Il cinema di Ettore Scola: galleria di sconfitti dalla vita e dalla storia

Cultura | 20 gennaio 2016
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In ricordo di Ettore Scola pubblichiamo il testo del vice direttore Franco La Magna, curatore insieme al direttore artistico del catalogo “Se permettete parliamo di Scola” (Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, 2010), editato in occasione della manifestazione “Cinenostrum” svoltasi ad Aci Catena (Catania) nel 2010

 

            Il travaso continuo dalla delusione politica a quella esistenziale e viceversa da quella esistenziale alla politica, con lo sfondo più o meno sfuocato dei grandi movimenti della storia, è uno degli elementi strutturali  - vero e proprio “leitmotiv” - su cui Ettore Scola ha fondato buona parte della “weltanshauung” dei propri film ed in particolare di quelli della maturità artistica. Dal nostalgico e struggente “C’eravamo tanto amati” (1974) - in cui, in termini di disinganno, a pagare lo scotto più cocente della fine del sogno della palingenesi sociale sono, non a caso, i due “intellettuali” del terzetto - a “Mario, Maria e Mario” (1993), cronistoria dell’autoffondamento del vecchio Partito Comunista Italiano (vissuto attraverso la crisi di tre militanti), la corrente alternata tra fallimento politico e disfatta esistenziale tende inevitabilmente a cortocircuitare, prima del “mesto” ritorno dei protagonisti ad una più o meno bastante “normalità”. Film paradigmatici, nel primo la fittizia rinascenza d’una amicizia e solidarietà verso il fine comune del grande sole rosso dell’avvenire, è destinata a chiudere per sempre un capitolo rimasto troppo a lungo “ambiguamente” in sospeso, con la scoperta da parte di Nicola (il professore “rivoluzionario”, severo critico cinematografico) e Antonio (il portantino comunista) dello smodato arricchimento del “traditore” Gianni. Nel secondo la “fine dell’eccezionalità” coincide con il rientro degli adulteri nelle rispettive famiglie, dopo la misteriosa malattia di Maria e l’altrettanto misteriosa guarigione, ma con qualcosa di finito per sempre, proprio come canta Guccini in “Stagioni”,  brano musicale in equilibrio tra disinganni del presente e speranza nel domani.

            Entrambi segnati da mancate epifanie i due film saldano passaggi cruciali della storia contemporanea italiana, ma i temi di fondo (come nella  gran parte della produzione “autoriale” e della “poetica” di Scola, sempre anche sceneggiatore, spessissimo soggettista) restano immutati: il tramonto della prospettiva rivoluzionaria, “l’imborghesimento” dei partiti della sinistra divenuti incapaci di contrapporre valide alternative alle “razionalizzazioni” del capitalismo avanzato; la fine degli ideali e le inevitabili compromissioni; il lento, fatale, erodersi dei sentimenti; l’insufficienza morale ad affrontare gl’imprevedibili accadimenti della vita; l’ineluttabile scorrere del tempo ed il conseguente sopravvenire della vecchiaia e della morte. “Kantianamente” dubbioso, nel senso di nutrire forti perplessità sulla marcia perpetua del progresso verso la “città ideale” di un’umanità sempre più smarrita, più vicino alla profetica distinzione pasoliniana tra progresso” e sviluppo”, Scola mostra di non credere nell’immediato compimento della visione utopica marcusiana di “liberazione dalla società opulenta”, irrimediabilmente corrotta dal denaro e dalla cupidigia, oggi invero scopertasi molto più fragile e meno fastosa di quel che si è voluto e fatto credere e tuttavia sempre incline allo spreco e all’ingiustizia programmata.

 Laico insoddisfatto, politicamente schierato e impegnato, Scola (uomo e artista) non si sottrae alla convinzione “che l’ordine dell’essere dovrà essere cambiato nel corso di un processo storico”, ma con altrettanto distacco egli si pone sulla vexata questio del ruolo degli intellettuali e dell’auspicato avvento (più o meno messianico), per dirlo ancora con Marcuse, di quel “…tipo di uomo che rigetta il principio di prestazione che regge la società, un tipo di uomo che ha rigettato l’aggressività e la brutalità, cardini dell’organizzazione della nostra società, e rifiuta la sua moralità puritana e ipocrita; un tipo di uomo che è biologicamente incapace di fare le guerre e di creare la sofferenza; un tipo di uomo che sa rallegrarsi della gioia e del piacere e che opera, a livello individuale e collettivo, affinché si determini un ambiente naturale e sociale dove una tale esistenza divenga possibile”[1]. E’ Il sogno lungamente covato del “superuomo marcusiano”, tappa estrema di quel processo di secolarizzazione e immantizzazione che partendo dalle speculazioni della filosofia classica arriva fino all’uomo positivista di Comte, a quello “nuovo” di Moro, alla società senza classi di Marx ed Engels… Un sogno di rinascenza rimasto ampiamente irrealizzato e che invece di avvicinarsi, ad ogni tappa del “progresso” umano, alla secolare utopia del mondo nuovo, pare allontanarsene quasi con un senso di malcelata diffidenza. “Una delle colpe di cui devono farsi carico gli intellettuali - dice Scola - è che accanto alla sacrosanta lotta per la diminuzione delle ore di lavoro, non c’è stata l’altrettanto sacrosanta lotta per l’occupazione del tempo libero: anche qui l’intellettuale non ha saputo aiutare la massa, non è stato capace di riempire quel vuoto che si è creato. E ciò in tutti i campi: la televisione, il cinema, la politica, la letteratura”. Quanto a televisione e politica, oggi possiamo indicare per nome chi ha avuto la capacità di obnubilare il pensiero degli italiani imponendo un vero e proprio <>[2].

           

Il percorso di maturazione di Scola verso un soffuso disincanto, frutto non di aprioristici preconcetti bensì d’una acuta osservazione (quasi da entomologo) dei limiti e delle miserie della natura umana, tuttavia, non è immediato. <, nel corso del tempo, gli ormai cult: “Adua e le compagne”, “Il sorpasso”, “La parmigiana”, “Io la conoscevo bene”, “I mostri”, quindici anni dopo “aggiornato” in una regia collettiva, n.d.a.) prima di compiere il grande salto>>[3]. Dal 1952, poco più che ventenne, inizia a scrivere soggetti e sceneggiature (ad oggi una sessantina), nel 1964 esordisce come regista in un film ad episodi (“Se permettete parliamo di donne”, seguito due anni dopo da “La congiuntura”), dove la lezione di Pietrangeli e Risi comincia ad amalgamarsi dando vita alla sua originale cifra stilistica: <>[4].

Mano man che la padronanza del mezzo tecnico cresce, lo sguardo di Scola si apre alla storia – mai “in quanto tale”, ma come grandioso fondale con il quale l’uomo interagisce e reagisce – in modo paradossalmente inversamente proporzionale allo spazio fisico, che tende invece a restringersi claustrofobicamente (“Un giornata particolare”, “La famiglia”, “La terrazza”), in un microcosmo archetipico, mentre trasforma in una costante il vezzo di aggiungere piccole ma significative autocitazioni cinefile, da leggere nel segno di una continuità e riconoscibilità artistica piuttosto che in quello d’un manierato autocompiacimento. Apparentemente sfondo lontano, la grande storia irrompe fragorosamente nel mondo e nella vita di personaggi crepuscolari, d’esistenze votate allo scacco, come nel “minimalista” “Una giornata particolare” (1977), casuale incontro di due vite alla deriva nel giorno della visita di Hitler a Roma nel maggio del 1938; o come nell’eterogeneo gruppo dei viaggiatori in carrozza de “Il mondo nuovo” (1982), colti on the road in piena Rivoluzione francese (che ne conferma anche la passione per i film in costume, già manifestata con lo “storico-machiavellico” “L’Arcidiavolo”,1966 e replicata con “Il viaggio di Capitan Fracassa”,1990, vero e proprio atto d’ossequio e d’amore al teatro); o ancora nellanonima sala da ballo della periferia parigina di “Ballando, ballando” (1983), con gli sfondi inquietanti della Francia collaborazionista, della guerra d’Indocina e i fatti d’Algeria, del sessantotto... Ma sebbene catturato dall’urgenza di relazionare sempre i personaggi al groviglio della storia, in Scola una mai disseccata vena ancor più intimista tende sempre a riemergere puntualmente. Ne sono testimonianze film come “Passione d’amore” (1981, dal romanzo “Fosca” di Igino Ugo Tarchetti),  “Maccheroni” (1985), “La famiglia” (1987), “Che ora è” (1989), dove comunque a ben guardare il “minimalismo” conclamato più che destoricizzare incunea la storia nei dettagli, in quel senso malinconico del tempo che passa, annullando o alterando passioni, sentimenti e vicende esistenziali che spesso “il regista si limita a descrivere fenomenologicamente”[5], sempre con un’indulgenza mai complice e una pietas frutto di “quell’umanesimo di fondo senza il quale i suoi film non avrebbero lasciato una traccia tanto profonda nell’immaginario collettivo e nella cultura italiana”[6].

            Riprendendo dalla letteratura (e dal cinema dei maestri) la lezione “manzoniana” (innesto della vicenda individuale nei grandi sommovimenti della storia), già all’indomani dell’esordio il cinema di Scola entra nel cono dell’interazione inscindibile tra storia e sentimenti, mantenendo quelle doti di perlustrazione sociale chiaramente già manifestate attraverso la momentanea fuga verso paradisi perduti di quel campione d’italianità che è l’editore, “progressista e democratico”, Di Salvo (un sempre straordinario Alberto Sordi) nell’amaramente divertente “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa”? (1968) o nel fustigante “Il commissario Pepe” (1969), vero e proprio prontuario della corruzione e dei vizi “consustanziali” al nostro paese, oggi letteralmente esplosi e sciorinati nelle pubbliche arene televisive senza neppure il pudore di celare le proprie malefatte. Due estremi opposti: il canagliesco industriale Alfredo Rossi (ancora Sordi), “processato” dal kafkiano tribunale de “La più bella serata della mia vita”, 1972, è castigato da una sacrosanta punizione “divina”  (l’incidente mortale… ma l’interrogativo se si potrà sperare nella giustizia umana resta aperto); mentre l’idiota d’ascendenza dostojevskiana di “Permette? Rocco Papaleo” (1971) difficilmente farà esplodere le bombe contro l’ingiustizia lasciategli in eredità dall’anarchico alcolizzato e comunque ancor più improbabilmente potrà essere proposto a modello di liberazione. La mutazione antropologica dell’italiano, denunciata dal compianto Pasolini, avanza a grandi passi (ma l’evoluzione in peggio doveva e forse deve ancora arrivare) e Scola ne interpreta a suo modo i passaggi allestendo ancora il feuilleton “Dramma della gelosia” (1970, grottesco triangolo popolaresco), giungendo già coraggiosamente negli anni ‘70 alla sconvolgente estremizzazione della visione <> del sottoproletariato pasoliniano con la crudele “sinfonia dell’orrore” di “Brutti, sporchi e cattivi” (1976), che lo stesso Pasolini, ormai “sconfitto”,<> [7]. 

            Radicalmente opposta, quattro anni prima, era stata la reazione del giovane operaio di “Trevico-Torino…viaggio nel Fiat-Nam” (1973), “proletario senza rivoluzione” che prende coscienza nella fredda “città-fabbrica” Torino del suo sfruttamento, ma finisce col rifiutare ogni massimalismo ribellistico (scontentando la sinistra estrema) per abbracciare la linea riformista pro-Partito Comunista Italiano, da cui il film – scritto insieme a Diego Novelli, futuro sindaco comunista del capoluogo piemontese – è finanziato (Unitelefilm).

 

            Parallelamente al binomio storia-sentimento cresce, però, anche lo scetticismo laico e l’amaro disincanto del regista di Trevico, per quanto il suo ottimismo della ragione accompagnato da un greve pessimismo dell’intelligenza, non può e non dev’essere genericamente confuso con la perdita della fiducia nella funzione dell’intellettuale e dell’artista, di cui egli continua a mantenere chiara la “funzione decisiva di preparazione”. Se gli intellettuali “non sono e non possono essere una classe rivoluzionaria, possono diventare peraltro un elemento catalizzatore e avere una funzione preparatoria: non l’avranno certo per la prima volta, e infatti tutte le rivoluzioni utilizzarono gli intellettuali come elemento catalizzatore; ma questa possibilità è forse più reale oggi che nel passato. E’ da questo gruppo…che saranno reclutati nel futuro più che oggigiorno i detentori del potere del processo produttivo…Questo è dunque il raggruppamento sociale dal quale verranno estratte le persone che avranno ruoli decisivi nelle posizioni di comando: scienziati, ricercatori, tecnici, ingegneri, anche psicologi, perché la psicologia continuerà a essere uno strumento socialmente necessario sia nel senso della servitù che in quello della liberazione”[8]. Per un’impensabile eterogenesi dei fini, dopo la rovinosa caduta della cosiddetta “Prima Repubblica”, la profezia marcusiana si è pienamente realizzata in Italia, nel senso più aberrante della <>. Tuttavia, il caso italiano non è isolato: “La tendenza universale della fase finale della mutazione neoliberista era stata anticipata da Michel Foucault…col modello antropologico dell’homo oeconomicus>>[9]. Non a caso alla delusione seguita dalla (ri)scoperta di un paese intollerante, ignorante, razzista, dominato da una nuova borghesia arrogante e incolta e perfino separatista (“il problema delle sub-culture…ha veementemente ripreso il sopravvento nell’Italia contemporanea, creando da nord a sud un avvitamento della storia…”)[10] Scola, portando indietro le lancette del tempo - ma, more solito, chiaramente riferendosi all’Italia contemporanea - gira nel 2001 “Concorrenza sleale”, pacata ma risoluta denuncia delle leggi razziali introdotte nel belpaese degli italiani “brava gente” nel 1938.

            Scetticismo di fondo nei confronti delle “magnifiche sorti e progressive” stabilendo “una concordanza tra la fuga di Luigi XVI e quella, ingloriosa, di Vittorio Emanuele III da Roma, dopo aver destituito Mussolini alla fine di luglio 1943”[11],  manifesta nuovamente Scola riportandoci al periodo della rivoluzione francese vissuta “in diretta”, nel già citato Il mondo nuovo (1982) in cui la declinante figura di Giacomo Casanova (un superbo e umanissimo Marcello Mastroianni), ormai in disfacimento e ridotto in miseria - offeso dalla spocchia e l’arroganza con cui un giovane “cittadino” lo rimbrotta - più degli aristocratici compagni di viaggio, riassume la delusione del vecchio illuminista di fronte al terrore giacobino,  rabbrividente nuovo che avanza mozzando teste. I paradigmatici e verbosi personaggi, ideologiche incarnazioni, ne fanno quasi un film a tesi di sapore “rosselliniano”, dove tuttavia l’acutezza della descrizione psicologia e la sontuosa mise en scéne (coadiuvata da cast e troupe di livello internazionale) restituiscono all’opera un fascino ancor oggi rimasto immutato.

            E delusioni, frustrazioni, crisi di valori, impotenza intellettuale, rabbia repressa, velleitarismi parolai, per celare l’avvenuto il distacco dalla realtà da parte dei protagonisti, accompagnano la coralità della variopinta fauna umana de “La terrazza” (1980) e “La cena”, (1998, contrappuntata dalle esternazioni di un cuoco logorroico, visto come “coscienza politica negativa”), che in opposizione alla compressione claustrofobica dello spazio - una terrazza e la sala di un ristorante - spinge l’occhio indagatore su una più generale condizione d’incupimento del paese (esistenziale, intellettuale, politico), di deriva verso il nulla, con esiti forse non del tutto soddisfacenti, ma la cui disordinata commistione è anche qui sintomo della confusione individuale e dello stordimento generale. Entrambi radiografie impietose della complessità dell’esistenza (con qualche “inevitabile” stereotipo caratteriale) e marcati dai continui rimandi storici, i due film confermano la straordinaria capacità registica di Scola di dirigere gli attori utilizzati (soprattutto nel secondo) alla stregua di strumenti musicali, per ricavarne una specie di concerto dove ora prevale il solista, ora il duetto, il trio, il quartetto... Perfetto ed esteticamente efficacissimo l’assemblaggio dell’intera “orchestra”;  assoluto il dominio dell’eterogenea e nel contempo unitaria materia trattata; da manuale l’organizzazione delle entrate e delle uscite dei molti avventori, che fanno di Scola il più “altmaniano” dei registi nazionali.

 Un bisogno di narrare il fosco stato di malessere del paese spinge Scola (ormai onusto di premi nazionali ed europei) ad approdare perfino nel noir, con un attualizzato “Romanzo del giovane povero” (1995, ispirato al celeberrimo romanzo popolare francese), clamoroso tonfo commerciale, che  - contrariamente alle garrulanti sirene d’una critica narcotizzata e spesso prona al potere - mantiene una capacità di cogliere i mutamenti (in peggio) della realtà italiana (condensata, ad esempio, nella Roma dell’ultimo, ma meno graffiante, “Gente di Roma”, 2003) dove ormai la risata ha definitivamente lasciato il passo di fronte alla rovinosa distruzione della democrazia. Infine, sconfessando la promessa di non tornare più dietro la macchina da presa, gira nel 2013 “Che strano chiamarsi Federico”, che definisce “piccolo ritratto di un grande personaggio”, docufilm rievocativo, frammentario diario della memoria, in cui ripercorre  anche le tappe della sua carriera, dai timidi approcci con la redazione del “Marc’Aurelio” all’incontro, subito trasformatosi in amicizia, con Fedrico Fellini del quale schizza affettuosamente l’affabulato mondo “circense” continuando ironicamente a parlare di se stesso.

            Dall’affollata galleria scoliana di sconfitti  - in cui non è banalmente la condizione economica, l’arricchimento, il posto al sole e il raggiungimento delle mete culturali imposte da una società intimamente malata e corrotta, ad escluderne l’appartenenza e legittimarne l’estromissione - nessuno sembra trovare via di scampo, riferendosi egli principalmente (oltre che a quella politica) ad una condizione morale sciancata, ad un’inveterata insufficienza spirituale. Dall’ampio spettro della stratificazione sociale rappresentata nei suoi film - dai politici agli imprenditori, dagli intellettuali al ceto medio, dagli operai al sottoproletariato, dai reietti agli emigrati - Scola non ha mai lasciato alcuno fuori dalla porta del palcoscenico della vita. Più in generale si può dire che mostrando, senza astioso sussiego, l’Italia e gli italiani dal dopoguerra agli anni del boom a quelli attuali della sconfitta dei sogni, Scola ha voluto ritrarre una condizione esistenziale pressoché atemporale, metastorica, archetipica e comune a larga parte degli gli esseri umani, goffi e penosi naufraghi da sempre incapaci perfino d’essere, l’uno per l’altro, relitto di salvataggio.

           

 



[1] H. Marcuse, La liberazione dalla società opulenta, in Dialettica della liberazione, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1969, pp.185-186.

[2] G.Viale, La dittatura dell’ignoranza, in  <>,  7 maggio 2010, n.15; (www.carta.org) .

[3] G. P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2003, p. 233.

[4] R. Ellero, Ettore Scola, L’Unità/ Il Castoro, supplemento al n. 49 dell’11.12.1995, p. 19.

[5] Ivi, p. 87.

[6] E. Bispuri, Scola, un umanista nel cinema italiano, Bulzoni Editori, Roma, 2006, p. 341.

[7] R. Ellero, cit., p. 58.

[8] H. Marcuse, cit., p. 189-190.

[9] F. Berardi Bifo, La rottamazione dell’intelligenza, in “Carta”, 14 maggio 2010, n. 16, che analizzando le nuove dinamiche del capitalismo finanziario, così prosegue: “Il ceto nichilista che si è impadronito del potere in Italia (ma non solo in Italia naturalmente) si muove lungo le linee di una consapevolezza inconfessabile: la civiltà umana è destinata a finire con noi, entro le condizioni del capitalismo non esiste più la possibilità di vita civile. Dunque appropriamoci in maniera frenetica del valore che proviene dalla demolizione di ciò che le generazioni moderne di proletari e borghesi hanno prodotto, a cominciare con la cultura, la scienza, il sapere…”; in pratica perseguendo “…una politica di distruzione accelerata della civilizzazione sociale”.