I troppi nemici e i troppi amici di un giornalista

Cultura | 21 settembre 2015
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Cronache e giornalisti da prima pagina (Carte Scoperte, 2012) Giancarlo sapeva sorridere. E, come fanno i napoletani intelligenti, dentro ogni sorriso scioglieva un filo di sfottò: sempre senza cattiveria; ché lo sfottò dei romani, per dire, graffia maligno, mentre quello dei napoletani t' accompagna pietoso, tanto la vita è un imbroglio e loro lo sanno, non vale amareggiarsi. A 26 anni Giancarlo lo sapeva già.«A questi qua devi dare l' impressione che gli sei legato mani e piedi», sorrideva dunque una mattina d' agosto del 1985 in piazza Municipio, rifiatando sulle aiuole stente davanti a Palazzo San Giacomo. «Questi qua» erano i giornalisti «grandi» della redazione del «Mattino» e in generale coloro che avevano, per età e collocazione, un potere decisivo sul futuro di un ragazzo in una città marcia come Napoli. Troppi.Ma Giancarlo sapeva prenderli. Mai puntando i piedi, eppure senza cedere un centimetro. Li ipnotizzava, questi qua, sorridendo. Li sfotteva senza farsene accorgere, convincendoli d' essere «'nu bbuono guaglione», arrendevole. Ed era, sì, un bravo ragazzo, ma arrendevole per niente. Non l' avessero ammazzato, gliel' avrebbe fatta vedere, a questi qua. E ormai ce l' aveva fatta, quasi. Il passo avanti era indiscutibile: dopo cinque anni infernali da corrispondente abusivo a Torre Annunziata, la cittadina più criminale e fetente di tutto l' hinterland napoletano, l' avevano fatto entrare nella redazione di via Chiatamone, il cuore dell' impero del «Mattino», dove regnava il direttore demitiano Pasquale Nonno: dalla porta di servizio, sì, in sostituzione per le ferie d' un collega, è vero, ma con una scrivania tutta sua, che nella Napoli del 1985 era una promozione pazzesca.Gli avevano perfino fatto un contratto. Un articolo 12, da corrispondente d' area. Dopo che l' hanno ammazzato, su quel contratto si sono dette parecchie fesserie, e non tutte disinteressate: sicché «'o contratto» è diventato tra lacrime di coccodrillo un praticantato bell' e certo, che non aspettavano altro che darglielo, a Giancarlo...Era invece l' ennesimo paradosso napoletano. Giancarlo aveva sgobbato senza contratto nei cinque anni torresi da corrispondente; quando poi l' avevano portato in redazione, gli avevano concesso quel contratto da corrispondente ormai superato dai fatti, perpetuando la sua condizione di irregolare - i corrispondenti non lavorano in redazione - anzi quasi sublimandola. Antonio Franchini, nel suo L' abusivo (Marsilio), racconta che sulla scrivania di Giancarlo era affisso il cartello «schiavo» (sapeva sorridere, sì...), che poi fu levato in fretta, dopo l' omicidio, e sostituito da fiori a uso e consumo di flash e telecamere.Mercoledì 23 sono trent' anni che l' hanno ucciso, Giancarlo Siani. L' aspettarono sotto casa, dietro piazza Leonardo, al Vomero, dov' era nato e cresciuto. I malacarne della camorra l' attesero per ore. Lui era uscito tardi dal giornale e voleva andarsi a sentire Vasco Rossi. Dopo molti anni di abbagli e false piste, conosciamo da tempo una verità ufficiale e possiamo scrivere che Giancarlo fu ucciso perché aveva raccontato sul «Mattino» il tradimento del clan Nuvoletta verso Valentino Gionta, il boss della Torre Annunziata dove lui era andato ogni mattina per cinque anni a cercar notizie. Dovevano punirlo per questo, lo dicono i pentiti. E lo ripetono sentenze definitive.Ciò che non dicono, banalmente, è che Giancarlo non è stato ammazzato per un pezzo, ma per tutti i pezzi che andava scrivendo da mesi e mesi. Perché uno così era insopportabile per i camorristi e gli amici loro. Il punto è lì: chi era Giancarlo e cosa ci faceva a Torre Annunziata? Era una crepa in un sistema, che s' è richiuso sopra di lui appena l' ha rilevato. Ciò che nessuno aveva messo in conto è che, da morto, sarebbe stato ben più ingombrante che da vivo...La prima reazione, in una Napoli che potremmo collocare su un asse tra via Chiatamone e piazza dei Martiri (dunque tra i tavoli dell' imperdibile bar La Caffettiera, tra i politici, i giornalisti e le molte specie intermedie di sensali della notizia), è stata collocare per anni Giancarlo in un altrove ideale, tra le righe della storia, dove i morti non si notano troppo. Val la pena di ricordare, ancora con L' abusivo di Franchini, come la prima edizione del «Mattino» diede notizia della sua uccisione solo su tre colonne in prima, perché «'o guaglione» era un pubblicista, mica uno di «questi qua» col rosso tesserino da professionista. La risposta dei colleghi «grandi» (molti dei quali, oltre a lavorare per il «Mattino», collaboravano attivamente a giornaletti e centri studi messi in piedi in quegli anni Ottanta dai signorotti della politica napoletana), fu: hanno sparato a lui per dare un segnale a noi (col sottotesto che lui non era nessuno e non valeva la pena sparargli). Al funerale i «grandi» portarono la sua bara, i piccoli corrispondenti che ne avevano condiviso speranze e delusioni rimasero fuori dalla chiesa.Dopo anni di rimozione, questo ragazzino napoletano dalla faccia dolce e gli occhiali da secchione (altro inganno astutissimo, Giancarlo non era affatto un secchione e sapeva godersi la vita) è stato infine scoperto dal grande circuito mediatico continuamente a caccia di miti da masticare. Gli sono state intitolate scuole e strade, in nome suo sono stati istituiti premi giornalistici. E, vivaddio, questo è un gran bene. Come ha detto Paolo Siani, il fratello maggiore che a guardarlo ci si commuove perché sembra un Giancarlo come sarebbe potuto essere a cinquantacinque anni, «il ricordo è il solo risarcimento possibile». Naturalmente, certi percorsi del ricordo diventano di colpo trafficati.La folla degli «amici di Giancarlo» ora potrebbe riempire una curva dello stadio San Paolo. E chissà quante (garbatissime) risate si sarebbe fatto lui a vedere accanto alla sua ormai famosa Mehari verde quel corteo salmodiante liturgie dell' antimafia, in marcia da un capo all' altro della città che per anni aveva ignorato la sua morte.Ora i più giovani ne conoscono il nome, e questo conforta. Ma lo conoscono come hanno imparato a conoscere il 1992 di Mani pulite: un' icona stereotipata nel titolo di una serie tv. E questo è ingiusto. Non solo per Giancarlo, ma per il suo mondo. Per dire: la caricaturale divisione tra «giornalisti» e «giornalisti giornalisti», messa in bocca a una macchietta di caporedattore in un film pur pieno di ottime intenzioni e passione civile, potrebbe venire in mente solo a un milanese che decida di riprodurre un napoletano per come gli è stato raccontato nelle barzellette.Giancarlo non doveva stare lì - a Torre Annunziata - ma solo lì poteva stare (a guadagnarsi pericolosamente la pre-assunzione) per com' era il Sud, con un solo giornale vero, e per com' era l' Italia, senza nemmeno le scuole di giornalismo, con un accesso alla professione regolato da una tautologia «si diventa giornalisti... facendo i giornalisti», tralasciando le altre vie: essere figli o amanti di giornalisti, essere raccomandati da un politico o da un sindacalista pesante.Giancarlo insomma è uno sfregio sulla guancia pelosa della coscienza italica di allora, perciò lo si sterilizza tra mito e luogo comune. Omettendo di ricordare che, col suo sorriso, s' era visto passare davanti figli di telecronisti dc, nipoti di boss dc, fidanzate di pezzi da novanta della Regione. Per spuntarla contro costoro rischiava troppo?Potremo sfinirci a cercare la risposta. Giancarlo non era un ragazzo avventato e, al contrario di molti suoi «amici» di adesso, non posava da eroe.Ma il contesto conta. Giancarlo arriva in Mehari a Torre Annunziata nel 1980, l' anno del terremoto che fa compiere alla camorra il salto imprenditoriale ai grandi tavoli della ricostruzione. E muore nell' 85, sette anni prima di Tangentopoli, dunque con una classe politica - anche locale - sempre più corrotta e certa dell' impunità. Tramontando Cutolo, Torre è linea di frontiera: Valentino Gionta e i Nuvoletta da una parte, Carmine Alfieri e Bardellino dall' altra. In mezzo, i morti. L' ex città dei pastifici, governata da Domenico Bertone, un socialista assai più simile a un padrino che a un sindaco, finisce all' attenzione del mondo per la strage di Sant' Alessandro: 15 killer scendono coi mitra da un bus turistico e fanno otto morti e sette feriti. È l' agosto del 1984, Giancarlo inizia l' ultimo anno di vita.Ha infine la sua grande occasione, perché dopo la strage tutti, pure i giornaloni del Nord, s' accorgono di quel mattatoio meridionale e cercano come fonte quel ragazzino che, quasi senza volerlo, ha rivoluzionato un modo di lavorare. Prima di lui, i corrispondenti dai paesi sono vecchi maestri di ginnastica, presidi delle medie che mandano qualche rigo ammuffito in redazione stando ben attenti a non infastidire i boss che il giorno dopo ritroveranno al bar o in piazza. Giancarlo viene ogni mattina da Napoli, contatta carabinieri, sindacalisti, volontari, manovali dei clan, scrive tutto sul giornale e riparte, come un piccolo inviato. Con una differenza micidiale: lo fa ogni giorno, per cinque anni.Il suo vecchio capo della redazione di Castellammare, Mino Jouakim, un uomo perbene, ancora si macera chiedendosi perché, cosa si sia sbagliato. Tutto e nulla, forse.Senza contratto, Giancarlo andava tra le belve su una macchina di plastica che sembrava la 313 di Paperino, mentre il vecchio nerista principe del «Mattino», le rare volte che si schiodava dalla poltrona, girava con la scorta.Ma cade in una frattura della storia napoletana, la sua morte segna un prima e un dopo, i boia della camorra con lui escono dal loro recinto e si fanno terroristi.Trent' anni dopo, quel ragazzo del Vomero è motivo d' attrazione al giornalismo per tanti ragazzini delle scuole, se solo riusciremo a preservarlo dai mercanti che inflazionano i miti in spot e melassa infine senza senso. Però un bambino napoletano su cinque la scuola l' abbandona alle medie, e si contano 50 clan. Gli ex «moschilli» sono cresciuti, sparano e ammazzano senza neanche più prendere la mira, così, per farsi sentire dal mondo. L' orrore a Napoli è diventato «cosa 'e niente». E non è detto che Giancarlo avrebbe ancora voglia di sorridere. (La Lettura)

Bibliografia 

Due volumi raccolgono gli scritti di Giancarlo Siani: Giancarlo Siani giornalista per la verità , a cura di Amato Lamberti, Geppino Fiorenza e Paolo Siani (L' Isola dei Ragazzi, 2001) e Le parole di una vita. Gli scritti giornalistici di Giancarlo Siani , a cura di Raffaele Giglio (Phoebus Edizioni, 2006). Sulla sua vicenda, la bibliografia è ampia: Gildo De Stefano, Caro Giancarlo... Epistolario mensile per un amico ammazzato (Innuendo Edizioni, 2014); Bruno De Stefano, Giancarlo Siani.Passione e morte di un giornalista scomodo (Giulio Perrone Editore, 2012); Alessandro Di Virgilio e Emilio Lecce, Giancarlo Siani: ... e lui che mi sorride (Round Robin editrice, 2010); Antonio Franchini, L' abusivo (Marsilio, 2001); Alessandro Gallo, Scimmie (Navarra Editore, 2011); Roberto Paolo, Il caso non è chiuso. La verità sull' omicidio Siani (Castelvecchi, 2014).Infine, si parla di Siani anche nel volume curato da Giangiacomo Schiavi Scoop.
 di Goffredo Buccini

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