i cronisti sono 2.060, di cui 421 nei primi dieci mesi del 2014. Solo Val d’Aosta e Molise non hanno registrato lo scorso anno episodi di violenza contro l'informazione, mentre il Lazio è la regione che ha avuto il maggior numero di casi (26 dall'inizio del 2015, seguito dalla Campania con 20, dalla Puglia e dalla Lombardia con 18). E più di trenta sono i giornalisti sottoposti a misure di protezione da parte del Ministero dell’Interno, senza dimenticare gli undici uccisi per mano mafiosa di cui otto in Sicilia.

L’inchiesta della Commissione Antimafia ha mostrato come il reato di diffamazione a mezzo stampa, previsto dall’articolo 595 del codice penale, eserciti un ruolo dissuasivo non solo in quanto prevede pene detentive e da luogo a procedimenti per il connesso risarcimento del danno, con richieste esorbitanti, ma anche perché spesso è usato in maniera pretestuosa, come ritorsione o avvertimento, per condizionare il lavoro dei giornalisti. Per comprendere la portata dell’abuso di questi strumenti del diritto, è emblematica la frase riportata da Pino Maniaci, nel racconto  delle duecento querele accumulate a suo carico da parte della famiglia Bertolino, circa la risposta data da una componente della stessa famiglia alla domanda del perché di tutte queste azioni legali: “oggi si usano le querele, ieri si sarebbero usati altri metodi”.  Se si pensa, soprattutto in questi anni di crisi, alle difficoltà economiche di molte redazioni o ancora ai numerosi freelance, che non fanno parte di alcuna redazione e non hanno contratti di collaborazione continuativa con una testata giornalistica, si comprende come il rischio che le intimidazioni vadano a buon fine è molto alto. Per questo la Commissione propone di rafforzare la tutela dei giornalisti privi di contratto, prevedendo in capo all’editore l’obbligo di assicurazione per tutti coloro che scrivono per la sua testata o di anticipare le spese del procedimento per diffamazione. Così come occorre revisionare il contratto collettivo per garantire dignità professionale ed economica agli operatori del settore. E ancora, davanti ai numerosi abusi del reato di diffamazione denunciati dai cronisti auditi e alla determinazione nel voler difendere la libertà di stampa, la Commissione suggerisce un perfezionamento dell’istituto della rettifica che “prima ancora di rivelarsi causa di non punibilità – si legge nella relazione - dovrebbe rappresentare una condizione di procedibilità, sia dell’azione penale che di quella civile”. Una volta intervenuta la rettifica, “sarà compito del giudice penale valutare se essa abbia avuto o meno un effetto reintegrativo”.

Entrando nel cuore che ha animato il lavoro della Commissione, ossia i rapporti tra le mafie e l’informazione, l’inchiesta ha portato alla luce come a volte la stampa si è servita di testate compiacenti per delegittimare un corpo politico, giudiziario o amministrativo. Soprattutto in alcune aree del Sud, ci sono “editori attenti a pretendere il silenzio delle loro redazioni su fatti o nomi innominabili- denuncia la Commissione - E di direttori che si prestano a sorvegliare, condizionare e redarguire quelle redazioni”.  

Accanto ai possibili strumenti normativi a tutela della libertà di informazione, la Commissione Antimafia individua anche quelli a supporto del diritto ad essere informati: dovrebbe essere punita la reiterata pubblicazione di notizie false se finalizzata alla denigrazione o delegittimazione di singoli o di istituzioni.                                                                                                                                                                  

 di Alida Federico

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