I rapporti privati di Ciancimino con i Ros, preludio alla trattativa tra Stato e Mafia

Società | 6 febbraio 2022
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 Venne arrestato la mattina del 19 dicembre del 1992. Si trovava nella sua abitazione di Roma. Nello stesso appartamento dove, per mesi, si incontrò con gli ufficiali del Ros dei carabinieri. Incontri che vennero poi etichettati come “trattativa”. Lui, Vito Calogero Ciancimino, nato a Corleone il 2 aprile del 1924, ex assessore ed ex sindaco di Palermo, con gli ufficiali del Ros intrattenne rapporti “privati” quelli che potremmo definire “istituzionali” cominciò ad averli 34 giorni dopo il suo arresto. Esattamente 12 giorni dopo che alla Procura di Palermo si insediò come capo Giancarlo Caselli. E proprio con il magistrato piemontese l’ex sindaco volle incontrarsi e parlare.

L’incontro avvenne alle 9 del mattino nel carcere di Rebibbia a Roma dove Ciancimino era stato portato dopo il suo arresto. A quel primo incontro oltre a Ciancimino e Caselli vi era l’allora sostituto procuratore Antonio Ingroia e il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, entrambi allora effettivi al Ros dei carabinieri.

Ciancimino alla prima domanda sul perché avesse voluto incontrare il procuratore Caselli rispose: “Sono successi fatti che mi hanno traumatizzato. Primo fra questi l’omicidio Lima, persona che conoscevo da 42 anni – e aggiunse – sia di dentro che di fuori e la cui fine mi ha sconvolto”. L’ex sindaco si trasforma, come del resto amava caratterialmente fare in un fiume in piena: “Lima – disse quasi a bassa voce – non apparteneva, almeno penso, alla categoria delle persone che possono essere uccise. Quel che si è letto sui giornali, vale a dire che Lima garantiva in sede di Cassazione non è vero perché Lima non era tipo da garantire niente. Non rientrava nella sua forma mentis, non garantiva anche se poi magari faceva. Non era un cialtrone. Lima era un capo corrente. Controllava il 25 per cento della Dc siciliana. Era persona seria che rispettava gli impegni. Questo 25 per cento dei consensi (su tutta la Sicilia) era compatto e ciò rendeva Lima forte nel senso che apparentemente più forte era un’altra corrente, quella di sinistra, che contava sul 34 per cento, ma qui c’era un esercito di generali che si paralizzava reciprocamente, mentre Lima era l’unico generale nella sua corrente con il risultato pratico che era a comandare.”

Ciancimino a questo punto, sollecitato dai magistrati palermitani entra più nello specifico: “Come tutti i politici siciliani, di qualunque corrente Lima viveva nel contesto siciliano dove una delle realtà presenti è la mafia. Ciò non significa che la mafia comandasse Lima. Lima viveva in un contesto socio-economico caratterizzato anche dalla realtà mafia, della quale i maggiori referenti erano i cugini Salvo. Lo sloga che frequentemente Lima usava riferendosi alla mafia era questo . Era questa una realtà da tenere presente, ma non per lasciarsene comandare, cosa che culturalmente i mafiosi non sarebbero neppure stati in grado di fare”.

E’ a questo punto che Ciancimino tenta di dare una visione diversa da quella che su Lima si era fino a quel momento avuta: “In sostanza, come tutti gli uomini politici, di tutti i partiti, Lima doveva tenere con questa realtà rapporti di buon vicinato che forse per lui erano più evidenti che altro. Se davvero Lima fosse stato nelle mani della mafia, esaminando le vicende del piano regolatore di Palermo e del contestuale piano di risanamento (piani di cui Lima era stato il vero autore), si dovrebbe trovare che zone appartenenti ad esponenti di famiglie mafiose ed in particolare al ghota mafioso avrebbero avuto le migliori destinazioni. Questo invece non è avvenuto perché i vari Greco, Bontate, Madonia ecc. le loro aree se le sono viste destinare a verde agricolo, verde pubblico e categorie simili”.

Esaurito, in parte il capitolo Lima, Ciancimino lancia l’affondo sul perché ha voluto l’incontro con Caselli. “Ho chiesto di incontrarla – dice – perché vi sono stati tre fatti clamorosi: l’assassinio di Lima che mi ha sconvolto, la strage in cui perì Falcone che mi ha inorridito e la strage in cui perì Borsellino che mi ha lasciato sgomento. Fatti che mi hanno indotto a cambiare idea e ho accettato di incontrare a casa mia a Roma, il capitato De Donno. Avrebbe dovuto parlare lui invece parlo io. Senza tanti preamboli dico che respingo con repulsione e sdegno la situazione che si è venuta a creare, ma quel che è più grave non riesco a vedere lo sbocco. Per i tre fatti delittuosi vi è unica matrice, dietro la quale è possibile intravedere un disegno politico. Per questo ho voluto comunicare con il Procuratore della Repubblica di Palermo”.

 di Giuseppe Martorana

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