I ragazzi Hikikomori, frutto avvelenato della società digitale

Società | 25 agosto 2019
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I più sconoscono l’esistenza della sindrome e delle conseguenze che comporta. Una ridotta percentuale di persone ne ha sentito vagamente parlare o sa più o meno in cosa consiste ma non ne ricorda il nome. Ancora meno sono coloro che ne pronunciano correttamente il nome e conoscono nel dettaglio sintomi e comportamenti di chi ne è colpito. I “Ragazzi Hikikomori” sono una frutto avvelenato della società digitale. Frutto avvelenato tra i più sconvolgenti. Ma anche tra i meno conosciuti ed analizzati. Una specie di bomba a scoppio ritardato. La sindrome deflagra senza che chi vi scivola dentro – così come la sua famiglia – se ne renda conto. Quando si è finiti in questo buco nero di sofferenza adottare contromisure adeguate non è affatto facile. Occorre tempo, pazienza. E mentre l’intero nucleo familiare – che con angoscia ne sperimenta le conseguenze devastanti – sbanda inevitabilmente, occorre tatto e comprensione per chi è soggiogato dalla sindrome. Ma è necessaria anche una rete di sostegno che possa aiutare la famiglia, oltre che il ragazzo o la ragazza “Hikikomori”, a venire fuori dall’incubo. Se ne verrà fuori.

Figli isolati, adolescenti che ad un certo punto decidono di chiudere con il mondo esterno e di rinchiudersi dentro le loro camerette, di vivere segregati dentro la loro vita senza più andare a scuola, vedere gli amici, fare sport. Senza uscire, mantenendo un contatto con il mondo solo attraverso la rete. Sono i “ritirati sociali”, quelli che si sentono al sicuro, protetti dal mondo, solo dentro quattro mura. Per loro e per le loro famiglie è una vita di pena, di dolore: i genitori nel corridoio, i ragazzi dietro una porta chiusa. Un tunnel con vari stadi, che può durare anni e dal quale c’è da sperare di uscire piano piano.


Non esistono dati certi sulla diffusione del fenomeno in Italia. Si suppone che questi ragazzi siano circa 100 mila, tra i 13 e i 20 anni. Con un picco intorno ai 15 e 17. Più maschi che femmine, per ora. Ma sembra che il numero delle donne sia sottostimato. Il problema è che continuano ad aumentare. Il fenomeno, scoppiato in Giappone, è relativamente recente e poco noto. Ma si sta diffondendo rapidamente in tutta Europa. Sono i “Ragazzi Hikikomori” dalla parola giapponese che vuol dire letteralmente “stare in disparte”. All’inizio accusano mal di pancia o di testa che impedisce loro di andare fuori con gli amici, di praticare attività sportiva e, infine, anche di andare a scuola. Un processo lento, progressivo, che trova impreparati i genitori. Difficile capire cosa stia succedendo davvero, dentro di loro. Difficile intervenire, perché forzarli porta all’effetto contrario.

In Italia è stata costituita una rete di genitori che si aiutano a vicenda con consigli e racconto di esperienze. Cercano di farsi forza gli uni con gli altri. Un mutuo soccorso nello spazio di dialogo su Facebook in una pagina a gruppo chiuso, riservata esclusivamente ai genitori di ragazzi con problemi di isolamento sociale e difficoltà relazionali. Uno spazio protetto (alla curiosità di estranei a questo problema, a psicologi, ricercatori, giornalisti, curiosi) dove poter raccontare la propria esperienza, scambiarsi opinioni o sostenersi a vicenda. L’associazione “Hikikomori Italia Genitori” è nata nel mese di giugno del 2017 come estensione del gruppo Facebook. Con un obiettivo: sensibilizzare le istituzioni per ottenere maggiori diritti e servizi.

I “Ragazzi Hikikomori” diventano invisibili. Essi stessi fanno di tutto per esserlo rispetto al mondo esterno. Per questo, nonostante siano molti e ogni scuola abbia banchi che all’improvviso diventano vuoti, se ne sa pochissimo. Difficile capire perché ragazzi sani, spesso con un livello intellettivo molto alto, ottimi risultati scolastici e soprattutto con una profonda sensibilità, si autorecludano. Senso di inadeguatezza, bassa autostima, panico. “Gli Hikikomori si isolano per fuggire dalla pressione di realizzazione sociale, dalla paura di essere giudicati per le loro debolezze. Non si identificano in questo modello di società ipercompetitivo e basato sul successo personale e decidono di smettere di farne parte” spiega all’ANSA Marco Crepaldi, fondatore e presidente di “Hikikomori Italia”. L’agenzia giornalistica ha dedicato al fenomeno lo scorso 25 maggio una approfondita analisi firmata da Alessandra Magliaro dal titolo “Hikikomori, giovani in ritiro sociale. La rete dei genitori per aiutarli” alla quale facciamo ampiamente riferimento in questo articolo. La Magliaro, caposervizio cultura e spettacoli dell’agenzia giornalistica, è l’ideatrice e curatrice del canale “ANSA lifestyle” su “ANSA.it”, il portale di tendenze, teen, moda, società, tempo libero, beauty, people sul quale è stato pubblicato il documentato approfondimento di una patologia che ancora stenta a trovare adeguato spazio nei media. Invece, considerata la sua rapida diffusione, è necessario che attenzione e monitoraggio siano moltiplicati.


Sulla scorta della sua esperienza concreta l’Associazione “Hikikomori Genitori Italia” ha stilato un decalogo per cominciare ad affrontare il problema: 1) Sgridarli e punirli non serve, costringerli a fare qualcosa nemmeno. 2) E’ importante riconoscere il loro problema e parlarne. 3) Negare l’uso di internet serve solo a isolarli ancor più. 4) Sdrammatizzare le situazioni e non rispondere alle loro provocazioni. 5) Spezzare la routine, inventare diversivi per farli uscire dalla stanza. 6) Attivare situazioni di socializzazione protette. 7) Convincerli a fare psicoterapia. 8) Informare la scuola del disagio dei ragazzi ed aprire un dialogo con i docenti. 9) Tenere i nervi saldi: perdere la pazienza è controproducente. 10) Confrontarsi con altri genitori. Fare rete, come accade nel gruppo HKM, fa sentire meno soli ed aiuta ad affrontare la situazione.

La scuola ha un ruolo fondamentale. Il malessere si manifesta spesso nel passaggio dalle medie alle superiori. E’ il momento in cui ancora professori e compagni possono avere una funzione preziosa. In accordo e collaborazione con la famiglia che altrimenti si sente persa, abbandonata, incapace di affrontare il dolore, la situazione che mina la vita familiare, la vergogna per un malessere di cui ci si sente responsabili.

Quasi sempre il ritiro si abbina ad un uso ossessivo della rete che diventa l’unico luogo per loro frequentabile. Si rifugiano lì, in un mondo virtuale, senza rischi. E’ una risorsa il web, senza dubbio, perché evita l’isolamento assoluto. Ma è anche un rifugio in un mondo irreale che li intrappola. E’ come se questi ragazzi si fossero scottati mettendo la mano su una piastra bollente (il fuori). Difficile convincerli a rimettere la mano su quella stessa piastra. Pur rassicurandoli, dicendo loro che è spenta, è improbabile che lo facciano di nuovo subito. Ci vuole tempo. Devono sentirsi sicuri di non essere in pericolo. La sfida è riportarli fuori piano piano, alle relazioni umane, studiando percorsi protetti che vedano la collaborazione di strutture sanitarie specializzate, degli istituti scolastici frequentati, delle famiglie. La formazione didattica in senso stretto si potrebbe raggiungere al limite anche attraverso percorsi domiciliari. Ma il vero obiettivo è farli uscire di casa e riavvicinarli alla scuola lavorando sull’accoglienza, su attività pomeridiane, sul dopo scuola. Contando – è superfluo sottolinearlo – sulla sensibilità di professori e compagni.


A monte d’ogni strategia però bisogna che ci sia una conoscenza del fenomeno ben più ampia di quanto se ne sa adesso. A tutti i livelli: ragazzi, genitori, docenti, operatori sociali e della sanità. In definitiva sono più che altro le famiglie che – andando a sbattere contro la “Hikikomori” – si danno da fare a studiarla, a documentarsi, ad affrontarla. Sempreché riescano a mantenere la lucidità di non esserne travolti. Ma – in una logica di prevenzione – dovrebbero saperne di più “tutti” i professori, “tutte” le famiglie, “tutte” le comitive di amici (un valore fondamentale come l’amicizia vera dei coetanei in quest’ottica può fare molto). Per intervenire prima che un figlio, uno studente, un amico dall’oggi al domani si autorecluda in un mondo fatto solo di una cameretta. Con un’unica finestra: quel legame costituito dall’uso distorto d’un computer o d’uno smartphone con il quale affacciarsi solo su Internet e sul web. Senza parlare con nessuno, rifuggendo ossessivamente dall’interazione con gli altri esseri umani in carne ed ossa.

 di Pino Scorciapino

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