I venti di guerra che soffiano in Medio Oriente ed Europa

Politica | 12 gennaio 2020
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Venti considerazioni molto franche, al punto d’essere spesso “politicamente scorrette”, sulla crisi USA-Iran e sulla crisi libica. Cercando di comprendere il perché di azioni e reazioni che rischiano o hanno rischiato (tutto dipende dalla cosiddetta de-escalation delle tensioni) di trascinare milioni di persone nel baratro della guerra.

1. Gli Stati Uniti devono fare i conti con tre preoccupazioni riguardo all’Iran, teocrazia scita, una delle principali potenze militari sullo scacchiere mediorientale: 1) che non arrivi mai – o comunque il più tardi possibile – a dotarsi di armamenti nucleari; 2) che non arrivi ad affacciarsi direttamente nel Mediterraneo orientale attraverso la penetrazione sistematica già lunga di anni, un vero e proprio corridoio, in Iraq, Siria, Libano ed attraverso il saldo collegamento con le componenti scite della popolazione dei tre paesi; 3) che non sia messa a rischio la sopravvivenza di Israele, di cui l’Iran è il principale, dichiarato nemico.

2. L’Iran, a sua volta, punta ossessivamente proprio sui tre obiettivi sopra elencati. Con in più nel mirino l’Arabia Saudita, altro regime autoritario ed oscurantista, capofila dei sunniti musulmani, contro la quale combatte per procura una guerra nello Yemen. Anche nello Yemen, come negli altri paesi arabi che abbiamo citato, l’Iran fa perno sulla componente scita della popolazione locale. L’islam scita e l’islam sunnita sono in conflitto da tredici secoli, dalla dipartita del profeta Maometto e dalla frattura nata per la sua successione e per differenze dottrinali nella interpretazione del Corano. Frattura insieme religiosa e politica. Non si comprende nulla del mondo islamico – che noi occidentali vediamo erroneamente come un monolite mentre in realtà è quanto di più frammentato ed endoconflittuale possa immaginarsi – senza tenere conto di questa faglia che lo attraversa nel mezzo. I sunniti sono la maggioranza dei musulmani, l’85 per cento; gli sciti la restante minoranza del 15 per cento. Così come quasi non facciamo caso ad una essenziale precisazione: i persiani, cioè gli iraniani del nostro tempo, “non” sono arabi.


3. Nell’antichità la storia nel Medio Oriente e nel Mediterraneo la facevano le “città aggressive”: Ninive, Babilonia, Tiro, Atene, Sparta, Cartagine, Roma. Aggressive fino al punto di sottomettere popoli su popoli e formare imperi secolari. Dal medioevo in poi la storia la fanno gli “stati (nazionali) o i principati aggressivi”. L’Iran è uno “stato aggressivo”, debordante, che da quaranta anni esporta la “rivoluzione islamica” (scita) di Khomeini e la sua organizzazione teocratica statuale, risolutamente fondamentalista, in tutta l’area con cui confina. Appoggiandosi, come abbiamo visto, sulla componente scita della popolazione locale di quelle nazioni. Spesso cosiddetti “stati falliti” ossia ridotti a ben poco o niente quanto ad organizzazione sociale, economica, amministrativa da anni, se non da decenni, di guerre civili e di guerre contro nemici e conquistatori esterni. Come nel caso dell’Iraq e della Siria.

4. La sconsiderata “eliminazione mirata” il 3 gennaio 2020 da parte degli USA di Donald Trump del generale iraniano Quasem Soleimani - dal 1998 alla sua morte capo della Niru-ye Qods, l’unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica Iraniana - introduce un elemento nuovo e pericoloso nel già disastrato panorama del disordine internazionale. Si è puntato a schiacciare la testa del serpente, ad eliminare lo stratega del foraggiamento con soldi, addestramento ed armi delle fazioni e delle milizie scite in Iraq, Siria, Libano, Yemen. Sono state in prima linea nel combattere l’Isis, prevalgono militarmente sulle altre componenti della popolazione degli stati in cui vivono. E la cui politica condizionano in modo determinante, come gli sciti di Hezbollah nel Libano. Finora le “eliminazioni mirate” sono state applicate da Israele nei confronti di capi di gruppi terroristici della galassia araba, palestinese in particolare. Capi di cui il governo di Tel Aviv aveva prove certe di loro responsabilità nella preparazione di attentati od attacchi contro civili sul suolo israeliano. Il salto di qualità operato dagli Stati Uniti non ha confronti con la strategia di più basso profilo praticata dai servizi segreti e dai militari con la stella di Davide.

5. I falchi dell’Amministrazione Trump hanno messo sui due piatti della bilancia da una parte l’eliminazione di Soleimani e dall’altra le conseguenze. A cominciare dal messaggio inequivocabile che volevano recapitare ai “religiosi” al governo a Teheran: vi state “allargando” troppo, non ve lo permetteremo e, costi quel che costi, vi fermeremo prima che possiate disporre della bomba atomica. Gli americani hanno fatto bene i conti e le loro analisi, peraltro in un anno elettorale per la presidenza come questo 2020? Tutti gli analisti e consiglieri di Washington hanno ben ponderato il fanatismo e la vocazione al sacrificio ed al martirio degli sciti iraniani? Si potevano indirizzare all’Iran tanti altri tipi di messaggi “forti”. Se ne è scelto uno che definire discutibile è poco.

6. Attenzione ad Israele. Sembra acquattato, silenzioso. Ma se riceverà anche solo un colpo dall’Iran Israele risponderà con tutta la sua potenza tecnologica e militare. Sono anni che Israele attende di giustificare una sua reazione che mascheri un attacco preventivo per impedire che l’Iran si doti di ordigni nucleari. Anche perché sono anni che i capi “religiosi” iraniani minacciano di “incenerire” Israele o di “cancellarlo” dalla carta geografica. Follia realizzabile – data la modesta estensione del paese – con appena un paio o poco più di bombe nucleari. Senza dimenticare che, a sua volta, Tel Aviv dispone di armi nucleari.

La “vendetta” iraniana dopo gli oceanici ed interminabili funerali (con decine di persone morte, schiacciate nella calca) tributati da milioni di esagitati in lacrime al generale Soleimani è stata finora limitata. Un attacco con missili alle due basi americane in Iraq di Ain al Assad nella provincia centro-occidentale di Anbar e di Erbil nel Kurdistan irakeno nella notte tra il 7 e l’8 gennaio. Peraltro preavvertendo le forze armate di Bagdad le quali a loro volto hanno preavvertito quelle statunitensi. “Risposta flessibile” volutamente moderata? Si chiude con questo pareggio, anzi con questo pareggino vista la sua portata contenuta? Non sappiamo se i conti sono stati saldati così o se è solo il primo episodio di una sequenza che colpirà anche altrove. Oltre che basi militari americane in Medio Oriente l’Iran può raggiungere con i suoi missili anche impianti petroliferi nella penisola arabica e potrebbe bloccare lo Stretto di Hormuz, tra le coste iraniane a nord e quelle di Emirati Arabi Uniti e Oman a sud. In questo braccio di mare transitano le petroliere che nei terminali nell’area del golfo arabico caricano il 40 per cento del petrolio che si vende nel mondo. Basta poco per bloccare lo Stretto di Hormuz, basta affondare alcune petroliere e la crisi energetica del 1973 che da noi in Italia costrinse le domeniche ad andare a piedi avrà una riedizione. Se la crisi USA-Iran rialza il suo livello di scontro nel mirino di Teheran posso anche esserci le scintillanti ed opulente città degli Emirati Arabi Uniti e del Qatar.

7. Se Trump ha sottovalutato la portata del suo ordine di attacco, gli iraniani da parte loro hanno sottovalutato la portata dell’ ”assedio” all’ambasciata USA a Bagdad. Tutto ha inizio la sera del 27 dicembre 2019. Un razzo lanciato dagli iraniani o, più probabilmente, dalle milizie scite irakene filoiraniane su una base militare irakena vicina alla città di Kirkuk uccide un contractor di 33 anni. Più che di un contractor si tratta di un interprete arabo per l’intelligence e per le forze speciali americane, nato in Iraq ma dal 2017 cittadino statunitense. Questa uccisione sfocia in una ritorsione: un attacco americano contro miliziani sciti irakeni che provoca 20 morti. Al quale i miliziani sciti irakeni hanno ritenuto di rispondere con violente manifestazioni che hanno in pratica posto in stato d’assedio l’ambasciata statunitense a Bagdad. Apriti cielo. A Washington hanno rivissuto l’incubo - lutto mai definitivamente elaborato - dell’assalto delle guardie rivoluzionarie iraniane all’ambasciata Usa a Teheran di 41 anni fa e la presa in ostaggio per oltre un anno, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981, di 52 diplomatici e funzionari. Un nervo scopertissimo che è forse l’unica giustificazione ben poco eccepibile allo sconsiderato via libera di Trump a ridurre a brandelli il generale dei pasdaran iraniani Soleimani. La vendetta è un piatto che si serve freddo e colpisce il regista di tutte le operazioni iraniane fuori dei confini nazionali, la personificazione dell’attivismi ideologico, politico e militare di Teheran nell’intero Medio Oriente.

Per contenere l’Iran gli USA dispongono nello scacchiere mediorientale di una cintura di basi attorno ai confini persiani, dell’alleanza con paesi che vedono gli ayatollah di Teheran con lo stesso fumo negli occhi con cui li vedono alla Casa Bianca – Israele, Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Kuwait, Emirati – e del bilanciamento in funzione antiraniana che i primi quattro stati (anche loro con pretese di potenze regionali) possono assicurare. Se una qualsiasi ritorsione iraniana dovesse coinvolgerli l’intero Medio Oriente prenderebbe fuoco.

8. Andiamo oltre la crisi di queste settimane e proviamo a capire cosa succederà nei prossimi mesi. L’Iran continuerà nella sua politica debordante in Medio Oriente. Con rischi sempre in agguato ed esibizione di muscoli da una parte e dall’altra. Nella sequenza di azioni e reazioni tra USA ed Iran a quale livello ci si fermerà? E’ questa la domanda delle domande. Teheran – non sempre viene rimarcato – dispone d’un notevole arsenale di missili a corto e medio raggio. In parte di produzione russa, in parte prodotti in casa. Tecnologia iraniana. Per la verità nella prova dell’attacco alle due basi americane in Iraq di Ain al-Assad ed Erbil non è che abbiano dato particolare prova di potenza e precisione. Forse intenzionalmente, per evitare di fare imbestialire troppo l’elefante americano. Le testate dei missili iraniani per ora sono convenzionali. Fino a quando Teheran non disporrà della bomba atomica e potrà armare con armi nucleari i suoi missili. Quello sarà il punto di non ritorno. C’è hi sostiene che – approfittando del comodo alibi dell’assassinio di Soleimani per uscire definitivamente dall’accordo sul nucleare, come hanno con prontezza deciso – in un anno gli iraniani saranno in grado di disporre d’un primo piccolo gruppo di testate atomiche. Allora l’interno scenario mediorientale – e non solo quello – cambierà volto e diverrà davvero da incubo.

9. A caldo, poche ore dopo l’eliminazione di Soleimani il parlamento irakeno (irakeni contrariatissimi per essere stati tenuti all’oscuro dall’amministrazione americana del blitz che ha eliminato il generale dei pasdaran) ha votato una risoluzione per chiedere alle truppe di Washington di lasciare definitivamente il paese dopo 17 anni, quanti ne sono trascorsi dalla guerra contro Saddam Hussein. Il 10 gennaio il premier dimissionario Mahdi ha fatto esplicita richiesta agli USA di inviare una delegazione in Iraq per preparare il ritiro delle truppe USA dal paese. Il governo irakeno è da tempo nelle mani degli sciti. A sua volta l’Iran come risarcimento per l’uccisione del suo generale si “accontenterebbe” della decisione degli USA di andarsene dal Medio Oriente, a cominciare proprio dall’Iraq. Manco a dirlo si aprirebbero così praterie al controllo dell’intera regione da parte dell’Iran come principale potenza dell’area. Naturalmente il desiderio non sarà esaudito.

10. C’è un risvolto importante che sui media e nelle analisi che in questi giorni si sono sprecate non è stato adeguatamente considerato. L’anno scorso a Teheran e in altre importanti città persiane manifestazioni antiregime avevano fatto capire quanta opposizione sottotraccia alla dittatura degli ahyatollah esista nel paese. Si reclamava più libertà, meno oppressione, un costo della vita più sopportabile, a partire da quello dei carburanti, in una nazione strangolata dalle sanzioni americane. Ebbene, il regime si è ricompattato sulla bara del generale “martire” e consolidato nelle immagini delle folle oceaniche che ne hanno scortato il feretro nelle interminabili sfilate dei funerali. Lo scriviamo con tutto il desiderio di essere smentiti dalla ripresa di nuove manifestazioni dei giovani e degli studenti contro il regime: dopo la crisi acuta con gli USA scaturita dalla vicenda Soleimani temiamo che di libertà, di modernità, di regole meno claustrofobiche e confessionali, meno oppressive per le donne (debolezza di genere ricorrente nella quasi totalità dei paesi musulmani), di politica meno debordante ed aggressiva nei confronti di tutti gli stati mediorientali in Iran non si parlerà più per chissà quanti anni. Grazie Amministrazione Trump per questa genialata di iniziativa che dimostra ancora una volta come l’attuale leadership di Washington – che ha fatto di tutto per sfilarsi dall’accordo sul nucleare iraniano faticosamente raggiunto dall’Amministrazione Obama, dall’Unione Europea, da Cina, Francia, Germania, Gran Bretagna e Russia – sia contraddittoria, imprevidente e, in fin dei conti, nociva.

11. Nel lacrimatoio infinito dei funerali al generale Soleimani di sicuro nessuno a Teheran e dintorni ha dato il giusto risalto ad una fondamentale considerazione: il generale è stato insieme l’architetto e il costruttore dell’esportazione nei paesi vicini (Iraq, Libano, Siria e il più distante Yemen) dell’influenza iraniana. E della costituzione delle milizie armate scite che rispondevano più che ai governi dei propri paesi direttamente a lui, a Soleimani, ed ai padroni di Teheran. E a nessuno è passato per la testa che i 600 giovani ammazzati e i 20.000 feriti a Bagdad e in altre città irakene nelle dimostrazioni dell’anno scorso solo perché reclamavano – al solito – più diritti, migliori condizioni di vita, meno corruzione, meno ingerenza di americani ed iraniani nel loro paese sono stati massacrati in prevalenza non tanto e non solo da esercito e polizia del regime a trazione scita di Bagdad quanto piuttosto dalle milizie armate scite irakene. A cui il generale “martire” dei pasdaran ha fornito indirizzi strategici, ordini, addestramento, risorse finanziarie, armi. Ed anche know how, come fare, visto che gli iraniani nelle settimane precedenti, a loro volta, avevano soffocato nel sangue e nelle prigioni identiche manifestazioni di protesta di giovani a Teheran e in altre città persiane per i rincari del prezzo dei carburanti.

12. Nel suo discorso dell’8 gennaio Donald Trump ha rimarcato che gli Stati Uniti “non hanno bisogno del petrolio del Medio Oriente”. Sono autosufficienti. Tante grazie. Ma il resto del mondo, a cominciare dall’Europa, purtroppo ne ha ancora bisogno e guarda sempre con apprensione a quell’area-polveriera.

13. Comunque si guardi la situazione, c’è per noi italiani un dato di fatto importante: oltre 2.000 nostri militari – forze non di combattimento ma di interposizione e di addestramento – sono dislocati in Iraq, Libano e Kuwait e restano esposti alle escandescenze dei tanti, troppi agitatori professionisti che avvelenano ogni angolo del Medio Oriente.

14. Che l’aereo di linea ucraino precipitato nella turbolenta notte dell’attacco di risposta di Teheran alle due basi americane di Ain al-Assad ed Erbil in Iraq fosse stato colpito per errore da un missile iraniano l’avevamo sospettato sin dal primo lancio della notizia. Troppi vettori in cielo e troppo pericolo per gli aeromobili in volo in quelle ore di tensione. E così si è replicata la tragedia di Ustica con un tributo di vittime innocenti ben più alto. I 176 passeggeri periti nel disastro – in buona parte iraniani immigrati nel Canada, parecchi docenti e ricercatori universitari – sono stati presi a bersaglio nelle concitate ore dell’attacco. C’è da evidenziare che gli uomini in divisa di Teheran, ancora una volta, hanno pasticciato. Non solo nel colpire gli obiettivi di terra ma anche nell’abbattimento involontario di un aereo civile. Con tutta probabilità lo hanno scambiato nei radar per un jet militare americano venuto a vendicare l’attacco missilistico alle due basi nei cui bunker si erano rifugiati i soldati di Washington e di altri paesi presenti nell’area, italiani compresi.

15. Veniamo alla Libia. Nel 1911-1912 il governo Giolitti l’aveva occupata nella guerra italo-turca sottraendola al dominio dell’Impero Ottomano e ne ava fatta una nostra colonia sull’altra sponda del Mediterraneo. Centootto anni dopo i militari turchi tornano a Tripoli per “assistere” il debolissimo governo di Al Serraj, attaccato dal cielo e da terra dal “ras” di Bengasi, capoluogo della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. La Libia, liquidato Gheddafi nel 2011, è uno “stato fallito” in cui decine di tribù e milizie armate si sparano e si riposizionano l’una contro l’altra. Cancellando ogni parvenza di entità statuale. Tripoli ed Ankara hanno firmato l’anno scorso una intesa in base alla quale in caso di necessità il governo libico può chiedere assistenza militare diretta alla Turchia. E il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha assicurato di essere disponibile a schierare fino a 5.000 suoi soldati in Tripolitania ed a fornire armi ed assistenza sul terreno. A meno di qualche futura, più o meno realistica formula federativa - che conferenze di pace e diplomazie internazionali potrebbero inventarsi e proporre fra Tripolitania, Cirenaica, Fezzan, i tre principali territori che compongono la Libia – fa capolino la temuta prospettiva che Tripolitania e Cirenaica finiranno per diventare due stati a sé stanti, indipendenti. La prima sostenuta dalla Turchia, la seconda da Russia, Egitto, Emirati e (guarda un po’) Francia. In pratica la prima un protettorato turco, la seconda un protettorato russo. Se malauguratamente le cose dovessero andare così la Libia cesserebbe di esistere come stato.

I turchi storicamente disprezzano gli arabi. Ma intanto il presidente Erdogan manifesta una spiccata attitudine, anzi smania, ad “allargarsi” anche lui. E’ la grandeur in salsa turca, l’ambizione neanche tanto velata di tornare ad essere protagonisti attivi in tutti gli scenari territoriali che una volta componevano il mosaico del vasto Impero Ottomano. Insomma, Erdogan come un nuovo sultano versione XXI secolo.

16. Comunque Erdogan va contenuto. Rientra nel novero di coloro che hanno la vocazione a debordare dai loro confini. E, come osservato, non ragiona in termini di Turchia attuale ma di Impero Ottomano, ben più vasto, spazzato via dagli esiti della Prima Guerra Mondiale. Ora si proietta fino a Tripoli, non pago di aver ridotto il suo paese dopo il fallito colpo di stato del 2016 ad una dittatura travestita da democrazia, non pago di aver ridotto il suo paese ad un immenso carcere dove sono reclusi migliaia di docenti universitari, funzionari della pubblica amministrazione, giornalisti, militari, non pago di aver attaccato i curdi siriani mollati nelle sue grinfie dal disimpegno nell’area di Trump. Il 27 novembre in contemporanea con l’accordo di assistenza militare Turchia e Libia hanno firmato un memorandum of understanding per la ripartizione della piattaforma continentale sottomarina del Mediterraneo orientale. In parole più chiare la suddivisione dei diritti di ricerca sottomarina di gas e petrolio. Semplicemente cancellando dalle carte geografiche l’esistenza in quelle aree marine degli interessi di paesi ancora più prossimi come Grecia, Cipro, Egitto. Che, a loro volta, avevano tracciato linee di sfruttamento che ignoravano sia la Turchia che la Libia. Infuriata, la Grecia, da sempre tutt’altro che amica del governo di Ankara malgrado la comune presenza nella NATO, ha mobilitato l’Unione Europea e l’Egitto contro la Turchia. Quando si dice la cooperazione internazionale e sedersi attorno ad un tavolo per dialogare, comporre dissidi e cercare soluzioni che accontentano tutti….

17. Chissà che al contenimento dello strapotere di Erdogan non provvedano proprio i suoi stessi ex sodali. Il 13 dicembre, tre mesi dopo aver lasciato l’Akp, di cui era stato leader, e tre anni dopo aver lasciato la poltrona di primo ministro, Ahmet Davutoglu ha lanciato il suo nuovo “Partito del Futuro”. Tra gli obiettivi difendere la democrazia parlamentare e lo stato di diritto contro il culto della personalità. Dopo la batosta alle amministrative di Istanbul ed Ankara del 31 marzo 2019 è partita la fronda dei dissidenti interni contro Erdogan. Quella di Davutoglu è la prima scissione di peso nell’Akp, il suo partito. Originata dalle tensioni del super-presidenzialismo, cerca i voti dei conservatori islamici colpiti dalla crisi economica e contrari all’accentramento del potere ed all’alleanza con i nazionalisti del Mhp. Dopo aver disegnato tra il 2009 e il 2014 come ministro degli esteri la strategia diplomatica denominata “Zero problemi con i vicini” (che in questa fase storica finisce quasi per suonare come ironica o sarcastica) il sessantenne Davutoglu aveva preso il posto di Erdogan alla guida del partito e del governo fino al maggio 2016 quando si dimise travolto dai veleni di un dossieraggio. La sua nuova forza è accreditata di un consenso limitato che però potrebbe pesare in un sistema elettorale che richiede la maggioranza assoluta per l’elezione del Capo dello stato. La fuga da Erdogan non è finita. Tra non molto è attesa la nascita di un altro partito di ex, che potrebbe fargli ancora più male: quello di Alì Babacan, artefice della crescita economica negli anni d’oro in cui l’Occidente guardava ad Ankara come un modello di equilibrio tra democrazia, capitalismo ed islam. Il nuovo movimento di Babacan, che a quanto pare viene visto positivamente anche da un altro sodale di peso della prima ora di Erdogan, l’ex presidente della repubblica Abdullah Gul, sarebbe vicino alla soglia di sbarramento del 10 per cento per l’ingresso in Parlamento.

18. Ma torniamo alla crisi libica. Per porre due domande. E l’Italia? E l’Unione Europea? Ebbene, saranno protagoniste di qualche puntata di “Chi l’ha visto?”. Non pervenute. Dal 2016 l’Italia ha avuto ministri degli esteri del calibro di Angelino Alfano, Enzo Moavero Milanesi, Luigi Di Maio. O figure sbiadite di secondo piano o politici interessati a leadership e questioni interne nel loro partito piuttosto che alla politica estera ed internazionale. E si raccoglie ciò che si semina. Si è dato appoggio al governo di Al Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite. Nelle ultime settimane si è virato puntando ad una improbabile mediazione od equidistanza tra Al Serraj e chi lo combatte ossia l’uomo forte di Bengasi Haftar. Ma più che altro la Libia da anni viene vista e gestita come il paese sfasciato da cui si imbarcano i migranti che approdano a Lampedusa e sulle coste siciliane. Un labirinto come la Libia di interessi ed appetiti, interferenze ed ingerenze, ricchezza e distruzione, clan, tribù e milizie armate meritava un approccio molto più organizzato e sistematico. Non sono baffi nostri. Non è capacità nostra. Non siamo noi a dare le carte. Ora altri si fregano le mani e si papperanno il controllo sulla gestione delle enormi riserve di petrolio libico mentre l’ENI è in sofferenza. Ora siamo esposti per le nostre forniture di idrocarburi se dal Golfo arabico saranno a rischio e se lo sono anche dalla Libia. Intanto, nell’immediato, c’è da chiedersi che tenuta avrà la tregua che Putin ed Erdogan hanno imposto in queste ore ai due contendenti, dimostrazione tangibile del peso dei due padrini nella vicenda libica.

19.Quanto all’Unione Europea, rassegniamoci. Se si tratta di pianificare mega-programmi pluriennali è il suo mestiere. Ma di fronte alle crisi che ti scoppiano all’improvviso tra le mani non sa reagire. Non ha né la forza né la struttura né la necessaria rapidità del processo di decision making per farlo. Nelle crisi che esplodono l’UE – senza neppure la disponibilità di poche migliaia di militari di più paesi da impiegare come forza d’intervento rapido o di interposizione - con in più il fardello del suo macchinoso processo decisionale, torna ad essere solo la somma di stati che agiscono per conto loro. Gli inglesi si schierano sempre e comunque a fianco degli americani, la Germania è ricca e forte economicamente ma non ha pari capacità sul piano politico internazionale e militare, la Francia opera da battitore libero. Sua la gravissima responsabilità di aver rimandato nel 1979 l’ahyatollah Khomeini, esule a Parigi, a Teheran con tanto di scena, sua – del presidente Nicolas Sarkozy personalmente – la responsabilità di aver bombardato la Libia di Gheddafi, che peraltro (o forse appunto perché) lo aveva finanziato, con l’intento di mettere le mani sul petrolio dell’ex colonia italiana nel dopo-Gheddafi. Ognuno per sé, con una “sua” politica estera, e Dio per tutti. Di questi tempi da invocare perché non ci faccia mancare quel bene più prezioso di ogni altro che si chiama pace.

Negli ultimi giorni l’Unione Europea sta dimostrando un po’ più di attivismo. Tardivo.

20.Ed a proposito di attivismo. Come definire quello non privo di gaffe e scivoloni (come il rifiuto di Al Serraj di incontrare il premier Giuseppe Conte a Roma nella stessa giornata in cui poche ore prima a Palazzo Chigi era stato ricevuto il nemico Haftar) del nostro Presidente del Consiglio e del Ministro degli esteri Di Maio? “Ammuina” allo stato puro come nella marina da guerra borbonica quando sulle navi avvenivano ispezioni di nobili della corte od alti ufficiali: chi è a poppa va a prua, chi è a prua va a poppa. Equipaggio sempre in movimento per dare l’impressione di un incessante impegno. Sulla Libia da parte nostra tanto fumo e poco arrosto. “Ammuina”. Peraltro anche in questo caso, come nei palazzi di Bruxelles, tardiva. I buoi in Libia per noi sono scappati da un pezzo. E d’ora in poi per entrarvi, investire, commerciare, produrre, raffinare ed acquistare petrolio, per avere una parola sulla nevralgica gestione dei flussi di migranti lì bloccati e maltrattati, per essere una presenza straniera importante nell’ormai caotico quanto vicino paese dobbiamo bussare timidamente. E chiedere permesso a russi, turchi, francesi, egiziani, emiratini, qatarioti, persino sudanesi. Insomma a tutti quelli che si sono buttati nell’agone libico con l’appetito delle interferenze e delle guerre per procura. Mentre noi si litigava ferocemente e strumentalmente a Roma e in tutti i comizi elettorali in ogni città e paesino della penisola mattina, mezzogiorno e sera su immaginarie “bibliche” invasioni di migranti dalla Libia che non si sono viste. Ma sia chiaro: nessuno dei due nuovi player sullo scacchiere libico, né turchi né russi – presenti i primi più cha altro con milizie turcomanne piuttosto che con effettivi regolari almeno in questa prima fase, i secondi con alcune centinaia di contractor ossia, per chiamare le cose con il loro nome, mercenari – hanno la benchè minima intenzione di farsi sparare per i libici. Sanno fare scena e presenza. Noi non sappiamo fare neppure quelle.

 di Pino Scorciapino

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