Il Consiglio dei ministri ha varato i primi provvedimenti sulla scuola. Sono tre sono le questioni che avranno gli effetti maggiori sul suo funzionamento: gestione del personale insegnante, rigidità degli insegnamenti e ruolo dei dirigenti. Per tutte e tre restano aperti i problemi di attuazione.
LA GESTIONE DEGLI INSEGNANTI
Il Consiglio dei ministri del 12 marzo ha varato un disegno di legge che
rappresenta il primo punto di ricaduta del progetto della “Buona scuola”,
lanciato a settembre. Per quanto è dato sapere dalle slide visibili in rete e
dai resoconti giornalistici, solo alcuni dei temi preannunciati sono stati
recepiti ora, mentre altri troveranno forse attuazione in disegni di legge
futuri. I nostri commenti si fermano quindi ad alcuni dei dieci punti illustrati
in conferenza stampa.
Tre sono le questioni sostanziali, a più alto impatto
sul funzionamento delle istituzioni scolastiche (e anche sul bilancio pubblico
nel medio-lungo periodo).
La prima riguarda la gestione del personale
insegnante. È riconosciuto da tutti che l’attuale assetto di determinazione
degli organici della scuola (basato sulle previsioni di iscrizione di febbraio,
che definiscono il cosiddetto organico di diritto, cui fa seguito l’assestamento
a seguito delle iscrizioni effettive a luglio, che fissano l’organico di fatto)
non funziona: troppo rigido, finisce spesso con nominare in ritardo personale
temporaneo su un numero eccessivamente elevato di classi.
C’è poi da
ricordare che una delle ragioni che ha messo in moto il progetto della Buona
scuola è stata la previsione (poi confermata) della condanna del governo
italiano davanti alla Corte di giustizia dell’Aja per “eccessivo ricorso ai
contratti temporanei” nell’assunzione degli insegnanti. La via d’uscita proposta
dal governo è in linea di principio brillante: risolvere l’eccessivo viavai
sulle cattedre immettendo in ruolo i precari iscritti nelle graduatorie a
esaurimento. In questo modo si stabilizza il personale docente e si tamponano i
potenziali ricorsi per l’immissione forzosa di tutti coloro che abbiano
insegnato per più di tre anni anche non consecutivi. E a questo scopo sono stati
inseriti fondi per 1,5 miliardi nella legge di stabilità.
La soluzione
incontra però una serie di problemi attuativi. Il primo è la carenza di
informazioni elementari: l’amministrazione pubblica non è in grado di
quantificare con precisione quanti siano i potenziali ricorrenti a seguito della
sentenza della Corte di giustizia. I numeri che circolano oscillano tra 130 e
160mila. Oltre che per gli studenti, in Italia manca anche una anagrafe dei
docenti della scuola (che invece esiste per
l’università). Ad esempio il ministero dell’Istruzione conosce solo
parzialmente i titoli di studio e la carriera pregressa del proprio personale
(nonostante alcune lodevoli sperimentazioni siano state promosse dall’Ufficio
statistico dello stesso Miur). Per la precisione, esistono gli atti
amministrativi (cartacei) corrispondenti alle varie voci, ma si tratta di
informazione ancora poco processabile informaticamente.
L’ORGANICO FUNZIONALE
Il secondo problema attuativo è il mismatch, l’imperfetta
coincidenza tra le caratteristiche della domanda e dell’offerta. Nessuno è in
grado di dire se le aree (didattiche o territoriali) dove gli incarichi
temporanei sono più diffusi siano le stesse dove maggiore è la presenza di
persone con più lunga esperienza di precariato. A titolo di esempio, si sa che
gli incarichi annuali sulle cattedre di matematica sono più frequenti perché le
graduatorie sono vuote. Non ci sarebbero quindi precari da stabilizzare per
ricoprire queste cattedre, su cui si sarà costretti a continuare a fare ricorso
a incarichi temporanei.
Il sistema italiano delle classi concorsuali, che
affligge in egual misura scuola e università, impedisce un utilizzo più
flessibile del corpo docente. Quando l’allora ministro Gelmini diminuì gli orari
d’insegnamento nelle scuole per poter ridurre gli organici, contribuì ad
alimentare la platea dei precari, particolarmente nelle materie soppresse o
ridimensionate. Quando gli attuali ministri Giannini e Franceschini plaudono
alla reintroduzione della musica e della storia dell’arte nell’insegnamento
delle scuole italiane, prendendo atto nel contempo che a legislazione vigente a
questi insegnanti precari da stabilizzare non si può che far insegnare la
materia per cui molto probabilmente sono abilitati.
Il nostro paese è
caratterizzato da pratiche didattiche centrate molto sui contenuti disciplinari
(sei un bravo insegnante se conosci bene la materia) e poco sulle capacità
trasversali (quali stimolare la capacità di problem solving degli
studenti). Questo rende gli insegnanti poco fungibili tra loro: un insegnante di
italiano non insegnerà storia dell’arte, o uno di matematica non insegnerà
fisica (o viceversa), perché ciascuno di loro potrà dichiararsi incompetente
nell’altra materia. È chiaro che questo richiede flessibilità e disponibilità da
parte degli insegnanti nella progettazione didattica su contenuti per i quali
fino a oggi non hanno esperienza didattica.
Su questo terreno, che è
squisitamente materia di contrattazione sindacale, il decreto legge introduce
due elementi che possono essere anticipatori di ulteriori interventi
futuri.
Il primo è quello dell’introduzione di un organico funzionale. Per
come è stato presentato, si tratterebbe di un gruppo di insegnanti in
sovrannumero rispetto all’organico richiesto per la didattica ordinaria,
assegnato non a una singola scuola ma a un gruppo di istituti con l’obiettivo di
coprire le assenze temporanee dei colleghi che svolgono la didattica ordinaria
(rendendo quindi superata la figura del supplente nominato su cattedre
temporaneamente scoperte) nonché di promuovere progetti aggiuntivi (lotta alla
dispersione, potenziamento di alcune aree disciplinari, promozione dei progetti
di alternanza scuola-lavoro). Questi insegnanti, perciò, dovrebbero essere per
definizione fungibili su un ampio spettro di mansioni possibili. In quanto tale
il ricorso a organici funzionali permette di immaginare formule organizzative
delle scuole molto più creative. Si provi a immaginare una scuola come un gruppo
di insegnanti che eroghi un certo numero di ore complessive di didattica,
scegliendo liberamente i contenuti formativi (oltre che la loro articolazione
temporale). Si romperebbe così il legame tra insegnante e cattedra, a beneficio
dell’adattamento dei contenuti ai discenti. Occorrerebbe ovviamente contemplare
alcune forme di indirizzo e di verifica a posteriori dei livelli di
apprendimento, ma la forma organizzativa attuale delle scuole ne uscirebbe
completamente rivoluzionata.
IL RUOLO DEI DIRIGENTI
E qui arriviamo al terzo punto sollevato dalla riforma, che è quello del
ruolo dei dirigenti scolastici. Quanto maggiore diventa la fungibilità dei
docenti (qualcuno malevolmente la chiamerebbe flessibilità) tanto più rilevante
diventa il ruolo del dirigente che deve coordinare il potenziale didattico
presente nella sua scuola.
Molti dirigenti scolastici non
sono a mio parere in grado di svolgere il ruolo di indirizzo, perché non
sono stati selezionati sulla base di queste competenze. Tuttavia, nella
presentazione del disegno di legge si parla di presidi che “potranno formare la
loro squadra”. Non è chiaro come sia possibile combinare scelta dei dirigenti e
garanzia del ruolo degli insegnanti, senza che esista un meccanismo di
aggiustamento quando domanda e offerta di nuovo non coincidono. Cosa succede se
due o più dirigenti si contendono lo stesso insegnante? Possono fargli offerte
al di sopra della retribuzione contrattuale (o in modo equivalente offerte di
riduzione del carico orario)? E all’estremo opposto: cosa accade di un
insegnante così scadente che nessun dirigente voglia in squadra, e che pure sia
di ruolo e che quindi debba garantire la propria prestazione didattica?
Possibile immaginare la fuoriuscita verso altre amministrazioni pubbliche, ma
attraverso quali strumenti contrattuali o legislativi attuarlo non è al momento
chiaro. (Info.lavoce)